Interni
Educazione su misura
In Italia esistono oltre 70 esperienze di educazione parentale o libertaria. Delusi dall’istruzione pubblica, i genitori decidono di formare i bambini in autonomia
A settembre, all’inizio del nuovo anno scolastico, alcuni bambini non rientreranno in classe. Martino, Tommaso, Bianca, Nicole, Federico e Greta, a Faenza (Ra), inizieranno il loro cammino educativo in un casolare in campagna. Anche Edoardo e Asia, a Padova, resteranno a casa, a studiare con mamma Sara.
A Caldirola (Alessandria) Raia imparerà le addizioni e le sottrazioni nella fattoria didattica di famiglia. E a Monte Sole (Bo), sui luoghi dell’eccidio nazi fascista Daniele, Ulisse, Margherita, Nora e Isacco avranno per classe una jurta, una di quelle tende rotonde che la regista Byambasuren Davaa racconta nel film “Il cane giallo della Mongolia”. A Cadriano, trenta bambini bolognesi, torneranno a far lezione in una “scuola” in bioedilizia, che è l’abitazione di alcuni di questi allievi che partecipano al progetto “I Saltafossi”.
Per tutti questi bambini, cioè, suonerà un’altra campanella: quella della scuola parentale o libertaria. Due modelli educativi diversi, che hanno in comune una certa “allergia” e sofferenza per la scuola pubblica. Molti genitori, infatti, hanno deciso di togliere i figli o di non iscriverli perché non condividono più nulla del progetto educativo della Statale, ma non vogliono nemmeno affidarli alle paritarie.
In Italia di homeschooling ne esistono, secondo la mappa tracciata dal sito www.controscuola.it almeno settanta. Ognuna con il suo metodo: ci sono genitori che decidono di fare tutto da soli, altri che si uniscono. Ci sono quelli che preferiscono seguire degli orari ed i testi scolastici di riferimento e chi lascia al bambino (unschooling) la scelta degli argomenti da approfondire, seguendolo nei percorsi in modo assolutamente naturale.
Caterina Bernardi, mamma 30enne, ideatrice della fattoria didattica “L’aurora”, l’anno prossimo non manderà Raia in prima: “Alla scuola materna c’erano condizioni pessime, e l’ultimo anno d’asilo se l’è fatto a casa. Mi sono resa conto che stava meglio. Farò io da maestra. Sono laureata in Scienze della formazione primaria, con indirizzo per la materna. Ho fatto didattica di tutte le materie. La mia idea è di comprare i libri adottati alla statale per sapere quello che fanno gli altri bambini, che restano i suoi amici, e per mantenere un minimo di rapporto con le maestre. Vedremo di applicare le materie partendo da ciò che interessa a Raia: la matematica anziché fatta sul foglio la faremo guardando l’ovile e scoprendo che due agnelli più due nuovi agnelli appena nati, fanno quattro. È una fortuna la fattoria: tenerla lontana otto ore al giorno da quella che era la nostra scelta di vita non mi piaceva. A scuola di tutto si parla ma non di ruralità, di autosufficienza. Incontrerò le insegnanti che avrebbe dovuto avere: vorrei evitare che in paese e nella valle si pensasse a una scelta estremista”.
