Chi investe ancora sui combustibili fossili nonostante il cambiamento climatico sta rischiando circa 2mila miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Un rapporto del think tank "Carbon Tracker" fa i conti in tasca alle imprese del settore energetico. E l’Italia è tra i primi 15 Paesi al mondo più esposti
La transizione energetica è in corso, e la direzione di marcia imposta dal cambiamento climatico punta lontano dai combustibili fossili. Ma non tutti vogliono ammettere che il treno ha abbandonato la stazione, anche a costo di scommettere -e conseguentemente perdere- 2mila miliardi di dollari.
Inizia così l’ultimo report (“The $2 trillion stranded assets danger zone”) curato dal team di “Carbon Tracker” –think tank composto da esperti finanziari, legali e in ambito energetico- e pubblicato a pochi giorni dall’inizio della Conferenza sul Clima di Parigi, COP21.
L’obiettivo dei curatori del rapporto è dimostrare come a fronte della sempre più incisiva azione internazionale contro il cambiamento climatico -che ancora una volta l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) in seno alle Nazioni Unite ha dichiarato “inequivocabile”- e dello sviluppo di “tecnologie pulite”, continuare a insistere in progetti o investimenti a “base fossile” non potrà che rivelarsi una scelta “antieconomica”.
Il perché è contenuto in uno studio pubblicato all’inizio del 2015 sulla rivista Nature secondo il quale il contenimento del cambiamento climatico passa attraverso la rinuncia a quattro quinti delle riserve di carbone conosciute ed estraibili, un terzo di quelle di petrolio e metà di quelle di gas. Un appello al buon senso che contrasta con interessi e margini delle compagnie attive nel settore, che su quelle riserve hanno costruito bilanci e impostato previsioni.
Ma il report è chiaro: se l’impegno a livello globale di contenere l’incremento delle temperature entro i 2°C da qui al 2100 venisse mantenuto, la “bolla del carbonio” esploderebbe. “Le società energetiche che accettano di dover di qui in avanti ridurre l’offerta dei prodotti ad alta intensità di carbonio sono ancora troppo poche”, sostiene infatti James Leaton, autore del rapporto.
Secondo uno degli scenari di riferimento del rapporto -il “450” assunto dall’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), che delinea un andamento energetico compatibile con l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperatura entro i 2°C costringendo la concentrazione di gas serra nell’atmosfera entro circa 450 parti per milione di CO2– l’atteso picco del petrolio del 2020 renderebbe di fatto irrecuperabili 1,3mila miliardi di dollari messi a bilancio per il futuro e 124 miliardi di dollari di progetti già esistenti, evitando peraltro al Pianeta 28mila tonnellate di nuove emissioni di CO2.
E i Paesi finanziariamente più esposti a causa di progetti legati strettamente ai combustibili fossili sono gli Stati Uniti (per 412 miliardi di dollari), Canada (220 miliardi), Cina (179 miliardi), Russia (147 miliardi) e Australia (103 miliardi): i più sordi, secondo gli autori del rapporto, all’invito di effettuare “stress test” adeguati alle prospettive.
Lo stesso vale per le aziende e i loro investimenti inutili o non necessari da qui ai prossimi dieci anni: Shell (76,9 miliardi di dollari), Pemex (77 miliardi), ExxonMobil (72,9 miliardi), Rosneft, BP, Chevron, fino a EniSpa e i suoi 37,4 miliardi di dollari. Uno scampanellio che qualcuno preferisce ignorare. Fa specie a tal proposito scorrere le pagine dello studio di McGlade ed Elkins su Nature -quello che spiega perché lasciare intonse riserve fossili già note- e poi intercettare il tweet del presidente del Consiglio Matteo Renzi durante COP21, “Clima, l’Italia c’è…”-, giunto a pochi mesi dai festeggiamenti per la “scoperta da record” di Eni, del giacimento Zohr nel Mediteranneo, in Egitto, “Risultato straordinario” (sempre Renzi).
L’enfasi si sgonfia alla tredicesima pagina del report di Carbon Tracker, nel paragrafo dedicato al gas, quando l’Italia -citata una sola volta- compare nei primi quindici Paesi al mondo in tema di investimenti in combustibili fossili assolutamente non necessari.
L’inchiesta su Eni a 20 anni dalla quotazione in Borsa pubblicata sul numero di ottobre di Altreconomia
Pur restando allergico agli anticorpi e ai correttivi, l’universo finanziario ha comunque accettato (o meglio, è stato costretto ad accettare) il ruolo di interlocutore del cambiamento climatico. L’ha fatto nelle scorse settimane il maxi fondo d’investimento BlackRock, attraverso la pubblicazione a inizio novembre dello studio intitolato "Il prezzo del cambiamento climatico". Un’ulteriore dimostrazione la fornisce l’approfondimento di Carbon Tracker, quando recupera e sottopone al lettore una recente uscita del governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney. “Il cambiamento climatico è la tragedia all’orizzonte -ha dichiarato a settembre di quest’anno (qui l’intervento integrale)- e quando questo tema diventerà una questione fondamentale per la stabilità finanziaria, allora sarà probabilmente troppo tardi”.
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