Interni
Filantropi all’italiana
Oltre 4.700 Fondazioni nel nostro Paese finanziano con milioni di euro associazioni ed enti di assistenza. Un mondo quasi sconosciuto e fin troppo discreto, in bilico tra nobiltà di intenti e ambiguità della provenienza dei soldi e della loro gestione
Magari Michele Ferrero, il signore della Nutella, e Giorgio Armani, boss del lusso made in Italy, sono generosi e di buon cuore, ma a nessuno verrebbe in mente di definirli filantropi. Sono il primo e il quarto fra gli uomini più ricchi d’Italia. Nemmeno Silvio Berlusconi (al terzo posto in questa speciale graduatoria), la famiglia Benetton (quinti) o i petrolieri italiani saranno ricordati come benemeriti della filantropia. Non seguono le orme di Bill Gates o di Warren Buffet e, quasi certamente, non doneranno gran parte della loro ricchezza a fondazioni con la missione di “fare del bene” nel mondo. Al più, i super-ricchi italiani (con eccezioni: Del Vecchio -Luxottica-, al secondo posto nella classifica dei patrimoni italiani, i vecchi Agnelli, gli Erba, gli Olivetti o Feltrinelli, ma sono tutte storie antiche) saranno rammentati come presidenti, più o meno fortunati, di squadre di calcio, non come filantropi.
“Non c’è da stupirsi -spiega Giulia Gemelli, direttrice del Master internazionale di studi sulla filantropia all’Università di Bologna-. Da noi c’è la chiesa cattolica. Ai primi del ‘900, nascono le Opere Pie. Dall’altro lato ci sono stati i socialisti e il mutuo soccorso. La filantropia privata, per oltre un secolo, è stata vista con diffidenza.
Il sistema del welfare, poi, è stato il meccanismo di sostegno sociale. In Italia c’è stata, c’è ancora, un’idea di controllo e tutela sulla generosità. Non ci sono le radici protestanti che, negli Stati Uniti, sono alla base della cultura filantropica di Rockefeller o di Bill Gates”.
Con questa premessa, è tempo di andare a conoscere i filantropi italiani.
Salgo le scale di marmo con tappeto rosso di Palazzo Sansedoni. Via Banchi di Sotto. A Siena. Finestre sulla bellezza perfetta di piazza del Campo. Gabriello Mancini non assomiglia agli algidi banchieri milanesi: ha una faccia da campagna toscana. È il presidente della Fondazione Monte dei Paschi, seconda per patrimonio a bilancio (oltre 5 miliardi di euro, 1.225 progetti finanziati nel 2007) fra le fondazioni bancarie italiane: “Quest’anno distribuiremo oltre duecentoventi milioni di euro. Una decina di milioni in più rispetto allo scorso anno. Stiamo aiutando, insieme ai Comuni della nostra provincia, a costruire mille case in cinque anni. Sono già stati consegnati i primi appartamenti. Case da affittare a quattro euro al metro quadro. Destinate a chi ha redditi troppo alti per entrare nei bandi delle abitazioni popolari, ma insufficienti a comprarsi un’abitazione”. Il cablaggio di Siena è figlio dei contributi della Fondazione.
Per capire cosa è una Fondazione di origine bancaria e quale è il suo potere, bisogna passare da Siena. L’80,2% delle erogazioni della Fondazione Monte dei Paschi è in provincia di Siena. È come se ogni abitante del senese ricevesse 527 euro a testa. È il 3% del Pil della provincia. “Con la stima di arrivare al 7% nei prossimi anni”, dice, con orgoglio, Mancini. Sviluppo locale (59 milioni di euro), arte (36 milioni), istruzione (16 milioni), sanità (12 milioni), ricerca scientifica (altri 12 milioni): la Fondazione è il pilastro portante dell’economia senese. Il maggior beneficiario della generosità dei banchieri di Palazzo Sansedoni è il Comune di Siena (che nomina anche la metà della deputazione generale della Fondazione ). Poi la Provincia (a sua volta nomina 5 amministratori della Fondazione), la Regione Toscana, l’università di Siena, la curia senese (ciascuno nomina un amministratore). I Comuni del senese aspettano, come manna dal cielo, le erogazioni della Fondazione. I loro bilanci diventano floridi con il denaro distribuito dalle casseforti di via Banchi di Sotto.
