I privilegi del pomodoro – Ae 69
La Wto lo ha ribadito al suo quarto incontro plenario a Hong Kong: le regole del commercio mondiale seguono gli interessi dei Paesi ricchi. A partire dai sussidi all’agricoltura Noi chiudiamo i nostri mercati ai vostri prodotti, voi aprite i…
La Wto lo ha ribadito al suo quarto incontro plenario a Hong Kong: le regole del commercio mondiale seguono gli interessi dei Paesi ricchi. A partire dai sussidi all’agricoltura
Noi chiudiamo i nostri mercati ai vostri prodotti, voi aprite i vostri mercati ai nostri prodotti. Al quarto incontro plenario che si è svolto nel dicembre scorso a Hong Kong (dopo Seattle, Doha e Cancun), l’Organizzazione mondiale del commercio ha confermato quello che già sapevamo: le regole del commercio internazionale seguono gli interessi dei ricchi del pianeta. Ad esempio: le regole della Wto dicono che per garantire la libertà del mercato internazionale sono vietate sovvenzioni statali all’esportazione che alterino i prezzi dei prodotti, pena il ricorso a dazi compensativi da parte dei Paesi che si sentono danneggiati. La regola generale prevede tuttavia importanti eccezioni. Per la Wto, infatti, quelle europee e statunitensi all’agricoltura sono sovvenzioni legittime e non possono generare dazi compensantivi.
Da anni quello delle sovvenzioni agricole è uno dei temi centrali del confronto all’interno della Wto e ha fatto la parte del leone anche nella ministeriale di Hong Kong: i Paesi in via di sviluppo hanno chiesto che Ue e Stati Uniti eliminino i sussidi ai propri agricoltori. Il governo Usa per esempio sovvenziona i propri coltivatori di cotone per oltre 4 miliardi di dollari (in media, a ognuno di loro, va un sussidio di circa 114 mila dollari l’anno). Si calcola che tutto ciò si trasformi in una perdita di circa 400 milioni di dollari per i coltivatori africani.
Ma poiché si tratta formalmente di sussidi “interni” e non destinati all’esportazione, secondo l’Organizzazione mondiale del commercio gli Stati Uniti non infrangono le regole.
In cambio dell’apertura dei mercati nei Paesi in via di sviluppo, l’Europa ha promesso a Hong Kong di eliminare sussidi agricoli analoghi entro il 2013. Tuttavia, ancora per il 2006 l’Ue prevede stanziamenti per l’agricoltura pari a 51 miliardi di euro, quasi la metà del budget comunitario, due miliardi in più rispetto a quelli erogati nel 2005. Di questi, gli interventi di aiuto diretto ai coltivatori saranno quasi 35 miliardi di euro, quelli sui mercati di oltre otto e mezzo.
Il resto viene contabilizzato con la dicitura “misure per lo sviluppo rurale”.
Le regole della Wto stabiliscono che ogni Stato possa innalzare barriere doganali contro l’importazione di determinati prodotti, se ravvisa che questi godano di sovvenzioni statali o siano venduti all’estero a un prezzo inferiore a quello del mercato da cui provengono (il cosiddetto dumping). L’Europa, per difendere i propri mercati, non lesina il ricorso a questo tipo di interventi: oggi ci sono circa 150 misure di “protezione” nei confronti di prodotti extraeuropei, e sono in corso un centinaio di istruttorie per altrettanti prodotti. L’istruttoria scatta se un gruppo di produttori europei (ai quali sia riconducibile almeno il 25% della produzione continentale) denuncia un caso. Un’apposita commissione della Direzione generale del commercio analizza la filiera del prodotto in questione, e se ravvisa casi di dumping o di sovvenzioni statali, propone al Consiglio europeo di “proteggere” il mercato interno con l’introduzione di balzelli in dogana, a “compensazione” dei prezzi esteri troppo bassi. Il verdetto e l’eventuale introduzione delle misure compensative, che durano di solito un quinquennio, arrivano dopo circa un anno dalla presentazione della denuncia. Per il Paese dal quale provengono i prodotti “incriminati” rimane l’appello al Tribunale della Wto. Una delle istruttorie in corso è quella sulle scarpe cinesi, che dal gennaio 2005 non sono più soggette a “tetti” e che stanno invadendo il mercato italiano (più 300% in un anno, coi prezzi scesi del 25%) per cui la decisione è attesa per fine febbraio. Per voce del suo presidente Rossano Soldini, l’Anci (l’associazione di categoria dei calzaturieri italiani) ha invocato dazi doganali che innalzino almeno del 50% il prezzo delle scarpe importate.
