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Genova antimafia

La rete “Sapori di giustizia”, grazie all’adesione di 30 attività commerciali, risponde alla presenza della criminalità nel centro storico -che ha portato nel febbraio 2014 al sequestro di oltre cento immobili- promuovendo il consumo critico. Un reportage dai carruggi che gridano "#lamafianonè"

Tratto da Altreconomia 167 — Gennaio 2015

“Siamo tutti una cosa sola: pare che la Liguria è ‘ndranghetista”. Era il 3 novembre, e il cuore di Genova, il vecchio quartiere della Maddalena, s’è svegliato tappezzato di manifesti che riportavano frasi come questa, che è tratta da una intercettazione di Domenico Gangemi, condannato in primo grado a Reggio Calabria come capo della ‘ndrangheta genovese.
Genova si è svegliata dal torpore, come aveva fatto un giorno di 10 anni prima Palermo, coperta di adesivi con su scritto “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Era l’avvio di Addiopizzo (www.addiopizzo.org).

L’esperienza siciliana ispira un progetto che associazioni, commercianti e cittadini hanno avviato a Genova, cofinanziato dal Comune. “Qui il peso del racket non è conosciuto, ma il problema è una presenza silenziosa sul territorio, e l’usura ai danni dei negozianti in crisi, con la criminalità che presta liquidità e poi si impossessa dei loro locali” spiega Silvia Melloni del circolo Arci Belleville, tra i promotori dell’iniziativa. Invece di mutuare il nome dall’esperienza siciliana, però, quella genovese ha scelto di chiamarsi Sapori di Giustizia, e riconoscersi nello slogan “La mafia non è”. Se la prima azione è stata quella (anonima) dei “pizzini antimafia” sui muri del quartiere, in seguito la rete -di cui fanno parte l’Arci, la Comunità di San Benedetto al Porto fondata da don Gallo, Libera, i commercianti del centro integrato di via (Civ) e l’Associazione degli abitanti della Maddalena – è uscita allo scoperto in nome dei sapori “buoni e giusti”. Le attività aderenti hanno esposto in vetrina i manifesti del progetto, e hanno messo sugli scaffali (o nel menù) prodotti dei terreni confiscati alle mafie. E non solo: hanno lanciato l’hashtag #lamafianonè, chiedendo a genovesi e non di fotografarsi nel quartiere con cartelli come “La mafia non è lavoro”, “La mafia non è una banca”, “La mafia non è folklore”. La campagna ha funzionato: dopo il sindaco Marco Doria hanno aderito, tra gli altri, anche i Subsonica. Soprattutto, si sono fotografati tanti ragazzi, residenti, ed anche operai che hanno portato i cartelli nelle fabbriche. Un movimento di antimafia culturale (“sociale e social allo stesso tempo”, come lo definisce Stefano Kovac di Arci), capace di accendere i riflettori sul tema come mai era successo nel capoluogo ligure. “Ce n’era bisogno -dice l’assessore alla Legalità, Elena Fiorini-, perché la percezione del fenomeno è ancora troppo scarsa”.

Eppure, a fronte di una scarsa sensibilità, i segnali di “colonizzazione”, in questo territorio del Nord e di confine, ci sono. Si possono leggere nella relazioni della Direzione nazionale antimafia del 2014, e in quella dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia del 2013, in cui si legge che “la Liguria attira l’interesse di numerose realtà criminali, che hanno individuato nella Regione un paradiso dove poter riciclare le ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere le proficue attività di estorsione e usura”.
Parole che trovano conferma dalla storica sentenza del processo La Svolta, che si è tenuto ad Imperia, e in cui per la prima volta -nell’ottobre del 2014- un tribunale ha riconosciuto la presenza della ‘ndrangheta in Liguria (e inflitto in primo grado, complessivamente, 200 anni di carcere).
A Genova, nel frattempo, c’è stata anche -nel febbraio 2014- la più grande confisca di immobili mai effettuata al Nord Italia, avvenuta proprio nel centro storico della città, che ha riguardato un centinaio di appartamenti, “bassi” e magazzini che furono dei Canfarotta -famiglia arrivata da Palermo negli anni Settanta e accusata di aver istaurato qui un sistema di sfruttamento della prostituzione-. Dallo scorso febbraio sono dello Stato, nelle mani dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati.
 