“Il rapporto con le nostre terre è solido -dice Mancini- Ma non dite più che siamo arroccati su queste colline: 25 milioni di euro li distribuiamo in Toscana e nove per progetti in Italia”. Difficile, per chi viene da fuori, scrollarsi di dosso il retropensiero di trovarsi di fronte, qui a Siena, a un fortino medioevale difeso con le unghie e con i denti. Solo dal 2001, la Fondazione ha cominciato a spendere anche fuori dei confini italiani. Lo scorso anno 80mila euro (spiccioli, in fondo) sono andati anche alla cooperazione internazionale. Ma è vero che una parte dell’ospedale di Emergency a Khartoum è stato pagato da denaro senese. Senza contare apparecchi radiologici in Guatemala, un gabinetto dentistico a Manila e mille biciclette in Burkina-Faso.
Nelle attese, brevissime, al telefono di Oltre, la prima società italiana di Venture Capital sociale, si ascolta la dolcezza delle musiche di Toquinho. Ricordo degli anni brasiliani di Luciano Balbo, 59 anni, fondatore e presidente di Oltre: per tre anni, a San Paolo, ha amministrato una società del gruppo Techint. Milanese, manager internazionale, gnomo silenzioso del mondo dei private equity, Balbo ha il volto sorridente dell’uomo sicuro di sé e il carattere dell’intellettuale smaliziato negli affari. Sei anni fa, nel 2002, Balbo creò la prima Fondazione privata di Venture Philantropy italiana. La filantropia, avvertiva Balbo, è un progetto serio e deve essere gestita da professionisti. “Non basta il buon cuore -spiega-. Ci vuole soprattutto testa. Non basta donare, ci deve essere creatività e investimento sociale”. Criteri economici, di “quasi mercato”, con tanto di business plan, controllo dei processi, revisioni rigorose, sono le fondamenta della Venture Philantropy. “C’è una responsabilità sociale della ricchezza
-dice ancora Balbo-. Ci sono molti soldi in giro, devono essere utili alla società e, allo stesso tempo, assicurare un ritorno economico”. Capitali pazienti e responsabili, è lo slogan di Oltre. Via dalla logica della carità e dal donare come specchietto di marketing del buon cuore. “I privati possono e devono contribuire ad affrontare la crisi del welfare”, sostiene Balbo.
La nuova filantropia italiana segue modelli statunitensi. I new philantropist investono capitali (e si aspettano, quindi, il loro ritorno) e sono certi che così si risponda meglio ai nuovi bisogni sociali. Sorprendente è il loro identikit. Niente nomi conosciuti al grande pubblico, ma banchieri noti solo agli addetti ai lavori, investitori, gestori di fondi, finanzieri spavaldi che acquistano industrie in rotta, le smontano, le risanano e le rivendono, gente che sa di hedge fund e private equity. Che sa fare i soldi con i soldi. Sono protagonisti di questo piccolo universo milanese personaggi come Vincenzo Manes (48 anni, presidente della finanziaria Intek, attuale padrona dell’impero del rame europeo, presidente della fondazione che edita la rivista Vita e presidente
della Fondazione Dynamo) o Ruggero Magnoni (56 anni, raider di Borsa, già vicepresidente europeo della ormai defunta Lehman Brothers, presidente della fondazione Magnoni). “In questo mondo c’è la passione del mestiere di imprenditori -spiega Balbo- e una forte consapevolezza della necessità di un ritorno finanziario”.
