Giù le mani da quell’acqua – Ae 52
Numero 52, luglio/agosto 2004Un nuovo stabilimento, il più grande d'Europa, in provincia di Treviso. Obiettivo: estrarre fino a 2,5 miliardi di litri all'anno.Il fiume Sile è in pericolo. Ma la popolazione insorgeNon parlate di rondini. Non ai cittadini di Morgano,…
Numero 52, luglio/agosto 2004
Un nuovo stabilimento, il più grande d'Europa, in provincia di Treviso. Obiettivo: estrarre fino a 2,5 miliardi di litri all'anno.
Il fiume Sile è in pericolo. Ma la popolazione insorge
Non parlate di rondini. Non ai cittadini di Morgano, Quinto, Zero Branco, Istrana. Non al presidente del Parco nazionale del fiume Sile. Neanche a Treviso, che dal Sile è bagnata. Perfino a Venezia e Chioggia storcono il naso.
Non parlate di rondini, soprattutto di quella che fa mostra di sé sulla bottiglia d'acqua che avete davanti, e che in questa calura estiva vi dà un sia pur momentaneo sollievo.
Non parlate dell'acqua San Benedetto a chi abita in questo Veneto: vi parleranno di ingiustizia, disastro ambientale, “ricatti” morali. Vi parleranno di un paese che si chiama Paese (Treviso), e che nel giro di una manciata di mesi è balzato agli onori della cronaca perché lì (o meglio, nella sua frazione Padernello di Paese) la San Benedetto sta costruendo quello che potrebbe essere il più grosso stabilimento di acqua minerale e bibite di tutta Europa. E che al tempo stesso potrebbe quasi prosciugare il fiume Sile ed essere un grosso problema per l'equilibrio idrologico di tutta la zona, da Treviso a Venezia.
Tutto inizia quando, due anni fa, il sindaco di Paese Vigilio Pavan (indipendente con una giunta a maggioranza leghista) riceve dalla società della famiglia Zoppas la richiesta per creare la “Fonte Padernello”, il nuovo impianto San Benedetto da aggiungere a quello storico di Scorzè (Venezia).
Un'offerta allettante: “Io vi dico onestamente che quando a Paese si è presentata la San Benedetto per chiedere di aprire uno stabilimento, al comune di Paese non è dispiaciuto, perché è un'attività a basso tasso di inquinamento e che andava a offrire posti di lavoro nel territorio”, spiega. Posti di lavoro: si parla di 300 operai a breve termine, 600 a regime. Il Comune rilascia la concessione edilizia: secondo il progetto presentato dall'azienda, l'area interessata è di 39 ettari di cui 17 edificati, la superficie coperta prevista di 175 mila metri quadrati, il volume dei fabbricati 2 milioni e 750 mila metri cubi, con altezze che arrivano a 25 metri. Un colosso nella campagna veneta. Cosa vuol fare a Padernello la San Benedetto? All'inizio non si parla di pozzi, ma semplicemente di stoccaggio (anche 77 milioni di pezzi stivati). Poi di produzione di bevande “piatte” (come il tè freddo, l'aranciata). Alla fine si parla esplicitamente di estrazione di acqua minerale.
La decisione dell'azienda diventa definitiva anche grazie al gran caldo dell'estate 2003: caldo uguale sete, sete uguale mercato per l'acqua minerale. “Si comincia a marzo 2004”, fanno sapere.
Ma già un anno prima, a marzo 2003, Giuliano De Polo, presidente della San Benedetto, scrive al sindaco di Paese, specificando che “per quanto concerne il prelievo di acqua dal sottosuolo per uso produttivo si avrà il raggiungimento massimo di circa 2.500.000.000 litri l'anno”, anche se, specifica De Polo, “non è detto che si arrivi al raggiungimento di tali numeri, in quanto la massima produttività è subordinata all'andamento delle condizioni economiche di mercato”. Anche dimezzando le stime, si tratta di 40 litri estratti al secondo, 3 milioni di litri e mezzo al giorno, più di un miliardo di litri l'anno, cioè un quinto di quanto estratto attualmente per acque minerali nell'intero Veneto. !!pagebreak!!
Il permesso per la ricerca di acqua viene chiesto in realtà già nel novembre del 2002, giusto per capire se da quelle parti di acqua ce n'è. L'”emungimento” di acque dal sottosuolo è una competenza della Regione, cui spettano le decisioni in materie “minerarie”. La Regione dà il via libera alla ricerca (il permesso dura un anno, e lo scorso ottobre è stato rinnovato), che però non equivale alla concessione a estrarre acqua per rivenderla imbottigliata.
