Economia / Opinioni
Il cuneo del fisco. Senza una visione redistributiva la lotta alla povertà è inefficace
Per essere incisiva la riduzione del carico fiscale deve superare le tante deroghe alla progressività che nel tempo hanno ridotto il gettito e spostato il peso dell’intero sistema fiscale su una porzione limitatissima di cittadini, a costante rischio di arretramento sociale. L’analisi di Alessandro Volpi
Se la crisi della democrazia italiana dipende anche dalla caduta dei redditi medio bassi, allora la prospettiva di indirizzare 8 miliardi di euro in due anni all’abbattimento del cuneo fiscale per 16 milioni di lavoratori dipendenti costituisce una strada sensata. A rendere ancora più opportuna una simile soluzione contribuisce il fatto che il cuneo fiscale applicato in Italia è pesantissimo, collocando il nostro Paese al secondo posto in Europa nella classifica di tale pressione, alle spalle del solo Belgio, per quanto la quota rappresentata dai contributi versati dai lavoratori risulti inferiore a quella delle principali economie del Vecchio continente. È difficile, tuttavia, capire come questa pur benefica riduzione del cuneo fiscale possa conciliarsi con una spesa corrente di 8 miliardi di euro per il reddito di cittadinanza e di altri 7 per “Quota cento” –a cui si ipotizza di aggiungerne altri per abbassare l’età pensionabile- in presenza di una previsione di crescita dell’economia italiana per il 2020, secondo gli ultimi dati di Bankitalia, dello 0,5% e dello 0,9% nel 2021.
Stime attendibili, infatti, valutano l’impatto della riduzione, così come proposta dal governo alle forze sindacali, in termini assai limitati, pari ad un incremento dello 0,17% del Pil nel 2020 e dello 0,28% l’anno successivo; si tratterebbe dunque di un effetto irrilevante, non in grado di stimolare realmente la ripresa dei consumi e di generare maggiore reddito. Il vero pericolo, in una simile condizione, è rappresentato così dal fatto che anche le politiche fiscali finiscano per entrare a far parte, come il reddito di cittadinanza, degli strumenti pubblici di contrasto alla povertà e all’impoverimento, senza alcun legame con una più complessiva politica economica in grado di tornare a produrre redditi. Nella stessa direzione, del resto, si muove l’ipotesi, attualmente allo studio, di estendere la misura della riduzione del cuneo ai lavoratori dipendenti “incapienti”, che si pongono sotto la soglia degli 8.000 euro annui e non beneficiano quindi delle detrazioni.
Peraltro, se la riduzione verrà attuata solo attraverso la forma del bonus, in tal caso finirà per essere contabilizzata, secondo le regole europee, come un aumento di spesa corrente e non come un abbattimento del carico fiscale e pertanto graverà, in maniera assai negativa, sul rapporto deficit-Pil, limitando lo spazio per altri interventi pubblici. Soprattutto, senza una reale visione di natura redistributiva, di carattere strutturale, dell’intero impianto fiscale, il contrasto alla povertà, posto in essere con l’insieme delle misure ricordate, compreso il taglio del cuneo, si farà, inevitabilmente, aumentando il debito pubblico -in termini assoluti e rispetto al Pil- e rendendolo sempre meno sostenibile.
Per porre in essere un’efficace azione di contrasto alla povertà e, al contempo, per operare un vero rilancio dei consumi, indispensabile per un incremento avvertibile del Pil, a sua volta necessario per evitare l’appesantimento del debito pubblico, servirebbe invece un intervento pari ad almeno una ventina di miliardi di euro. Un tale impegno potrebbe essere finanziato in parte con la crescita, spinta da politiche di investimento, e in parte con una rimodulazione complessiva del carico fiscale che ha bisogno però di scelte politiche chiare e forse oggetto di un vero programma con cui presentarsi alle elezioni dove inserire un effettivo incremento della pressione sulle rendite di varia natura, un ritocco dell’Iva e una revisione drastica delle tax expenditures.
La riduzione del carico fiscale per essere incisiva, in altre parole, dovrebbe accompagnarsi al superamento delle troppe cedolari, flat tax e deroghe alla progressività destinate a ridurre il gettito complessivo e soprattutto a rendere squilibrato il prelievo tra soggetti dotati dello stesso reddito, con il risultato, inaccettabile, che l’intero sistema fiscale grava su una porzione limitatissima di italiani, a costante rischio di arretramento sociale, colpiti anche da una “moderazione” retributiva ormai troppo risalente nel tempo. Negli ultimi dieci anni, per 12,2 milioni di contribuenti con un reddito annuo compreso tra i 15 e i 26mila euro la perdita è stata del 10,4%, mentre per la fascia compresa fra i 22 e i 55mila euro il calo ha sfiorato il 12%; al tempo stesso, l’area fino a 15mila euro ha perso oltre 3,3 milioni di contribuenti.
Di fronte a numeri di queste dimensioni, 8 miliardi di euro in due anni e 6 a regime, per quanto opportuni per invertire una tendenza, rischiano davvero di non bastare prima di tutto per restituire credibilità al sistema democratico e per non farlo più avvertire come un inutile e costoso orpello. Esiste poi l’ulteriore pericolo di un “effetto delusione”, se le ricadute del provvedimento non saranno avvertibili come è facile prevedere, che in una fase caratterizzata da un governo precario aprirebbe le porte alla ricerca di soluzioni tragicamente miracolistiche.
Università di Pisa
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