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Fermata Mezzogiorno
Tra fughe, ritorni e progetti di futuro: il racconto del Sud inatteso attraverso le voci di chi si impegna quotidianamente per il riscatto
La salvezza può arrivare dai luoghi più inaspettati. Per Antonio, Raffaele, Miriam e tanti altri ragazzi del rione Sanità di Napoli la salvezza viene da sotto terra: dalla rete di cunicoli che formano le catacombe di San Gaudioso e di San Gennaro e che si snodano sotto il loro quartiere. “Tutti noi avevamo il desiderio di non andare via. Non ci chiedevamo cosa voglio fare da grande. Ma: cosa voglio fare da grande a Napoli”. Vincenzo Porzio è uno dei soci fondatori della cooperativa “La Paranza” che dal 2006 gestisce il sito culturale delle catacombe: “Io e i miei amici frequentavamo Santa Maria alla Sanità. Su stimolo del nostro parroco, abbiamo iniziato ad accompagnare i turisti alla scoperta della basilica e grazie a lui abbiamo iniziato a maturare la consapevolezza che il riscatto del rione passa attraverso la bellezza -spiega Vincenzo che, a 33 anni, è uno dei soci più anziani-. E che è possibile immaginarsi un futuro a Napoli facendo leva sul patrimonio artistico e sui giovani”.
Nel 2008 “La Paranza” vince un bando promosso da “Fondazione con il Sud” che ha permesso ai ragazzi della cooperativa di recuperare le catacombe di San Gennaro, di imparare a gestirle e aprirle al pubblico. A dodici anni dalla sua fondazione, i numeri hanno premiato la scommessa dei giovani della “Paranza”: i 5mila ingressi registrati alle catacombe di San Gaudioso e San Gennaro nel 2006 sono diventati 104mila nel 2017; mentre i dipendenti sono passati da 5 a 23. Con ricadute positive sull’economia di tutto il quartiere. Una storia controcorrente rispetto a una tendenza generale che negli ultimi anni ha visto un aumento dei flussi migratori da Sud verso Nord: tra il 2002 e il 2015 oltre 1,7 milioni di persone hanno lasciato le regioni del Mezzogiorno tra cui 903mila ragazzi di età compresa tra i 15 e i 34 anni e circa 200mila laureati under 35. In un’Italia che continua a invecchiare, se non ci sarà un’inversione di tendenza sarà il Mezzogiorno a pagare il prezzo più alto. Se nelle Regioni del Centro-Nord le migrazioni andranno a compensare almeno in parte i flussi in uscita, questo non avverrà nel Sud che, secondo le previsioni Istat, tra il 2016 e il 2065 perderà più di 5 milioni di abitanti.
“La novità più drammatica del nostro tempo rispetto alle emigrazioni del passato sta nel fatto che un tempo partivano soprattutto braccianti e contadini poveri, oppure i membri del ceto impiegatizio di basso reddito -spiega lo storico Piero Bevilacqua-. Oggi se ne vanno quote consistenti di diplomati e laureati: questo rappresenta un impoverimento enorme”.
“Le università del Mezzogiorno producono forze che non vanno a cambiare il proprio territorio, ma vanno altrove” – Tomaso Montanari
Tra l’anno accademico 2003-2004 e il 2014-2015 le immatricolazioni calano del 20,4% in tutta Italia. Ma con forti differenze territoriali: mentre al Nord il calo è più contenuto (-11%), nelle Isole (-30,2%), nel Sud continentale (-25,%) e nel Centro (-23,7%) il crollo è molto più forte come evidenzia lo studio “Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud” di Fondazione RES (Istituto di ricerca su economia e società in Sicilia) curato da Gianfranco Viesti, professore ordinario di economia all’Università di Bari che sulla questione taglia corto: “Questa situazione non è il frutto della cattiva sorte ma di politiche sbagliate che hanno contribuito a peggiorare la situazione, sia a livello nazionale, sia a livello di ripartizione sul territorio”.
Tre i fattori che, secondo Viesti, spiegano la riduzione di immatricolati e iscritti negli atenei del Sud: il calo demografico che si registra in quelle regioni, il calo di passaggio dalle superiori alle università e l’aumento del numero di studenti che sceglie di laurearsi in un ateneo del Nord. Nel 2014, su un totale di quasi 712mila studenti universitari residenti nel Mezzogiorno, solo 564mila frequentavano un ateneo del Sud. Gli altri avevano scelto di immatricolarsi altrove.