Ciononostante, la costruzione dello stabilimento procede velocemente, e i pozzi da due passano a cinque. Tutto fa pensare che Padernello diverrà presto “Fonte Padernello”. È a questo punto che i cittadini si fanno sentire. L'acqua è un bene comune, spiegano, che non deve essere rivenduto. Ma soprattutto la falda veneta continua ad abbassarsi, e non si può concedere ad una azienda un bene così prezioso, tra l'altro alle esigue tariffe imposte dalla concessione regionale (vedi box in alto). Lo scorso anno hanno attinto da queste parti anche gli acquedotti di Chioggia e Venezia.
Non solo: a un paio di chilometri dallo stabilimento nasce il Sile, il fiume che attraversa Treviso e che sgorga da risorgive grazie alla pressione della falda stessa. Togliere ancora acqua vuol dire cancellare la sorgente, il fiume e il parco naturale. Senza contare l'impatto in termini di Tir e automobili.
Un battagliero comitato di cittadini in breve tempo raccoglie 4 mila firme (nella zona abitano circa 20 mila persone) per opporsi all'apertura dello stabilimento. L'Ente Parco nazionale del Sile scrive ai Comuni e alla Regione, si mobilita l'Aato (Autorità d'ambito territoriale ottimale) della Laguna di Venezia, c'è addirittura un'interrogazione al parlamento europeo. Tutti chiedono alla Giunta regionale di non autorizzare la San Benedetto a estrarre acqua dal sottosuolo. La Regione risponde incaricando la Commissione tecnica di un sopralluogo. Quando questo avviene, lo scorso marzo, la commissione è stupita nel vedere quasi ultimato uno stabilimento che non ha ancora l'autorizzazione a estrarre acqua.
Risultato: per ora l'autorizzazione è stata sospesa, in attesa di uno studio aggiornato che chiarisca definitivamente se davvero la “Fonte Padernello” potrebbe far morire il Sile e prosciugare la falda (lo studio presentato dalla San Benedetto, che nega queste eventualità, si riferisce a dati del 1983).
Se l'autorizzazione non dovesse essere concessa, dall'azienda fanno sapere che lo stabilimento sarà impiegato come previsto per lo stoccaggio e la preparazione di bevande.
Ma sono in molti a credere che la scelta finale, che spetta alla Giunta, sarà positiva per l'azienda di Scorzè. In ballo ci sono i (presunti) nuovi posti di lavoro e quelli già esistenti, ma soprattutto il potere locale di una società che porta soldi sul territorio (anche attraverso sponsorizzazioni e inserzioni pubblicitarie su testate locali).!!pagebreak!!
Dove osano le rondini
La storia di San Benedetta inizia nel 1956, a Scorzè -anzi, nella località Guizza- nei pressi di un pozzo artesiano tuttora funzionante. Fa parte del gruppo Finanziaria San Benedetto, che nel 2002 ha fatturato per 580 milioni di euro (511 solo il settore acqua) con un margine di 50 milioni. Duemila dipendenti e circa il 12% del mercato italiano delle acque minerali. Imbottiglia per PepsiCola e Ferrero, e ha stretto alleanze con Cadbury Schweppes e Danone per l'allestimento di stabilimenti comuni in Europa. Suoi sono anche i marchi Caudana, Guizza, Oasis, Orangina, Powerade. Nel 2003 ha speso 25 milioni di euro in pubblicità (di cui 24 milioni in Tv), l'8% in più rispetto all'anno prima e, nel suo settore, dietro solo a Nestlé.
Dal 1972 appartiene all'imprenditore veneto Gianfranco Zoppas, che possiede anche il gruppo Zoppas Industries attivo nel settore dei macchinari per la produzione di plastica e delle resistenze elettriche.
Un business da 2 miliardi di euro. E allo Stato le briciole
Gli italiani sono i più assetati. Ogni anno consumiamo 7 miliardi di litri di acqua minerale, più di qualsiasi altra nazione al mondo (anche degli Stati Uniti). Merito, soprattutto, della massiccia pubblicità (nel 2002 350 milioni di euro spesi in totale) con la quale gli oltre 260 marchi del settore riescono a convincerci che quella in bottiglia sia migliore dell'acqua del nostro rubinetto (che costa meno e non è pesante da trasportare per le scale). Il giro di affari è attorno ai due miliardi di euro, e in realtà il gioco è tra poche imprese che possiedono più marchi: Nestlé, Danone, Italacque, San Benedetto, Uliveto e Rocchetta.
