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Esteri

I volti della fuga

La prefazione di don Virginio Colmegna al libro di Emiliano Bos "In fuga della mia terra", una novità di Altreconomia edizioni in libreria dalla prima settimana di marzo

Di fronte a un’Europa che alza barriere e a un’Italia che criminalizza l’immigrato è certamente significativo un lavoro come questo, che attraversa il mondo intero, le zone dove si avverte il dramma della povertà, della miseria e dell’ingiustizia, ma dove soprattutto vibrano le storie delle persone e i loro volti.
I processi globali hanno di fatto superato le barriere, eppure ci sono ancora uomini e donne non considerati come persone, che portano dentro di sé l’abbattimento di tali barriere.
Questo testo chiede uno sguardo profondo che chiama in causa anche il nostro modo di pensare a un equilibrio di sviluppo sostenibile, col quale si può guardare al mondo con gli occhi della giustizia e della fraternità, anche in un pianeta carico di così tanti conflitti.

Assistiamo a una regressione culturale. Si gioisce per la ricorrenza della caduta del Muro di Berlino e intanto si alzano nuovi steccati. Il cardinale Carlo Maria Martini ha sempre esortato a costruire ponti, non muri. Invece l’immigrazione continua a essere considerata solo in base al paradigma della sicurezza. L’immigrato fa paura, anche se ormai ci sono processi migratori forti dal punto di vista numerico. Non dobbiamo dimenticare che si tratta sempre di persone con le loro storie. Con grande precisione, con tutta la passione che ha, non solo da cronista e da uno che raccoglie notizie ma da uno che incrocia le storie, Emiliano dialoga con queste storie, si interroga sul grande tema del viaggio, che accompagna la sua esperienza personale ma accompagna anche le pagine di questo libro.
Per me riguarda anche la dimensione della mia fede, fondata su una parola, su un viaggio, su un esodo. Un Dio che si rivela invitando un popolo a uscire dalla schiavitù, a camminare nel deserto, ad arrivare alla terra promessa.

Il tema del viaggio recupera tutte le culture e tutte le religioni del libro. Chi cammina, con ciò stesso testimonia questo grande bisogno di fra­ternità. La stessa metafora del viaggio è spesso rappresentata in quella particolare ricerca di Dio che è la vita monastica, la cui rilettura moder­na comporta il recupero del tema dell’incontro e non della fuga. Si torna così a incontrare l’umanità delle persone.
Invece oggi, da noi, troppo spesso l’immigrato conta solo come persona “utile” a un mercato del lavoro senza regole, al punto che si programmano i flussi come se fosse un mercato organizzato.
Non è così: questo sistema è fatto per essere trasgredito. Due immigrati su tre hanno ottenuto il permesso di soggiorno dopo essere stati irregolari. L’irregolarità è paradossalmente il percorso principale per diventare regolari in Italia. La nuova legislazione non definisce i reati per responsabilità individuale ma per il solo fatto di essere migranti, gettando nella nostra cultura la paura dell’immigrato, la sua pericolosità. Ecco perché stiamo regredendo ed ecco perché il tema della cittadinanza diventa centrale. E già prima del decreto sicurezza, per avere il permesso di soggiorno bisognava recarsi in Questura. Non è stato creato nemmeno un servizio amministrativo per la gestione dell’immigrazione.