I soldi non sono gratis, in altre parole. La Fondazione Oltre ha raccolto, in due anni, dieci milioni di euro. Conta di raddoppiarli nei prossimi due anni (“Sappiamo come spenderli”, assicura Balbo). Fino ad ora ha investito: in società di microcredito per immigrati a Torino e di microfinanza (con progetti in India e America Latina) a Brescia. Ha finanziato l’avvio di una società di pannelli fotovoltaici in Sardegna e, da questo autunno, un centro sanitario, con servizi a tariffe calmierate di odontoiatria e aiuto psicologico, comincerà ad operare in un quartiere periferico di Milano. Necessaria un’ultima notazione: Manes e Magnoni avevano promesso di dare una mano a Roberto Colaninno nella sua avventura con la nuova Alitalia.
Fondazioni ex-bancarie e spigliati raiders esperti dei più raffinati strumenti finanziari sono gli attori principali nel palcoscenico della filantropia italiana. Le fondazioni private distribuiscono 4 miliardi di euro all’anno. Lo scorso anno solo dai forzieri delle ex-bancarie sono usciti un miliardo e settecentomila euro. Per quasi un terzo questo denaro ha finanziato l’arte, il 15% è andato alla ricerca scientifica, il 10% a progetti educativi. Sono 88 le fondazioni ex-bancarie (quasi la metà, quarantadue, si trovano fra Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana). A leggere i valori iscritti a bilancio sono cinque quelle che contano sul serio nella geografia del potere economico nazionale e regionale: la più grande è Cariplo (oltre sei miliardi di euro di patrimonio, 196 milioni di euro erogati a 1174 progetti nel 2007. Ben 26 superesperti al lavoro negli uffici delle sue “attività filantropiche”). Monte dei Paschi e Compagnia di San Paolo si giocano il secondo posto. Vere macchine da soldi sono le fondazioni figlie delle Casse di Risparmio di Verona e di Torino. È un’economia del Nord: in Calabria, Sardegna e Sicilia vi è una sola fondazione per regione. “Sono dei pilastri del ‘Terzo settore’ -nota Bruno Manghi, sociologo e sindacalista, consigliere di amministrazione della Compagna di San Paolo-. Ma sono organismi bifronti: le fondazioni sono azionisti che incassano dividendi per mantenersi in vita e continuare la propria missione”. Facevano una vita da nababbi almeno fino a pochi mesi fa. In dieci anni,
il loro patrimonio, complice la marcia della Borsa, era più che raddoppiato. Cresciuto del 600% quello di CariVerona, del 500% quello della fondazione della Cassa di Risparmio di Torino. Quadruplicati i denari del Monte dei Paschi. Crescevano i patrimoni, crescevano i proventi (8,7% lo scorso anno, da leccarsi i baffi), crescevano le erogazioni (da quattro a tredici volte in più, a seconda delle fondazioni, dal 1996 al 2007). Ma, quest’anno, è arrivato il vento gelido della crisi finanziaria. Gli investitori della fondazioni ex-bancarie, in fondo, sono conservatori: il 40% dei loro proventi arriva, ancor oggi, dalle partecipazioni nei capitali delle stesse banche. Crollano le loro azioni, crolla il patrimonio delle fondazioni. Fino allo scorso luglio avevano perso qualcosa come 13 miliardi di euro. Su 78 di capitale. È anche vero che, nei libri contabili delle fondazioni, queste partecipazioni sono iscritte per appena 47 miliardi e quindi si possono ancora dormire sonni abbastanza tranquilli. Ma chi, nel 2009, aspetta soldi dalle fondazioni sente già scorrere qualche brivido lungo la schiena.
“Se avremo meno soldi, faremo meno doni”, ha fatto sapere, fin dall’estate scorsa, Giuliano Segre, presidente della Fondazione di Venezia. A Siena Gabriello Mancini sfodera tutta la sua diplomazia: “Non abbandoneremo il territorio. Certamente dovremo diversificare i nostri investimenti”. Con ragione: la Fondazione di via Banchi di Sotto controlla ancora quasi la metà della banca e ha l’80% dei suoi soldi investiti nel Monte dei Paschi. Ottimisti per dovere all’Acri, l’associazione che raggruppa le Fondazioni e le Casse di Risparmio: “Siamo sempre stati prudenti, abbiamo difese solide e buone riserve. Le erogazioni, quest’anno, non sono diminuite. Solo se la crisi durerà a lungo, potranno esserci difficoltà”.