I dazi anti-dumping e anti-sovvenzioni rappresentano tuttavia solo una frazione della reale portata della barriera tariffaria per difendersi dai produttori fuori dall’Europa. In realtà, su quasi tutto ciò che arriva dall’estero sono previsti dazi doganali. L’Agenzia delle dogane fa riferimento alla Taric (Tariffa integrata comunitaria), che contiene l’elenco di tutte le “categorie merceologiche” soggette a dazio. I balzelli variano dallo 0 al 20% del costo originario del prodotto importato.
Lo Stato italiano trattiene il 25% dell’incasso, il resto va all’Unione Europea come “risorsa propria”. E non è cosa da poco: l’introito da dazi copre circa il 13% del budget economico dell’Ue.
Nel mondo non tutti sono così bravi nel contrastare l’import dall’estero, o sono in grado di ricorrere alle contromisure previste dalla Wto. Mancano conoscenze appropriate circa i cavillosi meccanismi di tutela Wto, e spesso anche le risorse economiche per accedervi. Un esempio: in Senegal tre quarti del pollame importato arriva dall’Europa, in particolare da Olanda e Belgio. Il pollo del Vecchio (e ricco) continente costa meno di quello africano perché il mangime (che rappresenta il 70% dei costi di allevamento), in Europa costa la metà, grazie alle politiche di aiuto all’agricoltura, cioè a sovvenzioni statali. Risultato: la produzione senegalese di pollo è ai minimi storici, e migliaia di lavoratori rimangono a casa. Una cosa analoga avviene in Ghana, dove il pollo importato dall’Ue costa la metà di quello locale. Ma il Ghana importa dall’estero anche pomodori (anche dall’Italia) e riso a prezzi inferiori di quelli del mercato interno.
Le conseguenze di un commercio internazionale disegnato su misura per i Paesi più sviluppati sono nelle cifre dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo: oggi i due terzi delle esportazioni a livello planetario parte dai Paesi più ricchi. Fin qui nulla di strano. Ma contro una crescita media mondiale dell’11% l’anno, l’incremento delle esportazioni africane è stato, negli ultimi 20 anni, solo del 2%.
La percentuale sull’export mondiale riconducibile ai Paesi più poveri (Least Developed Countries) nel 2000 è tornata ai livelli del 1980: lo 0,6%, mentre le importazioni sono cresciute a ritmi vertiginosi. Secondo l’ong Christian Aid (www.christianaid.org.uk), in 15 anni di liberalizzazione dei mercati il Ghana ha perso almeno 10 miliardi di dollari, 510 dollari per abitante. Una bella cifra, vistp che da queste parti il Pil procapite annuo è di 330 dollari.
Bilancia europea
Nel grafico accanto, il saldo della bilancia commerciale europea. I dati, dell’Organizzazione mondiale del commercio, sono espressi in miliardi di euro e si riferiscono al 2004 (il rapporto statistico è scaricabile qui: www.wto.org/english/res_e/statis_e/its2005_e/its05_toc_e.htm.
Il Vecchio continente esporta beni per oltre 4 mila miliardi di euro, e ne importa altrettanti (in valore). La maggior parte dei prodotti sono scambiati all’interno del mercato comune. Le misure anti-dumping e anti-sovvenzioni di cui parliamo in queste pagine sono normate da regolamenti comunitari che hanno recepito le indicazioni dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Come tutti i regolamenti comunitari hanno il valore di una legge ordinaria italiana. Altre informazioni sul sito http://europa.eu.int/comm/trade/issues/index_en.htm
L’accordo dei più forti
Il summit ha evidenziato i nuovi equilibri. L’alleanza del Sud resta una chimera. Dai “nostri” inviati
I poveri perdono le guide
Honk Kong ha evidenziato un nuovo contesto di equilibri politici a livello internazionale, lontano dagli assetti del precedente summit di Cancun, dove si era verificata una rinascita politica del Sud del mondo. A Hong Kong il ciclo negoziale di Doha è stato ridotto a un “espediente” per aumentare le liberalizzazioni e l’accesso al mercato in favore dei grandi gruppi economici. Di fatto il round del millennio potrebbe essere l’ultimo dell’era Wto, perché sia gli Usa sia le economie emergenti si sentono abbastanza sicuri per negoziare accordi in via bilaterale o regionale.