182 chilometri, il trasferimento medio di ogni studente universitario del Sud che volesse raggiungere il proprio ateneo
Banca d’Italia calcola che nell’anno accademico 2015-2016 quasi un quarto degli immatricolati residenti nel Mezzogiorno si è iscritto in un ateneo del Centro-Nord (era il 18% nel 2007). Una quota che sale al 38% se si considerano le iscrizioni al primo anno della laurea specialistica. Sempre uno studio di Palazzo Koch evidenzia come la crescente mobilità abbia determinato “l’aumento della distanza media in chilometri che intercorre tra il luogo di residenza dello studente che si immatricola e la sede del corso di laurea prescelto”, si legge nel paper “Immatricolazioni, percorsi accademici e mobilità degli studenti italiani”. Mentre nelle regioni del Nord la distanza media tra il luogo di residenza delle matricole dal proprio ateneo oscilla tra i 44 e i 61 chilometri (in linea d’aria), chi vive a Sud deve affrontare un trasferimento medio di 182 chilometri.
Le università del Sud hanno subito un significativo taglio dei finanziamenti pubblici: se nel 2008 il contributo statale era di 135 euro pro capite al Nord e 127 euro al Sud, nel 2014 si è passati, rispettivamente a 117 euro al Nord e 99 euro a Sud. “Le politiche portate avanti in questi dieci anni, da tutti i Governi, hanno portato alla costruzione di un sistema in cui ci sono alcune università ‘di serie A’: in cui c’è stata una riduzione contenuta dei finanziamenti pubblici, dove c’è una discreta possibilità di sostituire il personale andato in pensione e dove è stato possibile mantenere l’offerta formativa. Tutte queste università si trovano al Nord. Mentre al Centro e al Sud non ce ne sono -commenta Viesti-. Questa situazione ha un effetto disastroso, perché aumenta le disuguaglianze economiche e sociali”.
560 mila circa, i posti di lavoro persi nel Mezzogiorno tra il 2008 e il 2014
“La fuga di chi si è laureato a Sud è particolarmente dolorosa -riflette Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte moderna presso l’Università Federico II di Napoli-. Abbiamo spesso la sensazione di instradare i nostri studenti verso il nulla. Diamo loro degli strumenti, spesso buoni ed efficaci, ma qui non trovano un contesto in cui spenderli. Le università del Mezzogiorno producono forze che non vanno a cambiare il proprio territorio, ma vanno altrove”.
La Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, svimez.info) attesta una leggera ripresa del Pil del Mezzogiorno nel 2015 (+1,1%) e nel 2016 (+1%). Superiore rispetto a quella registrata al Centro-Nord negli stessi anni, ma il gap da recuperare resta ancora importante: tra il 2008 e il 2014 il Mezzogiorno ha perso il 13,2% del Pil. “Una crescita che però non è in grado di incidere sull’emergenza sociale”, riflette Giuseppe Provenzano , vicedirettore della Svimez. Nel 2016, circa 10 meridionali su cento risultano in condizioni di povertà assoluta, il doppio rispetto al dato del 2006. Drammaticamente alta anche la quota di persone a rischio di diventare poveri: il 34% (con punte che arrivano al 40% in Sicilia e Campania) a fronte di un dato nazionale del 19%. “C’è stato un aumento dell’occupazione nel turismo, l’industria agroalimentare è in ripresa e ci sono alcune aziende d’eccellenza. Ma la crisi ha cancellato tutta una rete di piccole e medie imprese molto attive -riflette Tonino Perna, economista e professore ordinario di Sociologia economica presso l’Università degli Studi di Messina-. Inoltre, il Pil non misura una serie di elementi, tra cui la qualità dei servizi. Basti pensare al fenomeno del turismo sanitario”. L’edizione 2017 del rapporto dell’Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano dell’Università Bocconi di Milano evidenzia il “peggioramento del differenziale Nord-Sud dal punto di vista qualitativo dei servizi e dei risultati raggiunti”: la quota di ricoveri acuti in regime ordinario erogati in mobilità extraregionale passa dal 7,4 nel 2010 all’8,2% nel 2016. Aumentano anche i ricoveri ordinari per la riabilitazione (dal 14,7% al 16,3%).
