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Economia / Opinioni

Il “fisco di cittadinanza” per mantenere in piedi il “diritto di cittadinanza”

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri

Gli esempi di disparità di trattamenti a parità di reddito sono molti e dalle conseguenze importanti sia sull’entità del gettito sia, soprattutto, in termini di equità fiscale. Intervenire è necessario. Pensare di farlo solo sul versante “detrazioni” non è una soluzione definitiva. L’analisi di Alessandro Volpi

La strada della riduzione delle detrazioni intrapresa dall’esecutivo pare obbligata per trovare almeno una parte, sia pur limitata, delle coperture della legge di Stabilità che la renda credibile in primis agli occhi della Commissione europea a cui il governo italiano chiede ben 14 miliardi di euro di flessibilità.

L’ipotesi approdata in Parlamento è quella di ridurre con gradualità tutte le detrazioni fiscali con un’aliquota al 19%, fatta eccezione per le spese sanitarie e per il mutuo sulla prima casa. Nella sostanza, la stretta riguarderebbe i contribuenti che guadagnano oltre i 120mila euro annui. Si tratta, in estrema sintesi, di rafforzare la progressività del prelievo colpendo una fascia ristretta di soggetti; una scelta coerente dunque con l’idea che chi dispone di un reddito più alto deve contribuire in maniera rilevante al mantenimento dello Stato.

In realtà è bene aver presente che la progressività esercitata nei confronti di questa fascia di contribuenti è già molto forte. Coloro che dichiarano oltre 120mila euro annui sono in Italia 302.666, pari allo 0,73% del totale dei contribuenti, e versano oltre 24 miliardi di euro su 157, pari al 18% del totale del gettito Irpef, risultando quindi di gran lunga la fascia più gravata dagli oneri fiscali. Appare evidente allora che ulteriori appesantimenti nei confronti di questi soggetti, peraltro dichiaranti “fedeli” del proprio reddito, dovrebbero essere inseriti in una più complessiva riforma del fisco destinata ad attenuare le altrimenti eccessive sperequazioni tra i contribuenti.

In tal senso può essere utile indicare alcuni elementi che potrebbero far parte di una proposta di modifica del sistema, evitando in questa sede di fare riferimento al cruciale tema del recupero dell’evasione, a cui occorre riservare una specifica analisi.

1) È sempre più indispensabile organizzare, in sede europea e entro i confini nazionali, uno sforzo per accrescere il prelievo fiscale ottenuto dall’imposizione sui grandi gruppi che operano in Rete. Nel 2018, Amazon, Google, Airbnb, Twitter e Tripadvisor hanno pagato imposte al fisco italiano per 14 milioni di euro, un’inezia rispetto ai loro fatturati realizzati nel nostro Paese. Facebook, in Italia, ha pagato tasse dal 2009 ad oggi pari a 140mila euro all’anno, meno di un‘azienda di ridotte dimensioni; in percentuale ciò significa lo 0,04% del fatturato, praticamente nulla in presenza di ricavi annui intorno ai 250 milioni di euro e di 35 milioni di utenti. Tripadvisor, nel 2018, è riuscita a versare all’erario italiano soltanto 22mila euro. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che simili gruppi pagano le imposte solo su una frazione delle entrate reali, giustificandole come mera attività “di servizio” rispetto alla società “madre”, domiciliata in paradisi fiscali, spesso entro i confini dell’Unione europea. L’adozione di strumenti, normativi e di controllo -a cominciare dalla relazione stretta fra fisco e numero di utenti-, in grado di combattere simili pratiche, è resa più necessaria poi dalla rapida smaterializzazione dei processi economici, sempre più legati alla fruizione e all’utilizzo di servizi, che finiscono per sfuggire a sistemi fiscali concepiti quando ancora reddito e ricchezza si fondavano su beni materiali.

2) Negli ultimi anni si è assistito a una moltiplicazione dei trattamenti fiscali per cui ormai a parità di reddito alcuni contribuenti pagano di meno rispetto ad altri, di fatto, “costretti” a pagare di più. L’introduzione della flat tax al 15% per percettori di reddito fino a 65mila euro mette questa tipologia di contribuenti in condizioni ben diverse dai lavoratori dipendenti a cui, sullo stesso reddito, è applicata un’aliquota del 41%. Considerazioni analoghe sono possibili per chi trae un reddito dagli affitti, su cui è applicata una cedolare secca –altra flat tax– del 10% se a canone concordato o del 21% nel caso di canone libero. Ma gli esempi di questa disparità di trattamenti a parità di reddito sarebbero davvero molti con conseguenze importanti sia sull’entità del gettito sia, soprattutto, in termini di equità fiscale.

Forse sarebbe necessaria una riforma fiscale che decidesse le aliquote a prescindere dalla natura del contribuente in maniera da non generare eccessive sperequazioni. La nostra Costituzione stabilisce, come accennato, il principio della progressività che si applica però alla fiscalità generale, destinata a garantire la tenuta dell’universalismo dello Stato sociale. Non è applicabile in maniera vincolante, invece, alla tassazione sui servizi e neppure sui patrimoni, come spesso hanno fatto notare molteplici giuristi. Ma se dalla fiscalità generale progressiva si escludono voci importanti, come nel caso delle varie flat tax già ricordate, risulta chiaro che alla iniqua disparità di trattamento si unisce il rischio di un minor gettito strutturale, con effetti non banali sul finanziamento dello stesso Stato sociale. In un quadro così confuso, pensare di agire solo sulle detrazioni difficilmente può risolvere il problema centrale delle coperture, indispensabili e giuste, per mantenere in piedi il diritto di cittadinanza; prima ancora del reddito di cittadinanza serve un fisco di cittadinanza.

Università di Pisa

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