Ambiente / Reportage
Esplorando l’Ecuador, 170 anni dopo. Viaggio nel polmone del Pianeta
Nel 1848 l’esploratore italiano Gaetano Osculati descrisse l’habitat e le popolazioni lungo il Rio Napo, dopo una rivoluzionaria missione geografica. Siamo tornati sui suoi passi grazie a un progetto internazionale di tutela delle tradizioni locali
Partire per l’Ecuador con una guida di 170 anni fa potrebbe apparire imprudente. Ancor più, se l’obiettivo è aprirsi una via a colpi di machete nella foresta amazzonica e prendere contatto con le comunità indigene oggi minacciate dalle compagnie petrolifere. “Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Rio Napo ed il fiume delle Amazzoni”, scritto dal mio concittadino ed esploratore Gaetano Osculati da San Giorgio al Lambro (frazione del Comune di Biassono), è invece un testo rivoluzionario. Grazie a un progetto di collaborazione lanciato col patrocinio della Regione Lombardia, il destino dell’ultima fetta di foresta primaria nel piccolo Paese sudamericano potrà cambiare verso, così come quello dei popoli nativi. In occasione dei 210 anni dalla nascita dell’ardito brianzolo, l’Associazione Culturale “Gaetano Osculati” e il Museo civico “Carlo Verri” hanno infatti organizzato ad agosto una missione geografica spintasi ben lungi da una commemorazione storica del personaggio: la donazione del testo originale dell’esploratore al museo Macco di Puerto Francisco de Orellana, ultimo avamposto prima di entrare nel grande polmone verde del Pianeta, ha risvegliato una nuova consapevolezza nell’identità nazionale dell’Ecuador.
Poco noto in Italia e quasi sconosciuto nel Paese latino, Osculati riuscì a documentarne aspetti unici nel viaggio esplorativo compiuto fra il 1846 e il 1848, contribuendo alla prima descrizione scientifica dell’habitat e delle popolazioni presenti lungo il Rio Napo, un tempo il cuore più selvaggio dell’Amazzonia. “L’Ecuador di allora usciva in ginocchio da un lungo periodo di lotte indipendentiste -spiega Hector Gilberto Vargas, antropologo di stanza a Puerto Francisco de Orellana- e stava per trasformarsi in un mercato chiave della produzione di caucciù, con conseguenze devastanti per gli equilibri etnici dell’Amazzonia. Intere popolazioni indigene, fra cui la preponderante etnia Zapara, sarebbero state spazzate via a breve con il loro millenario sapere sulla vita della foresta, al punto da costringere l’Unesco a iscrivere nel 2008 i suoi ultimi rappresentanti nel Patrimonio Intangibile dell’Umanità”.
Oggi sopravvivono circa un centinaio di Zapara in Ecuador, ma gli anziani in grado di parlare fluentemente la lingua originale si contano sulle dita di una mano. Osculati, grazie all’aiuto dell’amico e medico ecuadoregno Manuel Villavicencio, compilò però uno dei primi vocabolari zapara, attraverso cui è stato possibile ricostruire la più completa versione odierna. Nel mostrare le tavole alfabetiche raccolte nell’appendice della sua opera a Daniel, responsabile delle trasmissioni in lingua zapara alla stazione radio di Shell, i suoi occhi si spalancano.
Nella remota cittadina da cui decollano gli aerei per le comunità native del Pastaza, provincia dov’è ancora possibile incontrare gli ultimi Zapara, è già un’impresa riuscire a tenere in vita la postazione voluta dell’ex presidente ecuadoregno Rafael Correa. “Abbiamo attivato Zapara 92,7 FM nel 2009/2010 – spiega – dopo esserci organizzati come entità nazionale, sotto il nome di NASE (Nación Sapara del Ecuador). Senza il supporto dei nostri anziani, però, è molto difficile acquisire la padronanza della lingua, così come trasmettere la cultura e la visione cosmica tradizionale. Ormai le nuove generazioni parlano quechua o spagnolo, non hanno memoria degli usi della nostra gente e preferiscono trasferirsi in città, piuttosto che vivere in località remote come Llanchamacocha”. Una tendenza confermata anche dalla dottoressa Klaudia Wolff, che opera nel presidio ospedaliero accanto alla stazione radio e cura saltuariamente pazienti Zapara, sullo slancio caritatevole -ma non disinteressato- del proselitismo cristiano. Per via dei pochi finanziamenti, la radio ha accumulato 12mila dollari di debito verso la compagnia elettrica nazionale e trasmette ora solo attraverso social network, nonostante la lingua Zapara sia considerata un unicum nel contesto amazzonico, perché depositaria di memorie che stanno riscrivendo la storia della civiltà sudamericana.
