Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura

I mercanti fanno affari col nostro rubinetto – Ae 30

Numero 30, luglio/agosto 2002Oltre alle minerali adesso ci sono anche le “acque “destinate al consumo umano”: “acque da tavola” per la legge, in tutto simili a quelle che arrivano attraverso gli acquedotti. D'altra parte noi siamo tra i più grandi…

Tratto da Altreconomia 30 — Luglio/Agosto 2002

Numero 30, luglio/agosto 2002

Oltre alle minerali adesso ci sono anche le “acque “destinate al consumo umano”: “acque da tavola” per la legge, in tutto simili a quelle che arrivano attraverso gli acquedotti.
D'altra parte noi siamo tra i più grandi imbottigliatori al mondo: 250 marchi registrati ma con 6 grandi gruppi (Nestlé, San Benedetto, Danone, Spumador, Norda) che si spartiscono il 69 per cento del mercato.
Che cosa succederà quando tutti berremo solo acqua minerale o da tavola? Gli acquedotti smetteranno di garantirci acqua potabile? Uno scenario difficile da credere ma non così impossibile. Basta guardare a come si preparano i produttori di depuratori domestici.

I mercanti d'acqua tentano nuove strade per venderci la vita e allargare mercato e fatturati. Così, dopo le acque minerali, sugli scaffali dei supermercati arrivano le “acque da tavola”. O, addirittura l'”acqua da bere” , definizione coniata da Parmalat per la sua Aqua, di cui abbiamo parlato su AE di aprile.

Una novità? Non proprio. Si tratta di tutti quei tipi di acqua che in base alla legge non si possono definire “minerali”, ma che rispettano determinati parametri di potabilità, in certi casi ancora più severi che per le minerali stesse. La normativa le definisce come “acque destinate al consumo umano”. Un esempio banale è l'acqua del rubinetto. Che arriva ormai in tutte le case, si può bere tranquillamente e costa poco, in alcune città anche solo 1 lira al litro.

Ma gli italiani non si fidano: secondo le statistiche 7 su 10 comprano acque minerali, arrivando a spendere anche 700 lire al litro e oltre per marche particolari.

Ormai è chiaro: l'acqua in bottiglia è una merce che rende molto. L'Italia è il maggior produttore al mondo di acque minerali, con un giro d'affari di 5.500 miliardi di lire e oltre 10 miliardi di litri nel 2000. Le marche registrate sono 250, ma 27 marchi in mano a 6 gruppi (Nestlé, San Benedetto, Danone, Cogedi, Spumador, Norda) si spartiscono il 69% del mercato. Ogni italiano beve in media 172 litri di acqua minerale ogni anno, con punte di 190 litri al Nord.

E a livello mondiale non si scherza. Secondo uno studio di Ac Nielsen condotto in 47 Paesi che rappresentano il 95% del Pil mondiale e oltre il 70% della popolazione, le vendite di acqua minerale valgono tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Un mercato ricco dunque -e in crescita- ma non per tutti. Perché non tutte le acque si possono definire “minerali”.

Ma la legge italiana lascia altri spazi. Anche le acque potabili, infatti, si possono imbottigliare e vendere. Nulla vi vieta, se volete, di farlo con l'acqua del rubinetto di casa vostra. E l'ipotesi, vedremo in queste pagine, non è così folle come sembra, perché qualcuno lo sta già facendo.

Ecco a voi le acque da tavola, in bottiglie -e prezzi- del tutto simili alle sorelle “minerali”. Ed ecco a voi la vera follia: una risorsa naturale come l'acqua diventa sempre più una merce come le altre. E le merci, lo sappiamo, non sono un diritto di tutti, ma solo il privilegio di chi può comprarle. Ancora presto per dire a cosa si potrebbe arrivare. L'acqua raggiunge tutte le case a costi molto bassi, potabilizzata dalle ex-municipalizzate, oggi sempre più società per azioni e multiutility e per questo sempre più soggette al mercato. Che significa far quadrare i conti, aumentare i profitti. E tagliare i rami in perdita dell'attività.

Su questo bisogna riflettere: potabilizzare l'acqua è un procedimento costoso. Se le persone bevono sempre più l'acqua comprata al supermercato, le multiutility potrebbero anche decidere di risparmiare quattrini: chi vuole l'acqua pura dal rubinetto se la potabilizzi da solo. Come dire che l'acqua potabile l'avrebbe solo chi può permettersela.