La futura gestione di questi beni è un’altra delle sfide aperte a Genova sul fronte della legalità. E anche in questo caso, la risposta di un gruppo di cittadini e associazioni -una rete parallela ma con punti in comune rispetto a quella che anima l’esperienza di Sapori di Giustizia- è stata quella di fondare il Cantiere per la legalità responsabile, un percorso partecipato per coinvolgere la cittadinanza sulla progettazione del futuro degli immobili. “Sono beni di tutti -spiega Chiara Cifatte, portavoce del Cantiere-, ed è giusto che quando l’Agenzia nazionale emetterà il bando per l’affidamento degli spazi, enti ed associazioni siano pronti a rispondere, consapevoli dell’opportunità”. Così, le proprietà dei Canfarotta potranno ospitare residenze protette, sedi di associazioni, spazi per studenti o per le forze dell’ordine, così come prevede la legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati.

Il 15 novembre scorso avrebbe dovuto tenersi una giornata di formazione, con gruppi di lavoro tematici sulle possibili strade per il riutilizzo, ma quel giorno una delle tante alluvioni dell’autunno 2014 colpì il genovese. L’assemblea è stata quindi rimandata al 7 febbraio. “Nel frattempo ci siamo dati una sorta di codice etico, alcuni valori guida -aggiunge Raffaella Ramirez, altra anima del Cantiere e autrice, con Libera e la Regione Liguria, di una mappatura georeferenziata dei 140 beni confiscati in tutta la Liguria, aggiornata, interattiva e visitabile sul sito della Regione-. Questi valori sono il rispetto e la cura degli spazi collettivi, la responsabilità, la trasparenza e la collegialità”, cioè uno sforzo per coinvolgere il maggior numero di soggetti possibile -tra associazioni e privati cittadini- in un percorso del genere, per quanto l’impresa sia difficile e muova lentamente.

Il tempo, del resto, è dalla loro: l’assegnazione dei beni confiscati ai Canfarotta non avverrà a breve, perché gli immobili devono essere riqualificati -molti alloggi versano in condizioni fatiscenti- e ci sono altri problemi, come i debiti da saldare con i condomini o la presenza di inquilini da sfrattare, tra cui alcuni appartenenti alla famiglia Canfarotta. Tra le questioni che l’Agenzia nazionale deve risolvere prima di procedere al bando c’è anche la più “scomoda”: in molti di quegli alloggi del centro storico di Genova si eserciterebbe di nuovo la prostituzione, una notizia che nei vicoli è sulla bocca di tutti. Una faccenda imbarazzante, visto che oggi i contratti (e i canoni) di affitto sono in mano allo Stato.

Nel frattempo, il percorso  dell’antimafia corale di Genova in nome della legalità va avanti. In quindici giorni (fino al 15 dicembre 2014) hanno aderito oltre trenta esercizi. A titolo simbolico, molti hanno scelto di tenere sugli scaffali i prodotti a marchio Libera Terra, facendo cultura, oltre che commercio. Tra loro c’è anche Maurizio, titolare di Bio Soziglia in piazzetta Macelli di Soziglia, angolo pieno di storia nel quartiere della Maddalena: tra i prodotti dai terreni confiscati ha scelto il vino Cento Passi, la marmellata e il cous cous, e li valorizza con scritte grandi accanto ai cartellini dei prezzi, per attirare l’attenzione. “Non è facile farli conoscere -racconta-, ma attraverso l’acquisto di prodotti ‘liberi dalle mafia’ passano messaggi importanti. Bisognerebbe diffondere l’iniziativa: ormai, territori franchi rispetto agli interessi criminali, non ne esistono più”. —

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