Quel che è accaduto a Rosarno è un segnale di grande preoccupazione, di un clima che non vale solo per gli immigrati ma che denuncia il forte tasso di esclusione di questo frangente storico, un’esclusione così forte che per far parlare di sé necessita di gesti clamorosi, come occupazioni di aziende con operai che salgono sulle gru o sui tetti.
Penso a Milano e alla sua area metropolitana, dove il tema della sicurezza interpella tutti, centrodestra e centrosinistra. L’intero governo del territorio è gestito sotto l’egida della sicurezza, per proteggere “i nostri”, in base a criteri di chiusura e rigidità. Basta guardare al lavoro nero e alla situazione di moltissime badanti a servizio anche nelle case di famiglie dell’alta borghesia milanese. La regolarizzazione del settembre 2009 è stata un bluff. Eppure la familiarità del fenomeno migratorio dovrebbe essere un fattore di coesione sociale: le nostre famiglie portano in casa gli stranieri, poi però non ci sono strumenti né incentivi.
Alla Casa della Carità, a Milano, abbiamo le “badanti di ritorno”: se muore la persona accudita per tanti anni, loro restano senza lavoro. Questa è la mentalità dell’utilizzo delle persone. E poi vedo che tra i nostri ospiti si è abbassato molto il tetto d’età. I minori stranieri non accompagnati, una volta maggiorenni, diventano illegali, con un grande sperpero di investimenti in cura e ospitalità. Non solo, ma questo crea fantasmi senza dignità, fasce di invisibili di fronte ai quali la criminalità organizzata non sta ferma. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che dall’altra parte c’è una grande vitalità sociale che rischia di passare sotto silenzio e di essere risucchiata da un approccio assistenzialista.
Leggendo questo libro entra dentro di noi lo sguardo dilatato di un viaggio che nasce da un’inquietudine di dolore e sofferenza, come ci raccontano le tante storie dei naufraghi, di coloro che cercano -disperatamente- di lasciare la propria terra e spesso incontrano ecatombe e morte. Penso al grande cimitero nascosto che separa Lampedusa dalla Libia, in quel mare.

Non sono pochi i viaggi che l’uomo subisce, spesso interamente segnati dal dolore: l’esilio, la deportazione, l’emigrante in cerca di cibo e fortuna. Però c’è questa dimensione del cammino che caratterizza, comunque, sempre una realtà di uomini e di donne che guardando al futuro si radicano nel presente, fanno memoria di tutte le esperienze passate. Mi ricordo quello che dice Sant’Agostino: “Consolati della fatica, canta e cammina”.
Nel testo che segue, vi è questo racconto, che fa intravedere sempre il filo rosso della speranza, dove non può mancare la fiducia di poter continuare il viaggio arricchiti anche dall’esperienza dell’incontro. È un invito molto profondo a superare quello che spesso noi chiamiamo l’assistenzialismo, il pietismo, il commuoversi e poi lasciare le cose così come sono. E allora credo che questo libro, con il dramma delle tante esperienze, sia una lettura anche profondamente spirituale, nel senso più laico della parola, nel senso del dialogo profondo. Perché tutte le persone che si incontrano, segnate a volte dalla miseria, dal dolore, dalla povertà hanno all’interno questa dimensione spirituale, una dimensione che vale per tutti noi. Nella prima lettera di Pietro, Pietro si rivolge ai suoi destinatari che chiama “stranieri e pellegrini”. Lo siamo un po’ tutti. Nella Lettera a Diogneto, testo cristiano tra i più antichi, si afferma: “Abitano una loro patria, ma come stranieri. A tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri. Ogni terra straniera è patria per loro, e ogni patria è terra straniera”. Anche nell’Islam il pellegrinaggio alle città sante è importante. E in fondo gli si riconosce uno spazio significativo, richiamando il viaggio interiore, che è particolarmente sviluppato anche nella mistica Sufi.

La lettura di questo testo non è semplicemente una cronaca delle tante esperienze appartenenti a quel patrimonio di vita che Emiliano interpreta, ma ci consegna un messaggio: riguardare anche spiritualmente un grande percorso drammatico, perché questi sotterranei della storia palpitano di vita e di speranza. Bisogna capovolgere anche il nostro sguardo verso l’umanità e concentrarci davvero su questa speranza che non cessa. Però lasciateci raccontare le cose come sono, poi ognuno trarrà le sue conclusioni. Non impediteci di narrare quello che viviamo ogni giorno, a Milano come nel mondo che è qui raccontato.

*don Virginio Colmegna, presidente Fondazione Casa della Carità

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