Interni
Ferrovie di Stato
"Siamo tutti sullo stesso treno" spiega "Pendolaria", la campagna di Legambiente sul trasporto ferroviario regionale. In attesa del rapporto sullo stato dell’arte dei treni locali, che verrà presentato il 17 dicembre, potete leggere l’inchiesta di "Altreconomia" sui bilanci del gruppo Fs, che da quand’è guidato da Mauro Moretti vanta utili in aumento e vocazione di “mercato”. Ma dal 2006 ha ricevuto dal pubblico almeno 45 miliardi di euro —
Le Frecce continuano a correre, e le Ferrovie dello Stato celebrano un successo dopo l’altro: il primo semestre del 2013 si è chiuso con ricavi per 4,12 miliardi di euro, e un risultato netto positivo di 278 milioni di euro, in crescita del 53% circa rispetto al 30 giugno 2012 (182 milioni di euro). Ciò significa che il gruppo potrebbe chiudere il bilancio annuale con utili record, e questo potrebbe bastare a zittire le proteste dei pendolari, che sono ormai quasi 3 milioni in tutta Italia, e a far passare in sordina i nuovi tagli ai servizi, che entreranno a regime con il nuovo orario invernale (che sarà in vigore dal 15 dicembre).
Se questi numeri paiono dar ragione alle scelte dei manager dell’azienda, e in particolare a Mauro Moretti, ad di Ferrovie dello Stato Italiane spa, che a fine agosto è stato confermato alla guida del gruppo per il terzo triennio consecutivo, altri evidenziano che il salvataggio non è solo, o del tutto, farina del suo sacco: intanto, qualcun’altro (generalmente lo Stato italiano) paga per le infrastrutture, quelle che l’azienda considera alla stregua di un insediamento industriale, che come ogni fabbrica in un dato momento le Fs possono decidere di chiudere.
Una voce del bilancio del gruppo Ferrovie dello Stato è “Interventi/trasferimenti per il Gruppo di risorse pubbliche di competenza del…”, e nel periodo in cui Moretti ha guidato le Fs (cioè dal 2006 al 2012) ha garantito 34,58 miliardi di euro, cioè in media 4,94 miliardi trasferiti ogni anno. Questo significa che, siccome le Fs garantiscono un servizio pubblico, sono sovvenzionate ogni anno dallo Stato italiano (e, in minima parte, da altri enti pubblici e dall’Ue).
La maggior parte delle risorse pubbliche sono destinate alla controllata Rfi, Rete ferroviaria italiana, per finanziarie gli investimenti sulla rete e per coprire gli interventi del “contratto di programma” (quello che regalo il rapporto tra Rfi e ministero delle Infrastrutture), cioè manutenzione ordinaria e straordinaria della rete e gli interventi sulla sicurezza.
A queste vanno aggiunte -perché si tratta sempre di una trasferimento pubblico- le risorse che garantiscono la copertura dei “contratti di servizio”, ovvero quelli stipulati tra le amministrazioni regionali e Trenitalia, la società del gruppo Fs che si occupa dei treni. Secondo i calcoli di Legambiente, che ogni anno pubblica il rapporto “Pendolaria” (il prossimo è atteso per dicembre 2013, www.legambiente.it) si tratta di 11,07 miliardi di euro, tra il 2008 e il 2012, sommando la spesa dello Stato a quella delle amministrazioni regionali. In media, si tratta di oltre 2 miliardi di euro l’anno, ovvero un quarto del fatturato delle Ferrovie dello Stato.
Sommando i contributi per investimenti ai corrispettivi garantiti dal pubblico per coprire i “contratti di servizio” fanno 45 miliardi di euro.
Il che significa davvero tanto Stato, per un’azienda che pretende di fare scelte vincolate dalla domanda di mercato: a metà ottobre 2013, Mauro Moretti ha ripetuto che, dal suo punto di vista “continuare a dire che tutti hanno diritto ad avere la ferrovia e i pullman, che però rimangono entrambi vuoti, significa buttare via i soldi dei contribuenti”.