Non rassegnandosi alla scomparsa del proprio popolo, il capo comunità Manari Ushigua ha trasformato il villaggio di Llanchamacocha in una sorta di microcosmo Zapara, dove mantenere in vita almeno le tradizioni di cura medica attraverso le piante e le risorse della foresta. Quando non è impegnato a sostenere la causa Zapara all’estero, sfilando in corteo con Leonardo Di Caprio o parlando nei palazzi dell’Onu, tutto il suo tempo è dedicato a educare i membri della sua comunità e alcuni gruppi stranieri attraverso il programma rigenerativo Naku. Accedere ai remoti villaggi Zapara non è semplice, anche perché Manari vuole conoscere personalmente chi è interessato a visitarli e capire perché. A differenza di altre comunità indigene del Pastaza, che hanno finito per spettacolarizzare le proprie tradizioni in villaggi di “turismo comunitario” creati in cambio di terreni per lo sviluppo petrolifero, vuole preservare l’autenticità dei riti e delle credenze senza concessioni alle astuzie di mercato.
Quando atterra a Shell, coronato di conchiglie e piume d’araras, scalzo e col passo deciso del capo tribù, la sua diffidenza si palpa nell’aria umida di pioggia. Gira intorno, evita il contatto, nonostante sia stato avvertito dai suoi collaboratori della visita di un italiano. Avanza quindi a meno di un centimetro dal mio viso, fissandomi dritto negli occhi come se volesse smascherare un possibile tradimento. Ormai gli indigeni ecuadoregni non si fidano più neppure delle autorità governative. Quando gli mostro l’opera dell’Osculati, nella quale sono raccolti i disegni con cui l’esploratore raffigurò i suoi avi coperti di corteccia di gianciama, con mazze mackana e frecce al curaro, la sua espressione pare ammorbidirsi. Divora ogni dettaglio e cerca di scolpirlo nella mente, quasi lo vedesse per la prima volta. Giusto pochi secondi. Non appena s’imbatte nell’immagine di un prete che stringe nella sinistra il globo della terra e nella destra la croce, il suo commento è perentorio. Chiama a raccolta il seguito. “Mira!”, esclama grave, indicando le braccia sollevate dell’immagine. “Esto es la muerte y esto es el infierno”. Mi restituisce il libro, lasciando intendere che l’udienza è finita. Probabilmente ha scambiato Gaetano Osculati, botanico ed entomologo che sviluppò una rara ammirazione verso il suo popolo, per un tardo conquistador. Più avanti, però, sarà proprio lui a ricontattarmi a sorpresa, chiamandomi addirittura “hermano”, fratello. Le ricerche personali su Osculati gli hanno rivelato un uomo sorprendente, capace di descrivere aspetti del suo popolo di cui neppure lui o i suoi concittadini ispanici avevano più memoria, al punto da propormi la traduzione del testo in spagnolo e di accogliermi nella sua comunità.
Io sono già lontano, però. Rimappando l’itinerario dell’esploratore brianzolo, ho raggiunto più a Nord le rive del Rio Napo, nel tentativo di attraversare gli ultimi territori dove sopravvive l’habitat da lui conosciuto e descritto: la foresta primaria protetta da giganteschi alberi di Ceiba, popolata da infide anaconde, voraci piranha e nativi ancora incontattati. Questo era un tempo il mondo magico degli Zapara, i cui territori si estendevano su una vastissima area di 55mila chilometri quadrati fra il Rio Napo e il Rio Curaray, prima di essere sterminati dalla corsa al caucciù e costretti dal governo a trasferirsi in spazi già compromessi dalle esplorazioni petrolifere. Il loro crollo demografico ha favorito la penetrazione degli Waorani, etnia che Osculati conobbe sotto il nome Anckuteres e di cui temeva i feroci attacchi.