I nuovi filantropi italiani scelgono un’ostinata riservatezza. Al limite della mancanza di trasparenza. Applicano raffinate tecniche di comunicazione, ma non amano i giornalisti. “Il mondo della finanza italiana sta scoprendo solo ora la filantropia -mi raccontano-. I suoi protagonisti sono uomini di affari che viaggiano, vedono cosa fanno all’estero e capiscono che il denaro può essere utilizzato anche per ‘fare società’ e non solo business. Vogliono far un buon uso della loro ricchezza, ma per loro vale il ‘si fa, ma non si dice’. Sono imprenditori che non hanno a che fare con i consumatori, ma con altri imprenditori. Non hanno bisogno di pubblicità”. E, infatti, il mio interlocutore, dirigente di fondazione, chiede la garanzia di rimanere anonimo. Nemmeno fosse un affare di Stato. Si chiude a riccio anche la Fondazione Dynamo, creata dal finanziere Vincenzo Manes. In oltre un mese di telefonate, non è stato possibile fissare né un incontro, né visitare il loro camp sull’Appennino pistoiese (si aprì ai giornalisti solo nel giorno dell’inaugurazione). Accoglie dallo scorso anno, per vacanze estive, bambini colpiti da gravi malattie. Investimento da cinque milioni di euro (raccolti, in due anni, attraverso donazioni private: l’80% da imprese che hanno fatto elargizioni medie da 60mila euro) per garantirne l’avvio e i primi tre anni di attività. Dal 2010, il camp dovrà sostenersi. Venture Philantropy, appunto.
Tasto sensibile, questo della “visibilità” di un’attività filantropica. Intesa Sanpaolo (banca armata) sventola, come un fiore all’occhiello e scintillii sui giornali, i soldi (tanti) messi nel progetto di lotta all’Aids in Malawi: è filantropia o marketing sociale?
È un interrogativo irrilevante, questo? “Le grandi imprese hanno azionisti e controllori -mi spiegano ancora-. È inevitabile: devono avere qualcosa in cambio quando sono generosi’. Quanto questo scambio condiziona il ‘far del bene’?”.
Luciano Balbo a Milano mi aveva detto: “Vedo tanto marketing in giro. Poca professionalità. I soldi vengono distribuiti, ma poi chi segue il progetto?”. Contraddizioni sottili in questo mondo, impalpabile e concretissimo, della filantropia. Ancora una domanda dalle mille risposte: è indifferente come sono stati fatti i soldi che vengono poi donati? “No, non lo è -dice ancora Balbo-. È un questione aperta. Se mi limito solo a speculare sui mercati finanziari, i problemi, prima o poi, ci saranno”. È altrettanto vero che chi gestisce i patrimoni delle fondazioni è un finanziere e spiegherà, di fronte a qualunque obiezioni o perplessità, che se si vuole un reddito da investire, bisogna diversificare gli investimenti senza tanti scrupoli. Ma fin dove può spingersi il confine fra la provenienza di un patrimonio e lo scopo per il quale viene utilizzato il suo investimento?
La Fondazione Seràgnoli, a Bologna, è figlia della ricchezza privata di una delle famiglie più potenti del capoluogo emiliano. Due sorelle controllano, per eredità, il capitale della Gd, multinazionale delle macchine per il packaging del tabacco (442 milioni di fatturato, oltre duemila dipendenti). Allo stesso tempo, è grazie alla Fondazione Seràgnoli che, a Bologna, vengono assicurate cure ed assistenza ai malati terminali di cancro. È un impegno sociale che le strutture pubbliche assicurano con fatica: di fronte alle loro difficoltà interviene la generosità di una fondazione privata. Ma è come se la nuova filantropia avesse, nel suo Dna, laceranti contraddizioni.