Che le Ferrovie dello Stato siano un soggetto (nel perimetro del) pubblico lo dimostra anche il fatto che il bilancio del gruppo sia sottoposto al controllo della Corte dei Conti. Che arriva sempre un po’ in ritardo, ma dà indicazioni importanti. La Relazione presentata a fine agosto 2013, e relativa al bilancio 2011, sottolinea i rischi legati all’eccessivo indebitamento di Trenitalia, pari a circa 6 miliardi di euro, parlando di “strutturale debolezza patrimoniale” e dell’esigenza di “intraprendere iniziative per non mettere a rischio la continuità aziendale”. Il bilancio consolidato delle Fs (cioè di tutto il gruppo), per il primo semestre 2013, evidenzia un indebitamento complessivo di 8,11 miliardi di euro.
Mentre il management celebra i ricavi del gruppo, questi numeri restano “nascosti” tra le pieghe delle 133 pagine di bilancio consolidato: i più interessanti abbiamo pensato di riassumerli nei grafici di queste pagine. Il più eclatante è senz’altro quello che riguarda gli investimenti, “crollati” con la progressiva chiusura dei cantieri dell’Alta velocità nella tratta Torino-Salerno: meno 36 per cento tra il 2008 e il 2012, quando son passati da 6,1 miliardi di euro nel 2008 a 3,9 miliardi nel 2012.
E il dato relativo ai primi sei mesi del 2013, 1,41 miliardi di euro, si conferma in linea con il trend -“declinante”- degli ultimi anni.
Questi dati non tolgono il sorriso a Mauro Moretti, che a giugno gongolava nelle foto che lo ritraggono a Reggio Emilia, mentre inaugura la Stazione AV Mediopadana -con lui c’erano Pierluigi Bersani, Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture, e Graziano Delrio, ministro degli Affari regionali ed ex sindaco della città emiliana-. La Mediopadana -costata 79 milioni di euro, pagati quasi interamente dalla Regione Emilia-Romagna e progettata dall’archistar catalana Santiago Calatrava a fianco dell’autostrada A1- è il simbolo delle ferrovie di Moretti: la nuova stazione è a 4 chilometri dalla città, e quindi dalla stazione Fs di Reggio-Emilia; chi scende dall’Alta velocità, non può salire su un treno del trasporto regionale -compresi quelli diretti a Guastalla, Sassuolo e Ciano d’Enza, che corrono sulla rete gestita da Ferrovie Emilia-Romagna- né su un Intercity.
Le coincidenze non esistono più da anni (i treni non si aspettano più, in caso di ritardo), e ora vengono meno anche gli scambi: se immaginiamo l’Italia come un corpo umano, ciò corrisponde a rendere sempre più difficili gli scambi tra le vene e i capillari. Così è possibile che le linee minori vadano in cancrena, e poi al chirurgo non resta che amputare. Lo ha fatto lo scorso anno la Regione Piemonte, che ha chiuso al traffico quasi un quarto delle linee ferroviarie regionali, il 24 per cento in termini di chilometri. La cancellazione di queste tratte periferiche, “complementari” secondo Rfi, ha garantito alla Regione un risparmio di 15 milioni di euro (il bilancio regionale vale circa 17 miliardi di euro). La tratta di 35 chilometri che collega(va) i centri di Ceva, circa 6mila abitanti, e Ormea, meno di 2mila abitanti a oltre 700 metri sul livello del mare, nel cuneese, “costava” 900mila euro l’anno.
Il rapporto tra Regioni e Trenitalia è definito da un “catalogo”, sulla base del quale è possibile calcolare il costo di ogni singola corsa. Per quelli relativi al 2012, si va dai 25 milioni di euro per il Molise ai 403 del più ricco, quello della Lombardia, passando per i 255 del Piemonte, cui va aggiunto sempre un 10 per cento di Iva: a parte Regione Lombardia, che è stata capace di rinegoziare il proprio “catalogo”, e che oggi paga i treni sulla base di tre diversi scaglioni di velocità, da quelli che hanno una velocità media inferiore ai 50 km/h (considerati lenti) a quelli che superano i 60 km/h (“veloci”). Per tutte le altre regioni, che pagano in base al tempo, un treno lento costa più di un treno veloce, perché impiega personale più a lungo, e occupa la rete per più tempo. In più, Trenitalia è incentivata a fornire alla Regioni tracce lente (che costano di più), anche perché così è possibile evitare ritardi (che aprono le porte a possibili richieste di risarcimento).