Il perdente di questa logica è l’Unione Europea, che ha iniziato a muoversi troppo tardi, e ancora di più i Paesi poveri, la maggioranza dei membri della Wto, destinati a soccombere nei durissimi negoziati di liberalizzazione. Ed è evidente che l’alleanza del Sud del mondo è soltanto una chimera: Brasile e India vogliono un posto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, e più quote nella Banca mondiale e nel Fondo monetario. La Cina ha già parte di questo riconoscimento istituzionale e oggi è l’unico competitor globale degli Stati Uniti. Quello di Lula e del governo indiano è un cambio di linea che lascia il Sud senza una guida politica alternativa ai poteri del Nord. Naturali alleati dei movimenti sociali globali non possono che diventare alcuni dei Paesi più poveri, che però non hanno la capacità di opporsi ai giganti del pianeta.
Luca Manes/Crbm-Mani tese
Promesse “taglia e incolla”
La qualità e la potenziale pericolosità dell’accordo raggiunto a Hong Kong sono facilmente comprensibili se si guarda il paragrafo 38 della “dichiarazione finale”, la parte relativa allo sviluppo: a un’attenta lettura si rivela un “taglia e incolla” del testo fondativo della Wto (del 1994). Questo vuol dire che, dopo 10 anni di negoziati, i Paesi più poveri hanno fatto enormi cessioni di sovranità in favore del libero mercato, ricevendo in cambio una sintesi striminzita delle premesse del negoziato e una promessa di denaro -che a bilancio non c’è- per degli “aiuti al commercio” che non potrebbero compensare l’assenza di un sistema di regole multilaterali. Leggi vere, che impediscano ai giganti del mercato di vendere al di sotto dei costi di produzione e consentano a tutti i Paesi di disegnare politiche pubbliche per proteggere i diritti dei cittadini, più che gli interessi di pochi speculatori. Secondo l’Onu, i Paesi meno sviluppati perdono oltre 700 miliardi di dollari l’anno per colpa di regole commerciali discriminanti. E la maggior parte dei prezzi ai quali vendono le loro esportazioni strategiche sul mercato globale sono più bassi di 150 anni fa. Dei 150 Paesi membri della Wto, infine, più di 30 non hanno risorse per una rappresentanza diplomatica a Ginevra, dove nei prossimi mesi si concentrerà il grosso delle trattative. Lo indovinate? Sono proprio quei Paesi che, hanno tutto da perdere in questo ciclo di negoziati .
Monica Di Sisto/Tradewatch
Disuguaglianze strutturali
La sostanza di Hong Kong sta nel significato politico dell’accordo: la Wto (dopo tre fallimenti) torna a essere legittimata. Legittimato è il potere contrattuale dei Paesi forti (anche del Sud), mentre continuano ad essere mortificati i Paesi che la globalizzazione la subiscono.
L’accordo costituisce una ciambella di salvataggio per la Wto e la condizione di “scambio ineguale” strutturale (tra Nord e Sud del mondo) che esso rappresenta: la Wto fa comodo a chi ha un privilegio da difendere, mentre chi lotta per uscire dall’oppressione economica è costretto ad accettare impegni futuri. I soli contenuti delle trattative cui abbiamo assistito sono stati la tutela degli interessi nazionali. Il risultato è che nessuno si occupa dei problemi sovranazionali (miseria, emigrazione, clima, Aids, guerre) e che il multilateralismo della Wto altro non è che il punto l’equilibrio tra gli interessi nazionali.
Nessun internazionalismo a Hong Kong, quasi nessun Paese ha fatto di un qualche “interesse globale” una propria ragione. Ecco quindi cosa ha determinato la volontà di giungere a un accordo a tutti i costi: difendere lo spazio negoziale della Wto, che nell’attuale globalizzazione rappresenta l’alter ego dell’Onu. L’accordo della Wto è il sigillo a una politica internazionale pianificata nei palazzi ove l’aspetto economico subordina a se stesso qualunque processo politico.
Giorgio Dal Fiume/Ctm Altromercato