Ma, contraddizione per contraddizione, Luciano Balbo mi sorprende: ‘Lavorare attorno a bisogni veri delle persone e cercare soluzioni concrete mi ha ricondotto nel mondo reale. A volte, nell’universo della finanza, ti dimentichi di quello che accade fuori dalla finestra e credi che il mondo sia quello che appare sul computer”.
E ancora: “Il pubblico è sempre meno in grado di far fronte ai nuovi bisogno sociali -dice ancora-. C’è un’area grigia di fragilità sociale che il welfare sta abbandonando: qui c’è lavoro per investimenti privati sociali. Non voglio meno pubblico, vorrei più privato impegnato nella società”.
No, i filantropi non cambieranno il mondo. E i destinatari della generosità abbiano la forza di stabilire, in libertà di scelta, l’orizzonte della loro felicità. In altre parole: che i beneficiati della filantropia non prendano a modello il “miliardario benevolo”.
Che cos’è una fondazione
Le Fondazioni sono enti privati. Non hanno fini di profitto. Sono state create grazie a un patrimonio che viene destino a uno scopo. La Fondazione più celebre è legata al nome del fisico Alfred Nobel: inventò la dinamite e, per contrappasso, donò le sue fortune perché fosse istituito il più prestigioso fra i premi internazionali. Molti grandi imprese stanno creando le loro Fondazioni: destinano una parte minima dei loro utili a “far del bene”. Il vecchio attore Paul Newman, nel 1982, prima di Bill Gates, creò un’impresa alimentare (la Newman’s Own): tutti i suoi profitti (200 milioni di dollari in 25 anni) sono stati destinati alla sua associazione che assiste bambini colpiti da gravi patologie. In Italia vi sono 88 Fondazioni che hanno origine dalle Casse di Risparmio e dalla Banche del Monte: ne hanno ereditato le attività sociali.
Sono persone giuridiche senza fini di lucro. Lo scopo è la conservazione e la redditività del patrimonio per poter compiere operazioni di “liberalità sociale”.
L’Istat, che lo scorso anno ha presentato la prima rilevazione sul fenomeno-Fondazioni, indica 4.720 istituti privati, con entrate che, al 2005, hanno superato i 15 miliardi di euro. Anche se la gran parte di questi enti hanno patrimoni ridotti, sono molti i soldi che girano. Ma la loro geografia è disequilibrata: quasi il 50% delle fondazioni italiane sono al Nord. Nella sola Lombardia sono 1.430. Il 57% delle fondazioni italiane sono nate fra il 1999 e il 2005.
Un Paese generoso
L’Italia è un Paese generoso? La più alta percentuale di donazioni degli ultimi anni è stata registrata nel febbraio del 2005, poche settimane dopo le onde maledette dello tsunami asiatico. Lo scorso anno, la maratona televisiva di Telethon ha raccolto 30 milioni di euro. Ogni anno, almeno un italiano su tre, a scorrere le tabelle di Eurisko, mette mano al portafoglio per donare. Per Sgw-Vita, ogni italiano dona (dati 2006) 150 euro a testa di media.
La metà vanno alla ricerca scientifica, il 27% al no-profit internazionale, un quarto alle parrocchie. Nel 2005, l’Istituto di ricerche sociali ha conteggiato la dimensione di questa generosità: 4,8 miliardi di euro (1,3 provengono da eredità e lasciti). Col 5 per mille sono altri 400 milioni di euro. Il Sole-24 ore calcola, con una stima prudenziale, che gli italiani (solo i privati, escluse imprese e Fondazioni) donino 5 miliardi e mezzo di euro ogni anno. Nel 2015 potrebbero raggiungere otto miliardi. Attorno allo 0,50% del Pil italiano. “È sicuramente in crescita, nonostante le difficoltà economiche, la tendenza degli italiani alle donazioni”, assicura Franco Vannini, consigliere delegato dell’Istituto italiano della donazione. La generosità individuale e la filantropia sono, anche in Italia (negli Usa rappresentano il 2,2% del Pil: oltre 300 miliardi di dollari), un fenomeno, sociale ed economico, più che importante.
Ma inesplorato.