Intanto Caterina com’è previsto dalla legge 297/1994 ha comunicato al dirigente con una raccomandata l’intenzione di adempiere all’obbligo dell’istruzione tramite la scuola famigliare: “Ho trovato un preside supplente che non conosceva la questione, ma non mi ha fatto problemi”. Determinata e decisa è anche Sara Keller, una imprenditrice di origini statunitensi che ha deciso -dopo aver provato la scuola pubblica di Padova- di istruire Edoardo, 9 anni, e Asia, 13 anni, a casa: “Due anni fa li ho tolti dalla scuola. I bambini sono madrelingua inglese ma ciò non era ben visto: gli insegnanti mi hanno sempre detto che avrei dovuto smettere di parlare la mia lingua con loro. La mia prima figlia era dislessica: dal momento in cui l’ho tolta dalla scuola, ho capito il perché. Le nostre scuole -anche a livello ludico e di strutture- sono carenti. Padova ha istituti che sono gabbie: pensare che erano in classe dalle 8 alle 16.45 senza un’aerea verde era assurdo. La nostra famiglia si muove molto, il papà lavora all’estero. I bambini viaggiano e parlano tre lingue, ma queste cose non rientrano nei parametri dell’istruzione a scuola. Se mia figlia ha imparato a parlare lo slovacco perché il papà ha aziende in quel Paese, a scuola comunque non ci sono insegnanti che possono accertare la sua formazione. Da quando sono a casa, parlando con me, i bambini hanno assunto la capacità tecnica, di pensare, leggere e scrivere in inglese. Asia fino alla terza media non ha mai letto e scritto in inglese, a parte l’abc che fanno a scuola. All’inizio ho preso un tutore per seguirla sul programma ministeriale, soprattutto in italiano. Matematica l’ho fatta io. Si vive la vita, in base alla stagione. In inverno c’è più tempo per la lettura. Lavoro su un curriculum definito da me stessa ma soprattutto vengono rispettati i loro tempi. Seguono un programma che non è sempre quello ministeriale e si svolge in italiano e in inglese. Non abbiamo un solo libro, né paura a dire ‘Questo testo non fa per noi, proviamone un altro’. Abbiamo modo di seguire gli interessi dei bambini, perché loro cambiano ogni sei mesi. Asia, ora segue un corso di matematica on line e a livello di programma ministeriale è alla pari, con un impegno minore, rispetto a quello che si dedica nei banchi”.
Qualche problema in più Sara ce l’ha sul tema dell’esame di fine anno. Secondo le circolari ministeriali 32 del 13 marzo 2009 e 4 del 2010 “coloro che assolvono all’obbligo con formazione familiare devono sottoporsi ogni anno ad esame di idoneità. Coloro che frequentano una scuola non statale e non paritaria hanno l’obbligo di sottoporsi all’esame di idoneità nel caso in cui intendano iscriversi a scuole statali o paritarie, nonché al termine della scuola primaria per il passaggio alla secondaria di primo grado”.
Sara non ne vuole sapere di far sostenere l’esame ai suoi figli ogni anno tanto che ha dato incarico a un avvocato di fiducia di fare chiarezza.
Qualche genitore ha persino timore della scelta che ha fatto e preferisce rilasciarmi un’intervista ma nell’anonimato. Mara (nome di fantasia) vive in provincia de L’Aquila e con una laurea in Lettere classiche e una famiglia di docenti che hanno lavorato nella scuola pubblica ha deciso che i suoi due figli non andranno alla Statale: “Io stessa ho insegnato e poi ho lasciato. Mio figlio ha sei anni, e da quando ne aveva tre è iscritto a una scuola di musica. Chiederò loro di fare dei programmi personalizzati, e se vorranno farà anche l’esame a fine anno. Mi farò aiutare nelle materie scientifiche da un amico laureato in matematica. L’esame lo deve fare, non mi crea problemi: penso che sia pronto per imparare a leggere e scrivere, non vedo perché non dovrebbe fare la prova finale. Dopo aver studiato Montessori e Piaget ho capito che il problema socializzazione non esiste. È una questione indotta dalla società, che vuole che i bambini si allontanino dal ceppo della famiglia perché devono diventare consumatori”. Le sue parole sono nette: “Il bambino ha bisogno di un punto di riferimento, non di socializzazione. Quel punto è la famiglia. Lo era anche la scuola, quando c’era la maestra unica, che sapeva catalizzare l’attenzione di tutti i bambini, conquistare fiducia, avere personalità ed era capace di dare ascolto. Adesso l’insegnante è un’entità astratta che non riesce a svolgere bene il proprio lavoro”.
Quando faccio notare a Simona che a fare la scelta della scuola parentale sono tutti genitori laureati, lei ammette: “Il figlio dell’operaio non potrà mai fare la scuola parentale. Purtroppo è così. Ma non posso farci nulla”. Lo sanno bene Monica e Alessandro di Merlino (Lo): il papà è rimasto disoccupato, e il progetto di costruire una scuola familiare con altri genitori è fallito. Mamma Monica è dovuta tornare a lavorare e per Mia, 8 anni, con grandi sacrifici e il sostegno dei nonni si è scelta una scuola steineriana.