In media, far correre un treno per un chilometro costa 15 euro: cinque li mettono i viaggiatori, acquistando biglietti e abbonamenti; a dieci euro per chilometro corrisponde, invece, il contributo pubblico. Quest’ultimo viene definito sulla base di un contratto tra una Regione e una società di diritto privato interamente controllata dal ministero del Tesoro, cioè tra pubblico e pubblico, e su questo contratto la prima paga anche un’Iva del 10 per cento. Ciò significa che su un totale di 1,8 miliardi di euro, che è la somma del valore di tutti i “contratti di servizio” per il 2013, circa 160 milioni di euro non si traducono in treni ma in tasse.
Qualora l’Iva venisse cancellata (come si è scelto di fare, ad esempio, a favore delle società di progetto che realizzano interventi in project financing), le Regioni avrebbero a disposizione il 10 per cento in più di risorse. Fatti due conti, a 160 milioni di euro corrisponde una percorrenza di 16 milioni di chilometri in un anno, pari a oltre 43.835 chilometri in più al giorno. Calcolando una percorrenza media di sessanta chilometri per i treni regionali dedicati ai pendolari, ciò significa che -se ci fosse materiale rotabile a sufficienza- si potrebbero “garantire” 730 treni pendolari in più al giorno.
La cancellazione dell’Iva sui “contratti di servizio” potrebbe inoltre invertire la tendenza a “un sostanziale declino del numero dei treni-km e dei viaggiatori-km del trasporto regionale, anche se questi ultimi in termini relativi diminuiscono meno dei treni” come spiega Gabriele Nanni, responsabile di “Pendolaria” per Legambiente. Si traduce così: i treni regionali, sempre di meno e più piccoli, sono mediamente più affollati. In termini numerici, se nel 2006 le ferrovie offrivano 185,3 milioni di treni-km (l’espressione indica la lunghezza in chilometri di ogni corsa moltiplicata per il numero dei giorni in cui viene garantita), nel 2012 ne hanno offerti 154,8, con una riduzione del 16,5 per cento.
Nei primi sei mesi del 2013, tornano a crescere solo le Frecce, che registrano un più 10 per cento: è il mercato a dire che treni fare. Mentre la politica sceglie di “cancellare” gli interregionali tra Venezia e Milano (vedi box). Per il governo, del resto, è più importante l’Alta velocità tra Brescia e Verona o il Terzo valico tra Liguria e Lombardia piuttosto che il raddoppio della Orte-Falconara, un’opera “strategica” inserita in legge Obiettivo ma ancora ferma, anche se è una trasversale che taglia l’Appennino e collega Ancona a Perugia e a Roma. Intanto, mentre la talpa scava la galleria tra Torino e Lione, un’importante linea transfrontaliera, la Cuneo-Ventimiglia/Nizza, rischia di chiudere perché manca qualche decina di milioni di euro in manutenzioni (vedi box). —
Rami secchi
La linea ferroviaria che unisce Cuneo a Ventimiglia è lunga meno di cento chilometri, ma la metà sono in territorio francese. In base a una convenzione tra Italia e Francia firmata nel 1970, però, la manutenzione della linea è a carico dell’Italia. A luglio, il ministero delle Infrastrutture, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha quantificato in 100 milioni di euro i costi di manutenzione straordinaria e upgrading della tratta francese. Oneri definiti “insostenibili nell’attuale contesto di limitata disponibilità di risorse pubbliche”. Secondo Ugo Sturlese del Comitato ferrovie locali di Cuneo -che ha raccolto 15mila firme per chiedere di non chiudere la linea- bastano “27 milioni di euro per la messa in sicurezza della tratta francese, e non costringere i treni a rallentare la propria velocità fino a 40 km/h, rendendoli meno appetibili”. Mauro Moretti, l’ad del gruppo Fs, ha definito questa tratta un “ramo secco”, cosa che non ha fatto senz’altro rispetto alla Venezia-Milano. Un treno che “formalmente” viaggia dal Veneto alla Lombardia, nel senso che -sulla base del Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri che nel 2000 ha trasferito le competenze del trasporto ferroviario regionale- e che Regione Veneto ha pensato di cancellare, nonostante incameri dallo Stato le risorse per coprire la tratta interregionale tra il capoluogo veneto e quello lombardo. Con questi soldi, il Veneto “servirà nella tratta veneta la clientela molto meglio di oggi e in concorrenza per costi e velocità con le Frecce di Trenitalia”. Lungo la tratta corrono 8 coppie di treni al giorno. Che ora si fermeranno a Verona.