Acque minerali e semplici acque per il consumo umano, oggi, sono diverse per legge. Si possono definire “minerali” solo acque con caratteristiche particolari: pescate in falde o giacimenti sotterranei, provengono da una o più sorgenti naturali o perforate e che, dice il decreto legislativo 105 del 1992, “hanno caratteristiche igieniche particolari ed eventualmente proprietà favorevoli alla salute”. Il presunto aspetto curativo viene ribadito dall'articolo 2 dello stesso decreto: “Le acque minerali naturali si distinguono dalla ordinarie acque potabili per la purezza originaria e sua conservazione, per il tenore in minerali, oligominerali e per i loro effetti”. A queste si devono aggiungere le acque “di sorgente”, definizione di un altro decreto legislativo (il numero 339 del 1999): sono acque batteriologicamente pure all'origine, ma senza “effetti salutari” e possono essere imbottigliate in contenitori superiori ai 2 litri, che è invece il limite fissato per le minerali naturali. Queste non posso essere trattate (se non per aggiungere anidride carbonica), perché sono pure all'origine.

Possono subire una potabilizzazione o trattamenti di disinfezione le acque destinate al “consumo umano”, come stabilisce la norma in vigore (il dpr 236 del 1988, che però verrà rimpiazzato l'anno prossimo dal decreto 31/2001). E poi possono essere vendute. Accade da diversi anni con le acque nei “boccioni”, dispenser da 19 litri usati soprattutto negli uffici. Tra i maggiori distributori ci sono aziende internazionali come la Cullighan, per esempio.

Oppure è il caso dell'acqua alla spina, servita ai clienti in alcuni ristoranti in belle bottiglie di vetro: trasparente per l'acqua naturale, blu per quella gasata. Sembra quasi acqua minerale (e magari come tale viene fatta pagare), ma è semplice acqua del rubinetto trattata con speciali filtri, fratelli maggiori di quelli montati sui rubinetti di alcune case.

E poi, di recente, nei supermercati è comparsa l'acqua da tavola in bottiglia. Sistemata insieme con le acque minerali e confezionata nelle ormai normali bottiglie di plastica da un litro e mezzo. Aqua di Parmalat è la più famosa, anche grazie ai 30 miliardi che l'azienda ha speso in due anni per pubblicizzarla. Ma non è la sola.

Le Fonti di Vinadio producono l'acqua minerale Sant'Anna, immessa sul mercato nel 1997, e alcune acque da tavola per marchi della grande distribuzione: “Cimebianche” per Pam-Panorama, “Alpi Bianche” per Auchan-Rinascente e “Alte Vette” per Carrefour. Sono acque che sgorgano da fonti diverse da quelle della minerale Sant'Anna ma -sottolinea Gianluca Buzzegoli dell'ufficio marketing dell'azienda- “non sono trattate”. Il prezzo è di poco inferiore a quello della minerale: così se la Sant'Anna costa sui 39 centesimi di euro, la “Cimebianche”, per esempio, costa intorno ai 30. Nel 2001 la Sant'Anna ha prodotto 140 milioni di bottiglie e fatturato di 28 milioni di euro.

Ma minerali o da tavola, sono davvero più sicure dell'acqua del rubinetto? “È una questione di marketing -taglia corto Roberto Passino, direttore dell'Istituto di ricerca sulle acque del Cnr-. Si sfrutta una convinzione inconscia dei consumatori: se spendo di più consumo meglio. Ma questo non è sempre vero. Se imbottiglio acqua potabile per portarla dove non c'è ha un senso, mentre non serve vendere acqua in bottiglia dove esiste l'acquedotto”. Perché gli acquedotti, continua Passino, erogano acque sicure. Al massimo, “in alcuni casi ci sono problemi organolettici”, cioè l'acqua non ha un buon sapore. Nessun dubbio sulle acque “da tavola” o “da bere”: “Sono grandi operazioni di marketing, portate all'estremo. E anche i benefici delle acque minerali non è sempre facile dimostrarli a livello scientifico”.!!pagebreak!!

