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Altre Economie

Famiglie di nuovi contadini

Le parole di chi ha scelto di tornare alla terra, dedicandosi ad agricoltura e allevamento biologico. E condividendo questa scelta con i propri figli

Tratto da Altreconomia 145 — Gennaio 2013

“Mio padre lo vedi che è contento; che stare con gli animali, fare quel lavoro lì in montagna lo rende più rispettoso”. Maria ha quattordici anni e di suo padre, che alleva vacche brade, dice che “è un figo”.
Queste pagine raccontano storie di ex-cittadini diventati allevatori, sotto il profilo particolare della sostenibilità umana e famigliare dei loro percorsi, cercando di raccogliere anche le voci dei figli, che queste scelte le hanno “subite”.
Stefano Chellini, il padre di Maria, dal 1998 è presidente della Cooperativa Monte Capenardo di Davagna (Ge) e nel direttivo di Aiab Liguria.
La cooperativa alleva allo stato brado 120 bovini da carne con metodo biologico su un territorio di circa 120 ettari fra pascolo e bosco.
Stefano è un contadino anomalo: quando col suo socio Michele è entrato a far parte della cooperativa, ha deciso di non lasciare la sua casa nel centro storico di Genova. Tutte le mattine alle 6 (d’estate alle 5) lascia i vicoli e in 40 minuti raggiunge le mucche e il suo cane. La sua “contadinità”, contrariamente alla maggior parte delle storie che conosciamo, la condivide solo con loro.
“Ho deciso di continuare a vivere a Genova, in centro storico, perché sono molto legato alla città e perché ha tutti i vantaggi del piccolo centro senza gli svantaggi della vita di paese. Io sento forte il bisogno di vivere relazioni strette e di qualità, con persone di cui condivido i valori e gli interessi del tempo libero. Se abitassi dove lavoro temo vivrei relazioni molto più povere.
L’aspetto negativo della scelta è certamente l’impatto ambientale, che è altissimo. Quasi tutti i giorni passo ore in macchina. Includendo i viaggi che faccio per consegnare i pacchi di carne a domicilio. Su un fatturato di 120mila euro la cooperativa ne spende circa 2mila in carburante”.
La scelta di vivere a Genova, dove vende a domicilio quasi tutta la sua carne in pacchi da 5 e 10 chili, porta con sé la possibilità di partecipare più agevolmente alla vita politica del quartiere e della rete dell’altraeconomia (rete di una quarantina di realtà di tutta la regione, nata nel 2008) e ha prodotto una graduale identificazione di almeno una parte della clientela con la sua rete di amici. “È una cosa naturale, perché se frequento persone che condividono i miei valori loro si interessano ai miei prodotti, li promuovono fra altre persone affini; le conosco quando vado a consegnare la carne, mi ci trovo bene perché condividono i miei interessi e i miei valori”. Nell’ambito della rete per l’altraeconomia Stefano coordina un gruppo di lavoro provinciale che si occupa di agricoltura: “Lo posso fare perché mi sono collocato, se vuoi un po’ per caso, sul segmento dell’allevamento brado di mucche da carne. Dico ‘per caso’ perché la cooperativa esisteva già (dal 1983) e allevava già mucche di razza Limousine.
Il punto è che gli animali da carne, se allevati allo stato brado, chiedono pochissima ‘sorveglianza’ -soprattutto in un posto come Capenardo che risente del clima marittimo e ha quindi quasi sempre erba abbondante- e questo aumenta di molto la flessibilità dei tuoi tempi di lavoro. Gli animali da latte sono invece estremamente vincolanti, più di tutti le mucche, che hanno bisogno di due mungiture al giorno a distanza di 12 ore. Se tieni conto che la mungitura richiede due ore di preparazione e due di riordino, il tempo per andare alle riunioni politiche, con gli orari che hanno, non c’è.
Vivere in città significa anche che Genova è lo spazio condiviso con le figlie, cosa che a Stefano non dispiace. Le bambine vivono buona parte della settimana in campagna in Piemonte con la mamma, ed è contento di vivere con loro le amicizie con le famiglie di città. E poi capita a volte di salire all’allevamento insieme. Così Anna, la figlia minore, a molte mucche si è affezionata per la consuetudine di anni: considerando che la politica della cooperativa è quella di lasciar vivere le vacche a lungo, fino a 10-14 anni, alcune mucche l’hanno effettivamente ‘vista nascere’.

