Finanza / Opinioni
Harris vs Trump: la guerra tra gruppi finanziari statunitensi
Scorrendo partner e finanziatori dei due candidati alla Casa Bianca si nota la frattura interna al capitalismo finanziario statunitense. Da un lato i principali player del risparmio gestito globale e della proprietà azionaria dei grandi fondi -vicini al Partito democratico- e dall’altro chi non vuole rimanere escluso dalla bolla e vuole metter mano alla politica monetaria. L’analisi di Alessandro Volpi
In seguito all’annuncio del ritiro di Joe Biden dalla corsa presidenziale emerge con sempre maggiore chiarezza uno scontro in corso all’interno del capitalismo finanziario statunitense. Proviamo a sintetizzarlo e forse anche a semplificarlo.
Dopo la scelta di James Vance come vicepresidente o le prese di posizione di Elon Musk, sta infoltendosi la schiera dei sostenitori -e finanziatori- di Donald Trump. Si tratta di soggetti riconducibili a un capitalismo che prova ad arginare lo strapotere delle “Big Three”, dei superfondi, ormai decisamente legati ai democratici.
Sia Biden sia Kamala Harris hanno avuto e hanno nel loro staff figure chiave che provengono da BlackRock. Un personaggio come Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan, la banca dei superfondi, ora blandito da Trump, è stato a lungo in procinto di essere candidato per i democratici. Il presidente della Federal reserve (Fed), Jerome Powell, con il sostegno di Janet Yellen, segretario al Tesoro, ha accompagnato le strategie degli stessi superfondi, comprando a piene mani i loro Etf.
Contro questa simbiosi ha preso corpo, come accennato, una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle “Big Three”. In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle “Big Three”, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continetal resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere dell’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500mila occupati, ostile al modello fabless delle “Big Tech” che vede affacciarsi nella sua creatura, ceduta proprio a Vanguard, BlackRock e State Street.
Tra i capitalisti di Trump ci sono poi i proprietari dei casinò, come Steve Wynn e Phil Ruffin, spaventati dall’avanzata dei grandi fondi anche nei loro settori, e personaggi tipici del mondo trumpiano come Linda McMahon, fondatrice insieme al marito della Wold wrestling entertainement (Wwe).
In estrema sintesi, la possibilità di successo di Trump ha scatenato uno scontro duro all’interno del capitalismo americano destinato a determinare un cambiamento nei suoi equilibri interni e a indebolirlo.
Per comprendere ancora meglio il fenomeno è utile scorrere anche la lista dei donatori di Kamala Harris in cui si trovano numerosi esponenti della finanza legata, a vario titolo, ai grandi fondi. Spiccano infatti i nomi di Reid Hoffman, creatore di LinkedIn, ceduta nel 2016 a Microsoft per 26 miliardi di dollari e, da allora, membro del consiglio di amministrazione della stessa Microsoft, di cui, come è noto, Vanguard, BlackRock e State Street hanno oltre il 20%. Lo stesso Hoffman, oggi, ha una partecipazione rilevante in Airbnb, dove le “Big Three” sono azioniste di riferimento.
Accanto a Hoffman figura Roger Altman, finanziere democratico di lungo corso, collaboratore di Jimmy Carter e di Bill Clinton con ruoli molto delicati, passato da Lehman e da Blackstone, e ora amministratore della banca Evercore, di cui Vanguard possiede il 9,46%, BlackRock l’8,6% e State Street il 2,6%. Ci sono poi Reed Hastings, presidente di Netflix, dove Vanguard ha l’8,5%, BlackRock il 5,7% e State Street il 3,8%, Brad Karp, a lungo legale di fiducia di JPMorgan, Ray McGuire, presidente di Lazard Inc, in cui Vanguard è il primo azionista con il 9,5%, seguito da BlackRock con l’8,5%, Marc Lasry, amministratore delegato di Avenue Capital Group, l’hedge fund vicino alle “Big Three”, e poi Frank Baker, proprietario di un private equity. Un posto di rilievo tra i donatori per Kamala Harris hanno anche diversi membri della famiglia Soros e vari protagonisti delle principali società di consulenza americane come Jon Henes e Ellen Goldsmith-Vein.
In sintesi, la nuova potenziale candidata ha messo insieme una vasta cordata di donatori che vedono nella finanza trumpiana un pericolo per il monopolio “rasserenante” coltivato con cura dai superfondi, azionisti centrali delle principali società dell’indice azionario S&P 500: si potrebbe immaginare così uno schieramento che intende difendere i principali player del risparmio gestito globale e della proprietà azionaria dei colossi in nome della tutela dei risparmiatori dagli scossoni generati da una vittoria repubblicana.
Siamo davvero di fronte allo scontro interno a un capitalismo che da un lato sta costruendo la sua fortuna sul monopolio finanziario inteso come strumento della riduzione del rischio per i cittadini divenuti ormai soggetti finanziari attraverso le loro polizze, e dall’altro sta conoscendo la formazione di un blocco destinato a indebolire tale monopolio nella speranza di non essere escluso dalla bolla in atto e che ha bisogno della politica, a cominciare da quella monetaria, con tassi decisamente più favorevoli, per poter contare.
Al di là delle pur fondamentali narrazioni popolari, queste elezioni contengono una dura guerra tra gruppi finanziari.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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