Depuratori fai date, preparate lo spazio sotto il lavandino
Il nostro futuro è nei depuratori da sottolavello. Almeno secondo Lorenzo Tadini, direttore commerciale di Cillichemie Italiana, azienda che si occupa di trattamento delle acque, e presidente dell'Unione “Aqua” Italia, che raggruppa altre aziende del settore. Tutto, spiega Tadini, deriva dal decreto 31 del febbraio 2001, che recepisce una normativa europea, entrerà in vigore l'anno prossimo e fissa limiti più severi per la potabilità dell'acqua. Un vantaggio per i consumatori, secondo lui: “L'acqua – dice- sarà molto più sana, molto più controllata. E molto più cara”. Perché per mantenere i parametri fissati dalla legge, gli acquedotti dovranno investire denari per migliorare le strutture.

Altra novità fissata dal decreto: il gestore della rete idrica deve garantire che l'acqua sia potabile fino al contatore. Da qui in poi -cioè fino al rubinetto di casa- se ne dovrà occupare qualcun altro, amministratori o inquilini. Così se le tubature sono vecchie e contaminano l'acqua, bisognerà sborsare altri soldi.

“Ma la norma esplicita solo quello che nella prassi esisteva già”, sottolinea Roberto Passino del Cnr.

Le possibilità per gli utenti? Un depuratore da sottolavello in ogni casa oppure uno unico, condominiale. I costi: dai 1.300-1.500 euro (2,5-3 milioni di lire) per le soluzioni individuali, fino a 10.300 euro (circa 20 milioni di lire) per un depuratore condominiale. Le installazioni, prevede Tadini, potrebbero aumentare “in prima battuta” del 20-25%.

Più cauti alla Sireg, altra azienda che produce depuratori per le acque domestiche: niente impennate nei prossimi anni. Però il depuratore da sottolavello, dicono, “dovrà diventare come la lavastoviglie”: mai più senza.

Non solo elettricità e gas: le multiutility si danno all'acqua
Acque da tavola, un affare per tutti. Tanto che anche alcune multiutility ci si sono tuffate. È il caso di “Adriatica Acque”, società nata nel 2000 da tre multiservizi, Amir di Rimini, Aspes di Pesaro, Gorgovivo di Ancona, più Italbedis, azienda che produce macchinari per la refrigerazione.

Perché il lavoro principale di Adriatica Acque sono i “boccioni”: dispenser di acqua refrigerata, usati soprattutto negli uffici. Nel 2000 in Italia sono stati consumati oltre 60 milioni di litri di acqua in boccioni.

Altro settore battuto dall'azienda è quello degli spinatori per ristoranti. Sempre più diffusi: al Nord e Centro Italia, ci spiegano, oltre la metà degli esercizi adotta questo sistema. E sono una quindicina le aziende che trattano spinatori in Italia. L'acqua è quella del rubinetto, fatta passare attraverso filtri a carboni attivi (ma ne esistono anche di altri tipi) che eliminano eventuali microrganismi e il cloro usato dagli acquedotti per disinfettare l'acqua. Oltre a questo è possibile addizionare l'acqua di anidride carbonica e ottenere la versione “frizzante”.

Lo spinatore, di solito, viene noleggiato all'esercente, ma c'è anche chi decide di acquistarlo. Adriatica Acque per i suoi chiede circa 186 euro l'anno più 13 centesimi per ogni litro spinato. I ristoranti seguiti da Adriatica Acque consumano dai 3 mila ai 15 mila litri ogni anno. I costi di noleggio comprendono anche la manutenzione. Nel 2001 L'azienda nel 2001 ha fatturato quasi 260 mila euro.

L'acquedotto al Super
L'ultima frontiera dell'acqua in vendita sta all'Iper di Magenta (Milano) e misura 2 metri per 1,5. È un grosso distributore sistemato sulla parete di fondo del reparto acqua.

A fianco, su di un apposito scaffale ci sono bottiglie di plastica pesante da un litro o taniche da quattro, la scritta sull'etichetta è “Acqua Purima”. È la novità italiana nel settore: una water vending machine. L'idea è importata dagli Stati Uniti (dove'è sfruttata da una decina di anni).

Una società di Opera (Mi) nata 3 anni fa, la Water vending machine International (Wvm), sta tentando il lancio in grande stile. Il loro distributore eroga acqua refrigerata naturale, frizzante o leggermente frizzante, a scelta. Quantità minima 4 litri.