Irene ha diciotto anni e quando i suoi l’hanno portata a Casembola, piccolo borgo vicino a Borgo Val di Taro (Pr) ne aveva cinque. Al posto del cortile di un condominio milanese aveva prati e boschi, e tutta quella libertà insieme le sembrava bellissima. Crescere a Casembola, soprattutto negli anni dell’adolescenza, non è però stato sempre facile.
Francesco e Laura Querzola, i suoi genitori, con un passato importante da volontari in Africa, non si erano trasferiti in campagna alla ricerca di una vita ritirata. Hanno scelto Borgotaro perché una vecchia casa di famiglia con un po’ di terreno era il capitale iniziale di cui avevano bisogno per iniziare un’attività agricola. Ma hanno sempre mantenuto rapporti intensi con gli amici di Milano e i compagni dell’associazione di volontariato, con cui trascorrevano tutte le vacanze estive e mantenevano un impegno per l’Africa.
“Io mi sentivo divisa fra le amiche, con cui condividevo le emozioni estive, i valori, le scelte, e i compagni di scuola di Borgo Val di Taro. Questo mi pareva un ambiente chiuso, impermeabile alle attenzioni sociali. Sentivo la mancanza delle amiche lontane, e d’altra parte mi pesava non avere i pantaloni uguali alle mie amiche di qua.
Ora che ho la possibilità di muovermi liberamente e frequentare chi scelgo, sono molto felice di essere cresciuta così e avverto il valore della vicinanza che ci hanno garantito i miei. Ho imparato a distinguere gli ambienti, a vivere con le amiche di qui le cose di qui, e con gli altri le scelte di volontariato.
Quel che non mi è ‘passato’, delle scelte dei miei genitori, è l’amore per la campagna: dall’anno prossimo vorrei andare a studiare a Milano, e credo che in campagna non tornerò”.
Francesco a Casembola alleva dal 1998 maiali bradi con metodo biologico su un terreno di 20 ettari; ne trae carne e insaccati della tradizione parmigiana prodotti per lui da terzi; da un frutteto di 2 ettari curato da Laura ricavano conserve e succhi di frutta bio.
“Non siamo partiti per chiuderci in un posto bello –spiega Francesco-, e quando i figli crescono abitare in campagna cercando di non limitarli comporta un grande impegno. I nostri figli hanno tutti fatto sport a livello agonistico, e questo significa tre allenamenti alla settimana più la partita. Che, moltiplicato per quattro, significa dodici appuntamenti. Poi ci sono le serate con gli amici. Fai conto che ad andare e tornare da Borgotaro ci vuole mezz’ora: ogni giorno vanno circa tre ore di macchina per organizzare tutti quanti.
Il risultato è che sei sempre di corsa. All’inizio lavoravo anche da agronomo come consulente, un impegno che ho potuto abbandonare solo gradualmente, e che ci ha consentito di mantenerci finché l’azienda, che è in pari da tre anni, non ha iniziato ad essere produttiva”.