A Rocca Malatina, sulle colline modenesi, un gruppo di genitori arrivati tra gli Appennini dalla pianura ha messo il “primo mattone” dando avvio alla scuola materna libertaria Kookaburra (www.kookaburra.it): “All’inizio -spiega Agnese- abbiamo creato un’associazione di donne, ‘Il Cacomela’. Al piano terra dei locali che la ospitano abbiamo uno spazio con i prodotti biologici, parliamo di bioedilizia, autoproduzione, di orti sinergici. L’associazione è diventata la base per questo progetto di scuola. Abbiamo iniziato a settembre 2011 con tre bambine, tutte in età da materna, dai 3 ai 4 anni e mezzo. Siamo in pochi ma convinti. Sono anni che ci documentiamo. Abbiamo intenzione di continuare. Avremmo solo bisogno di altre famiglie. Noi abbiamo il posto, e l’educatrice -che autofinanziamo- è bravissima, ma ci vorrebbero altri bambini. Non sarà facile trovarli”.
La scuola libertaria trova invece le sue fondamenta nella Comunità europea per l’educazione democratica (www.educazionelibertaria.org) che in tutta Europa viene praticata da quasi cent’anni, e segue due criteri principali. Il primo: i bambini devono aver la possibilità di gestire direttamente il loro apprendimento. Il secondo: i piccoli devono avere potere decisionale pari agli insegnanti nella gestione della scuola. In Italia vi sono tre esperienze ufficiali di questo tipo: la scuola etica Kiskanu a Verona (kiskanu.wordpress.com); il progetto Saltafossi dell’associazione Merzbau a Bologna (associazionemerzbau.wordpress.com) e TanaLiberaTutti a Parma. Qui non sono i genitori a fare da prof, ma educatori scelti dalle famiglie.
La “madrina” dei Saltafossi è Gabriella Prati. La incontro un sabato a San Lorenzo in Collina (Bo), dov’è in corso la “Settimana verde” promossa dalla scuola e dall’associazione culturale “Il Volo” partner dell’esperienza di educazione libertaria. Mentre Gabriella parla, intorno i bambini giocano sulle altalene. Sembra di riascoltare don Milani o Mario Lodi: “Ho lavorato 35 anni nella scuola pubblica, oggi sono in aspettativa e metto a disposizione la mia storia. Noi non siamo in opposizione alla Statale, non siamo un’isola contro. Questa è una sperimentazione, non stiamo scoprendo niente: la scuola italiana ha dato i natali alle più grandi pratiche libertarie. Oggi tutto quello che è stata la scuola degli anni di Mario Lodi è stato cancellato e dimenticato in una maniera così violenta e così grave che secondo me è necessario uscire dalle istituzioni per dare vita un nuovo modello, che non è calato dall’alto. Il nostro è un progetto aperto, dal punto di vista del reddito: abbiamo una retta ma non abbiamo dei limiti. Ogni genitore mette quello che può perché deve partire dal desiderio della famiglia di partecipare ad un progetto”. La retta per l’anno prossimo è di 350 euro al mese e gli insegnanti (quattro) percepiscono circa 800 euro per dieci mesi. A settembre partiranno con trenta bambini. Nei loro documenti parlano di slow school: non ci sono orari, i bambini lavorano insieme a qualsiasi età, senza classi. Parlano, discutono in cerchio. Fanno danza, lavorano con la creta, stanno molto all’aperto. Le difficoltà non mancano: qualche equivoco di troppo con i genitori; la necessità di un pulmino, oltre che di qualche finanziamento per istituire borse di studio perché il progetto Saltafossi “non è la scuola dei figli degli avvocati o dei liberi professionisti. Qui -precisa Gabriella- abbiamo anche i bambini dei precari che non riescono a pagare la retta”.
Chi sta provando a capire che tipo di scuola fare sono i genitori della “Scuolina del cuore” a Faenza, che incontro una domenica pomeriggio nella campagna vicino a Lugo (Ra). Due papà mi vengono incontro in abiti da lavoro. Hanno appena finito di sistemare il fienile della casa che ospiterà i loro figli messa a disposizione dalla famiglia di Arpad e Serena. Seduti per terra in cerchio, su un prato, discutono di come sarà la loro scuola: parlano dell’importanza dell’ascolto “che viene prima del metodo”, del mettere al centro il bambino, della scelta di essere in mezzo alla natura. Studiano. Si organizzano. È un’altra scuola che cresce. —