Il dettaglio: la materia prima arriva dall'acquedotto comunale di Magenta. In altre parole, acqua del rubinetto? Non proprio, frenano quelli della Wvm: “Perché l'acqua, dopo essere stata prelevata, viene sottoposta a sei diversi livelli di filtrazione per togliere le sostanze nocive”. La legge italiana in effetti tollera -sia nella acque potabili che in quelle minerali- la presenza di nitrati, nitriti e arsenico per esempio. La filtrazione della Wvm, invece, li elimina o almeno li riduce di molto (perché in effetti le analisi effettuate sull'acqua Purima rilevano ancora presenze minime di nitrati e nitriti).

Ma questo procedimento costa. L'Asm Magenta, la multiutiliy locale, fa pagare l'acqua 1 lira al litro circa ai suoi utenti. Prelevarla dalla water vending machine, invece, costa 150 lire (8 centesimi di euro) al litro, più altri 36 centesimi circa per la bottiglia o 62 per la tanica, con il vantaggio che poi queste si possono riutilizzare. I costi per l'allacciamento della machine alla rete idrica sono uguali a zero. L'Asm conferma di non aver mai avuto contatti con l'azienda. E poi la legge permette di imbottigliare e vendere l'acqua potabile. “Ci avevamo pensato anche noi tempo fa -ammette Mario Morani, presidente di Asm Magenta-. Ma poi non ne abbiamo fatto nulla, non è nel nostro Dna”.

L'acqua Purima, quindi, ha ricarico notevole, no? “Se solo vedesse la tecnologia che ci sta dietro…”, rispondono alla Wvm. Cioè i famosi sei livelli: filtro a rete lavabile, filtro a carboni attivi, filtro a fiocchi in polipropilene (elimina il cloro ed eventuali odori sgradevoli), nanofiltrazione, selezione per equilibrare il contenuto di sali minerali, eliminazione di batteri attraverso l'uso di raggi ultravioletti.

La società ha iniziato a piazzare i suoi dispenser-depuratori nel 2000 in una quarantina di punti vendita Coop e Conad. Dopo un periodo di test si è allargata anche a Despar, Gs e Iper. L'obiettivo per quest'anno è di raggiungere i 3-400 impianti attivi e di arrivare a triplicare nel 2003.

Rifiuti: meglio il vetro se riutilizzato
L'acqua sta dentro a un mare di bottiglie. E, quindi, di rifiuti. Il 70% delle bottiglie utilizzate per acque minerali è in Pet, materiale plastico sintetizzato a partire dal petrolio. Il vetro, invece, ha solo il 30% ed è usato soprattutto da bar, alberghi e ristoranti.

La plastica, dice Mineracqua (l'associazione di categoria di Confindustria), è quello che il consumatore richiede “per evidenti ragioni di maneggiabilità”. L'industria si inchina, e si adegua.

Ma bottiglie è anche sinonimo di rifiuti, con la differenza che il vetro potrebbe essere riutilizzato più volte. Il Pet no. Secondo le stime del Consorzio per il recupero della plastica (Corepla), nel 2002 verranno usate 393 mila tonnellate di contenitori di plastica per liquidi. E solo nel circuito domestico: quasi tutta la cifra, quindi, è costituita proprio dalle bottiglie per l'acqua.

Ma davvero il Pet monouso è meno ecologico del vetro? Uno studio dell'Ecoistituto del Veneto “Alex Langer” conferma l'ipotesi. A patto che il vetro venga riusato. Il riutilizzo di una bottiglia di vetro (realizzata anche con materiale riciclato) per 20 volte è più ecologico, perché se ne produce meno. Questo consentirebbe un consumo di energia inferiore del 60% rispetto al Pet, un taglio di emissioni atmosferiche pari al 92% e il 96,67% in meno di emissioni idriche. Cioè aria e acqua meno inquinate. Oltre a questo, si riducono anche i rifiuti, sia in peso che in volume.

Ma attenzione: il discorso regge solo se il vetro viene riutilizzato più volte. Nel caso di vuoto a perdere le cifre cambiano. Il vetro continua a essere migliore del Pet, tranne che per l'atmosfera (le emissioni inquinanti sono maggiori) e come rifiuto, molto più pesante e voluminoso che il Pet. Per saperne di più: info@ecoistituto.veneto.it

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati