Ambiente / Attualità
Eni, la svolta rinnovabile che non si è ancora vista
Dieci anni fa la multinazionale controllata dallo Stato aveva deciso di lanciarsi nella “chimica verde”, con interventi -tra gli altri- sugli impianti di Porto Marghera, Gela e Porto Torres. Ecco che cosa è rimasto oggi di quell’impegno
Sono passati quasi dieci anni da quando Eni, la multinazionale degli idrocarburi, ha lanciato il progetto di ricerca della prima “bioraffineria” del mondo. Una sorta di contromisura di fronte al tracollo mondiale della raffinazione del greggio, qualcosa che solo in Europa, dal 2009 ad oggi, ha comportato la chiusura di 11 impianti. Di fatto, una scelta che per l’azienda guidata oggi da Claudio Descalzi avrebbe dovuto segnare la svolta “verde” e sostenibile, attraverso la conversione ecologica degli impianti fossili di Venezia, a Porto Marghera, e di Gela, in Sicilia. Dieci anni dopo l’annuncio, e a pochi mesi dal lancio sul mercato di quello che una consolidata retorica definisce “il carburante più pulito del mondo” (La Nuova Venezia, gennaio 2016), è tempo di bilanci. Partendo da un presupposto non secondario: quando si parla del “Nuovo Eni Diesel +”, che viene prodotto interamente dalla “green refinery” di Venezia, ci si sta riferendo a un gasolio che contiene derivati vegetali per un massimo del 15%. Eni è tenuta a portarsi avanti, viste le soglie imposte dalla normativa europea (“Renewable Energy Directive 20-20-20”), che impongono che il potere calorifico bio dei carburanti raggiunga il 10% entro il 2020.
“Abbiamo l’energia per vederlo. Abbiamo l’energia per farlo”, recita lo slogan. Che al consumatore non ricorda un numero: il “biodiesel” interamente vegetale prodotto alla bioraffineria di Venezia è pari allo 0,75% dei gasoli commercializzati da Eni (30mila tonnellate su 4 milioni). E c’è di più: Porto Marghera, dove l’impianto è operativo e da dove proviene come detto l’intera quantità di “biodiesel sostenibile” venduto da Eni, lavorerà alla massima potenzialità tra un anno almeno. Quindi, la soglia produttiva di 1 milione di tonnellate annue di biodiesel -sommando entrambi i poli, dove “Eni vuole investire almeno 350 milioni di euro”, come ha spiegato ad Ae l’ingegner Giacomo Rispoli, Executive Vice President Portfolio Management & Supply and Licensing, Eni Refining & Marketing and Chemicals- non potrà essere raggiunta prima del 2018.
Gela, dove l’impianto è gestito dalla società Raffineria di Gela Spa, di cui Eni detiene il 100% delle azioni, è ancora più indietro. Il provvedimento di “non assoggettabilità a Valutazione di impatto ambientale” del progetto (tecnicamente, “G2 Project”) ha ricevuto il parere favorevole della Commissione VIA del ministero dell’Ambiente alla metà di marzo 2016. Per “non assoggettabilità” s’intende che il “proponente” (Eni) ottiene il via libera senza ulteriori approfondimenti ma solo alcune prescrizioni, autocertificando “potenziali incidenze significative” su siti sottoposti a tutela (come quelli della Rete Natura 2000, il principale strumento dell’Unione europea per la conservazione della biodiversità).
Ma il punto non è la tempistica quanto il merito dei progetti. Lo dimostra il citato parere della Commissione VIA del ministero dell’Ambiente (peraltro già oggetto di un esposto di alcuni parlamentari per sospetti conflitti di interessi) a favore dell’impianto siciliano. I “biocarburanti innovativi e di elevata qualità” saranno prodotti da biomasse “inizialmente di prima generazione come olio di palma raffinato ed acidi grassi derivati dall’olio di palma (PFAD)”. Solo successivamente verranno integrate nel ciclo anche “cariche di seconda e terza generazione (grassi animali, oli esausti, oli derivanti da alghe e scarti di varie tipologie)”. “La nostra tecnologia è in grado di trattare una grande varietà di materie prime -sostiene Rispoli-: qualunque tipo di olio vegetale può essere trasformato in biocarburante di alta qualità”. Resta il fatto che la materia prima dell’avviamento di Gela -dove gli addetti dell’impianto sono passati dai 1.132 del 2013 ai 757 del quarto trimestre del 2015- sarà quindi costituita “da una carica 100% olio di palma”, motivata da Eni “dalla grande disponibilità di tale prodotto sul mercato, la sua convenienza economica e l’attuale scarsa disponibilità dì approvvigionamento di cariche di seconda e terza generazione”. E se mai dovessero convenire, le risorse alternative all’olio di palma delle raffinerie Eni di Gela e Venezia non potranno comunque oltrepassare la soglia 10% del totale. È il motivo per cui “il giudizio sulla conversione Eni in quei siti non può essere che negativo -come spiega ad Ae Beppe Croce, responsabile Agricoltura di Legambiente- proprio perché punta su un gasolio fondato sull’olio di palma a scapito di una filiera che personalmente ritengo più interessante, come quella del bioetanolo di seconda generazione”. Anche se né a Venezia né a Gela sono state però depositate “osservazioni” da parte di terzi durante l’iter autorizzativo.
Sulla dipendenza dall’olio di palma la Commissione VIA si è limitata ad esprimere un augurio -“auspicabile tendere all’utilizzo sempre maggiore di biocombustibili di seconda e terza generazione”- e formulato prescrizioni sulle certificazioni italiane ed europee dell’olio di palma proveniente soprattutto dai principali Paesi produttori del mondo, Indonesia e Malesia, per i noti problemi collegati alla deforestazione, ai diritti dei lavoratori delle compagnie e alla perdita di biodiversità.
A Venezia, in ogni caso, la materia prima più lavorata nel 2014 (ultimo dato disponibile) è stata la Virgin nafta (540mila tonnellate contro le 127mila di olio vegetale), un prodotto della raffinazione petrolio. Sono lontane dunque le materie più sostenibili dell’olio di palma, come ad esempio le microalghe, che in ogni caso portano con sé problematiche legate al consumo di suolo per la loro coltivazione e, in quanto prodotte ad hoc e non frutto di un recupero, non rispondono pienamente ai principi dell’economia circolare. E lontana è una significativa quota di mercato. “Nel 2015 abbiamo venduto il nostro gasolio premium prodotto interamente a Venezia nell’ordine di 200mila tonnellate -racconta Rispoli-, pari al 5% dei gasoli messi in commercio da Eni. I primi dati del 2016, però, hanno registrato un incremento del 30% delle vendite nel primo trimestre rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”.
Simile alle “bioraffinerie” è la sorte della “chimica verde” di Eni, che vede in Sardegna, al petrolchimico di Porto Torres (SS), un altro avamposto. A fine febbraio di quest’anno i sindacati sono scesi in piazza contro l’annunciata cessione al fondo di investimento americano Sk Capital della branca chimica di Eni rappresentata dalla società Versalis. Descalzi l’ha definita “non strategica”; come i posti di lavoro, passati dai 4.707 del 2013 a 4.242 dell’ultimo trimestre 2015.
Ed è proprio nella zona industriale “La Marinella” di Porto Torres che ha la sede legale Matrìca Spa (99 dipendenti, 37,5 milioni di euro di capitale sociale e una perdita, nel 2014, di 11 milioni di euro su 14 milioni di fatturato), posseduta al 50% ciascuno da Versalis e Novamont. Quest’ultimo -partecipato al 25% dalla stessa Versalis, dunque Eni- è il colosso chimico di Novara che conta 400 dipendenti ed è attivo nel settore delle bioplastiche e del Mater-Bi®. Nelle intenzioni di Eni, Matrìca avrebbe dovuto dar vita nel Sito di interesse nazionale (SIN) da bonificare a una “bioraffineria integrata di terza generazione”, un progetto che entro il 2017 “interesserà un’area di circa 27 ettari, con diversi impianti con una capacità complessiva pari a circa 350mila tonnellate l’anno di bioprodotti”. Al giudizio “molto positivo” di Croce (Legambiente), si è affiancata a metà dello scorso ottobre la “forte riserva” contenuta in un “position paper” di Slow Food Italia. Secondo l’associazione, Matrìca Spa avrebber operato fino all’ottobre 2015 solo su “aree non soggette a bonifica” di proprietà di Syndial (gruppo Eni), anche attraverso accordi con agricoltori che rischiavano -sempre secondo Slow Food Italia- di “indurli a optare per un cambiamento di destinazione colturale dei loro campi”. In ogni caso, Eni sta vendendo Versalis. La chimica verde è tutta qui.
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