“Essere giovani e pensare di realizzarsi qui è una sorta di utopia. Ma chi sceglie di restare non è più coraggioso di chi è andato via” – Pietro Fragasso
La Svimez individua nell’incremento dei lavori a bassa retribuzione la principale causa dell’impoverimento della popolazione del Mezzogiorno. Tra il 2008 e il 2014 sono andati in fumo circa 560mila posti di lavoro. “Una perdita che è stata recuperata solo in parte -commenta Giuseppe Provenzano-. Il Sud ha circa 350mila occupati in meno rispetto al 2008. Mentre nelle regioni del Centro-Nord i posti di lavoro persi sono stati recuperati integralmente. Inoltre è aumentato il lavoro a tempo parziale che, nella maggior parte dei casi, non viene scelto dal lavoratore per conciliare i ritmi della famiglia con quelli del lavoro. Ma perché si tratta dell’unica forma di impiego possibile”. Tra il 2008 e il 2016, infatti, si assiste infatti a un calo dei contratti a tempo pieno (-12%) a fronte di un aumento del 36,3% dei part-time: quasi 8 su 10 (il 78%) sono part-time involontari. “Inoltre nel sistema produttivo sta aumentando la polarizzazione: da una parte una quota di imprese che fanno registrare risultati eccellenti, dall’altra una netta maggioranza di imprese che sopravvivono soltanto attuando strategie a ribasso”, aggiunge Provenzano.
I numeri non raccontano tutto. “Essere giovani e pensare di realizzarsi qui è una sorta di utopia. Ma chi sceglie di restare non è più coraggioso di chi è andato via”, spiega amaramente Pietro Fragasso, presidente della cooperativa sociale “Pietra di scarto” di Cerignola (Foggia), un presidio di legalità in un territorio in cui la presenza delle mafie è molto forte. E dove è normale, per un ragazzo accettare un lavoro a 300 euro al mese. “Perché non ci sono alternative. Si è diffusa, purtroppo, l’idea che lavorare in queste condizioni sia normale -spiega Fragasso-. Ci sono ottime aziende, ma sono un’eccezione: la gran parte dell’economia qui è inquinata da un modello economico che impone lavori a basso reddito e in condizioni di minima sicurezza”. In questo contesto, Pietro e gli altri soci della cooperativa provano a immaginare un lavoro e un futuro diverso in una delle filiere più complicate del Sud: quella del pomodoro. Un prodotto d’eccellenza che però viene pagato alle aziende produttrici appena 5 centesimi al chilo. E che viene raccolto, anno dopo anno, da migliaia di immigrati costretti a vivere e lavorare in condizioni di degrado e sfruttamento: “Coltivare pomodoro qui è diventato una sorta di sport estremo”, puntualizza Fragasso.
“Trasferire risorse non basta, devono essere assegnate solo in presenza di esperienze di forte coesione sociale, radicate sul territorio. E deve esserci un controllo attento” – Carlo Borgomeo
Sui tre ettari di terreno confiscati a uno dei clan foggiani di riferimento degli anni Ottanta, la cooperativa “Pietra di scarto” produce olive e pomodoro che vengono commercializzati attraverso il marchio “Solidale italiano” di Altromercato. “Il prezzo che ci viene garantito al momento dell’acquisto del pomodoro ci ha permesso di aprire un dialogo con i produttori sulla qualità del prodotto e la possibilità di convertirsi al biologico. Impieghiamo una decina di persone nelle varie fasi della lavorazione: non strappiamo la pianta, ma si passa più volte per raccogliere a mano il frutto durante la maturazione”, spiega Pietro Fragasso. A dicembre, inoltre, prenderanno il via i lavori di ristrutturazione di uno stabile per farlo diventare un laboratorio di trasformazione.