Quello del “lavoro ponte”, che consente a chi non ha capitale iniziale di avviare un’attività agricola, è un tema su cui tornano Paolo e Piera Kovac, che allevano api con metodo biologico a Ponzone (Al). “La scelta centrale è stata andare a vivere in campagna -spiega Piera-. L’idea delle api è venuta dopo, perché abbiamo avvertito subito che vivendo in un posto isolato correvamo il rischio della solitudine. E che a fare la differenza è un lavoro che davvero ti leghi al territorio”.
L’apicoltura è adatta a chi ha pochi mezzi, perché consente un investimento graduale, non richiede grandi capitali (un’arnia completa di api costa 150 euro) e rende bene su scala  artigianale”.
“All’inizio il ‘capitale’ eravamo solo noi, e abbiamo comprato due o tre casette per provare.
Poi piano piano siamo cresciuti, abbiamo aperto l’azienda per poter ricevere qualche contributo, e avviato un laboratorio nostro. Ora, dopo nove anni di attività, con 150 arnie e una produzione di 40 quintali di miele all’anno, Paolo può permettersi di lasciare del tutto l’altro lavoro, e col ricavato dell’azienda e il mio stipendio da educatrice viviamo in quattro” conclude.
Il problema è che di “lavori ponte” se ne trovano sempre meno e lo spopolamento continua: “Abbiamo visto amici della nostra età andarsene senza che arrivasse nessuno di nuovo. La scelta dell’isolamento costa a volte tanta fatica –racconta ancora Piera-: i contatti coi vecchi amici si allentano, fai nuove amicizie con chi ha fatto la tua scelta, magari a qualche chilometro di distanza, o attraverso i bambini e la scuola, l’attività sportiva. Però sono rapporti molto diluiti, difficili da nutrire, e questo vuol dire anche poca rete di sostegno nella gestione dei figli”.
Pur nelle difficoltà, e con la crisi che li circonda, vedere l’azienda che cresce e si irrobustisce dà speranza. “Quello che mi piace -dice Paolo- è che i miei figli possano vedere che possiamo vivere del nostro lavoro manuale; che possano mangiarlo, condividerlo, vedere che ce la possiamo cavare. Toccare il lavoro. Questo è il valore aggiunto di questa scelta”.

Uno che l’isolamento lo ha scelto consapevolmente è Dario, 26 anni. È salito in montagna dopo il diploma da perito agrario, e fino a tre anni fa è rimasto fra alpeggi valdostani e moderne aziende agricole d’alta quota in Svizzera. Poi uno zio lo ha invitato ad avviare un’azienda di allevamento di maiali bradi e coltivazione di frutti bio su un terreno di famiglia abbandonato vicino a Mele (Ge). Così si è trasferito a vivere da solo nella vecchia casa di famiglia. “Per scegliere di tornare a lavorare una terra incolta devi essere un po’ vecchio dentro -ride-. Devi, cioè, avere una grande passione per il lavoro e apprezzare la solitudine. Anche se nella scelta di venire a lavorare qua ha inciso ovviamente anche la possibilità di essere a venti minuti di macchina da Genova, e di poter vedere amici e famiglia quando voglio”.
Dario ha disboscato, costruito recinti, avviato l’allevamento. Ora macella sei maiali al mese da cui trae carne e insaccati, tutti venduti ai gruppi di acquisto solidali di Genova; fra 5 anni conta di raggiungere il pareggio.
Nel frattempo è salito a lavorare con lui un giovane pastore sardo che si occuperà di pecore e degli alberi da frutto.

Mario ha vent’anni. Quando Marta e Giorgio lo hanno portato in Val Maira (vedi Ae 133) ne aveva sei. La sua storia si è quasi tutta giocata in valle, e Mario -a differenza di Irene, la figlia di Francesco e Laura- ha deciso di fermarsi a lavorare nell’azienda di famiglia a San Damiano (Cn), che alleva capre con metodo biologico e produce caprini di latte crudo. “Sono contentissimo di vivere in montagna: qui ci sono la mia borgata, la mia terra, i miei animali. In tutta la valle saremo una quarantina di ragazzi fra i 20 e i 30 anni, ma siamo molto legati.
La montagna ti fa diventare grande in fretta; fin da piccolo dai una mano con le bestie, col fieno, e ricevi un piccolo compenso. Impari a cavartela, a dare importanza al lavoro. Certo, se vuoi uscire il sabato sera devi farti trenta chilometri, se vuoi andare a trovare la morosa devi farne cinquanta, ed è vero che si corre sempre e che il lavoro è duro. Però lo stress è una cosa diversa; non baratterei mai la montagna con la vita di città.
Io qui mi sento libero, parte di una storia, coltivo la passione per i cavalli, per lo sci e suono in un gruppo di musica occitana. Credo sia una componente della libertà della mia vita potermi prendere tre ore alla settimana per studiare musica a Saluzzo”. —

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