Ma a fronte di questi guadagni, denuncia Legambiente, lo Stato incassa solo le briciole. Il mercato dell'acqua minerale dipende infatti da un regime di concessione che ha origine quando l'Italia era ancora un regno. I decreti regi tuttora in vigore stabiliscono che le aziende paghino un canone commisurato agli ettari che interessano l'estrazione dell'acqua. In media per le regioni italiane questo canone è di 50 euro per ettaro. Fatti i conti, spiega Legambiente, costa più la colla delle etichette che la materia prima contenuta dentro la bottiglia. Non solo, oltre che non ricevere se non una minima parte della pentola d'oro del mercato, alle Regioni spettano anche i costi per lo smaltimento delle bottiglie di plastica che invadono il territorio (solo la Lombardia ha speso per questo 26 milioni di euro, a fronte dei 130 mila incassati per le concessioni). Fanno eccezione alcune Regioni, che negli ultimi anni hanno capito che non è conveniente regalare un bene così prezioso come l'acqua. Proprio il Veneto, per esempio, ha fissato un canone commisurato ai metri cubi di acqua estratti (65 centesimi di euro), oltre che agli ettari interessati. Ciononostante, il costo dell'acqua continua a incidere sui costi delle aziende per un misero 0,26%.!!pagebreak!!
Le denuncia del Wwf: al 27% le perdite della rete idrica
Alla fonte degli sprechi
Sprechi, innanzitutto. Ma anche una legislazione insufficiente, troppi interessi e scelte che privilegiano grandi (e discusse) opere a scapito dell'equilibrio idrogeologico italiano. Si chiama L'acqua tradita: mappa delle vertenze nel Belpaese il dossier curato dal Wwf, che si può recuperare dal sito www.wwf.it/ambiente/dossier/acquamappa.pdf. Risale ormai a un anno fa, ma poco o nulla è stato fatto per migliorare la situazione idrica del nostro Paese.
“La visione dissipativa della risorsa e l'incerta definizione del costo sociale dell'acqua ha consentito -si legge nel rapporto- che nel nostro Paese non si dedicasse la dovuta attenzione al mantenimento e al miglioramento dei sistemi e delle infrastrutture di adduzione, distribuzione e di smaltimento, con l'affermarsi di fenomeni di inefficienza, incuria e malfunzionamento”. Risultato: le stime ufficiali parlano di perdite sulla rete che arrivano al 27% dell'acqua estratta, su scala nazionale, cui si aggiunge un ulteriore 5% dovuto alle perdite per l'inadeguatezza degli impianti privati. “Un terzo degli italiani” sostiene il Wwf, che con Legambiente e Cipsi ha sin dallo scorso anno dato vita alla campagna “Acqua di tutti”, www.acquaditutti.it- non ha un accesso sufficiente e regolare di acqua potabile”. Eppure l'Italia è il primo Paese in Europa per acqua prelevata: 980 metri cubi pro capite l'anno, 104 litri a testa al giorno. Con alcuni paradossi: ci sono città come Agrigento -spiega Legambiente- che a dispetto della sete che periodicamente l'affligge consumano ogni anno più litri di città come Ferrara o Bolzano, dove non ci sono problemi di approvvigionamento idrico. Non solo: i mutamenti climatici e la continua cementificazione del territorio continuano a provocare danni incalcolabili. Oggi il 27% del territorio nazionale è minacciato da processi di inaridimento, e il 70% dei Comuni è a rischio di frane e alluvioni.
Proprio sull'intervento umano si concentra il rapporto, che disegna una vera e propria mappa dei punti critici per il sistema idrico lungo lo Stivale.
Si parte dalla Val di Susa, in Piemonte, minacciata dai lavori della linea Tav Torino-Lione. I treni ad alta velocità, sostiene il Wwf, porteranno coi loro cantieri “pesanti devastazioni in una zona ricca di acquiferi e di sorgenti”. Lo stesso si può dire per il terzo valico sulla direttrice dell'alta velocità Milano-Genova, che potrebbe portare dissesti idrogeologici tra Genova Voltri e Novi Ligure.
Sempre in Liguria, ma in Val di Lemme, una mega cava di marna da cemento minaccia un milione di alberi e una decina di sorgenti. Nel Mugello, ancora l'Alta velocità sta depauperando le falde già dal 1996, in Abruzzo il terzo traforo del Gran Sasso sta causando un grave disastro idrogeologico. Si finisce in provincia di Enna, dove il lago di Pergusa rischia di scomparire per l'estrazione incontrollata che ha portato il livello delle acque da 12 metri a poco meno di due metri.