Una sfida non facile in un territorio dove l’esistenza delle mafie è stata a lungo negata. Dall’ultima edizione della Relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) emerge il quadro di una mafia feroce e ancora violenta, strutturata, capace di controllare il territorio e gestire affari. Ad aggravare la situazione, scrive la Dna “nessun apporto collaborativo da parte della popolazione, assenza di collaboratori di giustizia”. Non è un caso che Libera, abbia deciso di celebrare la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie proprio a Foggia. In questi territori, la possibilità di creare lavoro è limitata anche dalle difficoltà che le imprese incontrano nell’accesso al credito. Nella maggior parte delle regioni meridionali, infatti, i depositi bancari (283 miliardi di euro nel 2016) superano seppur di poco i prestiti (178 miliardi). Dall’indagine 2016 della Banca d’Italia, inoltre, è emerso che il 26% delle aziende meridionali che hanno richiesto nuovi finanziamenti sarebbero anche disposte ad accettare condizioni più onerose (contro il 23,8% delle aziende del Nord). A tutto questo si aggiunge il progressivo disinvestimento di risorse da parte dello Stato. I dati della Svimez permettono di confutare alcuni luoghi comuni. La spesa per la Pubblica amministrazione, ad esempio, è significativamente più bassa: 6.573 euro per abitante nel 2015 nel Mezzogiorno contro i 7.328 euro nel Centro-Nord. Anche al netto della previdenza sociale, la spesa pro-capite della Pa nel Mezzogiorno è di oltre venti punti inferiore a quella che si registra nel Centro-Nord e punte ancora più alte in alcuni settori. Nella formazione e cultura, ad esempio, per 100 euro spesi al Centro-Nord ne vengono spesi 63,6 al Sud; nell’edilizia abitativa e urbanistica si arriva a 67,7 euro; mentre nei settori economico il gap è a 42,5 euro. Ma la “questione meridionale” non è solo economica. “È una grande questione morale -riflette Tomaso Montanari-. Le diverse velocità tra le due parti del Paese non riguardano solo la produttività, ma anche la legalità e la giustizia”. Le difficoltà del Sud non si misurano solo nello scarso di punti di Pil ma anche con la possibilità di accedere ai luoghi della cultura: “Solo a Napoli ci sono circa duecento chiese monumentali chiuse al pubblico, alcune dagli anni Ottanta -conclude Montanari-. E se non ci saranno assunzioni straordinarie, nei cinque anni della prossima legislatura alla Biblioteca centrale di Napoli andranno in pensione 35 bibliotecari su 36”. “La povertà educativa viene gravemente sottovalutata, soprattutto quella che colpisce i bambini e i ragazzi -spiega Carlo Borgomeo, presidente della ‘Fondazione con il Sud’-. Occuparsi di questo tema non riguarda solo il riconoscimento di pari diritti a tutti i minori, ma è anche un investimento certo sul futuro di tutto il Paese”.
“I ragazzi che arrivano qui hanno tutti la licenza media, ma è solo un pezzo di carta”. Da 34 anni Maria Franco insegna italiano, educazione civica e storia ai giovanissimi detenuti di Nisida (Napoli). Ragazzi che hanno commesso gravi reati e che proprio in carcere hanno la possibilità di scoprire orizzonti diversi attraverso lo studio, il laboratorio di teatro, i corsi di pasticceria e pizzeria. “I nostri ragazzi sono convinti di essere intrappolati all’interno di un destino che non possono cambiare. Hanno situazioni familiari molto complesse: familiari in carcere, madri che devono far fronte da sole a tanti problemi -spiega Maria Franco-. Ma anche laddove non ci sono famiglie malavitose, spesso i genitori non riescono a porsi come educatori. E questo diventa ancora più complesso e complicato quando si somma alla povertà, alla precarietà e alla presenza pervasiva della criminalità organizzata”. Mettere al centro bambini e ragazzi non significa solamente contrastare la dispersione scolastica, ma soprattutto “andare a contrastare quei fattori che rendono debole un minore -aggiunge Borgomeo-. Nelle periferie più difficili di molte città osserviamo un fenomeno preoccupante: ragazzini anche di 10-11 anni che stanno per strada e diventano bacino di reclutamento per la criminalità organizzata. O vanno a lavorare in nero, in condizioni di sfruttamento. Questa sfida non riguarda solo la scuola: tutta la comunità deve porsi il problema di diventare comunità educante”.
35 bibliotecari su 36 della Biblioteca centrale di Napoli andranno in pensione nei prossimi cinque anni. E non verranno sostituiti
La risposta passa anche dall’attivazione di processi di coesione sociale, ovvero “l’elemento che rende possibile la crescita economica -conclude Borgomeo-. Trasferire risorse non basta, devono essere assegnate solo in presenza di esperienze di forte coesione sociale, come cooperative ben radicate sul territorio. E deve esserci un controllo attento. In caso contrario, diventa assistenzialismo”.
Esperienze come quella della Fondazione di comunità di Messina che, nata nel 2010, ha creato circa 250 posti di lavoro sperimentando pratiche di “welfare alternativo”. Tante le iniziative promosse in questi anni come il progetto di microcredito o il progetto sperimentale di housing sociale rivolto agli abitanti del quartiere Maregrosso che ancora vivono nelle baraccopoli sorte dopo il terremoto del 1908. O il rilancio dello storico “Birrificio Messina”, la cui chiusura avrebbe lasciato 15 persone senza lavoro: “Li abbiamo aiutati a costituirsi in cooperativa, a sviluppare un piano industriale e ad attrarre fondi per un totale di 3 milioni di euro -ricorda presidente Gaetano Giunta-. Inoltre abbiamo lanciato una campagna di comunicazione sociale per far riavvicinare la città alla sua birra. All’inaugurazione del nuovo stabilimento c’erano 5mila messinesi. Non è un indicatore economico, ma di quel capitale sociale che rende possibile un vero sviluppo”.
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