Oggi sono invece gli unici intermediari con cui prendere accordi per entrare nei territori indigeni del parco nazionale Yasunì, dove compagnie come Petroamazonas e Chevron hanno stimato la possibile estrazione di 1,63 miliardi di barili, riuscendo a violare di anno in anno i confini protetti. Gli Waorani, il cui primo contatto fuori dalla foresta è avvenuto solo nel 1958 attraverso una missione evangelica, seguono tuttora uno stile di vita in perfetta simbiosi con la foresta, indossando solo una striscia di corteccia di palma per sostenere il pene durante la corsa e decorandosi di tatuaggi realizzati principalmente con un pigmento nero detto wito.
Quando ricevono un estraneo nella base d’accoglienza di Bameno, accessibile solo in canoa e a cinque ore dall’ufficio di controllo del parco, si coprono con magliette e pantaloncini per evitargli imbarazzi. “Insieme a mio fratello Penti Baihua, coordinatore del movimento politico per l’indipendenza Ome Gompote Kiwigimoni Huaorani -spiega Martin, mentre annoda una liana alle caviglie per arrampicarsi in cerca di frutti- abbiamo da poco creato il sito Huaorani Intangible Zone per denunciare le false promesse del governo e permettere a visitatori esterni di vivere con la nostra comunità. Vogliamo siano rispettati almeno i 5.700 chilometri quadrati di zona intangibile riconosciutici col referendum nazionale del 2013 ed entro i quali sopravvive la foresta primaria. Le tribù vicine che rifiutano ogni mediazione con gli ispanici, i Tagaeri e i Taromenane, ci hanno però accusato di collaborazionismo e cinque anni fa siamo stati anche attaccati. Mio zio Gaba, il più anziano del villaggio, ha dovuto combattere contro di loro e anche contro le compagnie petrolifere, ma senza l’aiuto della comunità internazionale abbiamo poche speranze di conservare la nostra cultura”.
In loro soccorso è sceso in campo il giovane direttore del museo Macco di Puerto Francisco de Orellana, Álvaro Gundin, che in forza della sua educazione europea sta coraggiosamente portando avanti una vera e propria rivoluzione culturale. “Il museo è stato inaugurato nel 2013 per far conoscere il patrimonio archeologico e naturalistico dell’Amazzonia -osserva- ma in Ecuador si continua a studiare su testi che riconoscono nella colonizzazione spagnola l’inizio della storia nazionale. Abbiamo assolutamente bisogno di fonti e testimonianze che aiutino a comprendere come questi territori siano stati di fatto la vera culla della civiltà sudamericana, ma molte fonti sono andate distrutte o disperse. Dal 1977, gli scavi avviati sul Rio Napo stanno portando alla luce urne funerarie e corredi omaguas che dimostrano però l’altissimo livello di civilizzazione amazzonico. Il dono dell’opera di Gaetano Osculati, insieme a una targa celebrativa, rappresenta per noi uno straordinario evento di svolta: ora possiamo restituire ai popoli indigeni una memoria viva, autentica, grazie alla quale recuperare il loro passato e ricostruire la propria identità etnica, in modo che possano opporre i propri diritti ancestrali agli espropri delle compagnie petrolifere. Con l’aiuto dell’Italia, che già attraverso l’Università di Padova sta contribuendo alla geomappatura del territorio, intendiamo organizzare il prossimo gennaio una grande mostra su Gaetano Osculati, invitando le massime autorità del nostro governo: sarebbe il primo passo ufficiale per avviare la tutela dell’Amazzonia ecuadoregna dal punto di vista storico-culturale”.
La riscoperta dell’opera di Osculati ha acceso entusiasmi anche all’Università di Manta, antico centro cerimoniale indigeno sulla costa pacifica dell’Ecuador. Grazie alla collaborazione di Fabio Giovanni Locatelli, professore italiano di antropologia che insegna in loco, l’obiettivo è iniziare a studiare il suo resoconto dal punto di vista linguistico e ricostruire fedelmente le usanze documentate. In tal senso, sarà a breve istituita una specifica società culturale che faccia da ponte fra l’Italia e l’Ecuador. A distanza di 170 anni dall’impresa dell’esploratore brianzolo, potrà così trovare compimento il suo sogno: “Lasciar testimonianza sempiterna dell’amor mio patrio”. Patria che nelle sue parole non significava affatto esaltazione del nazionalismo o conquista di nuovi confini, ma sacrificio per la cura dei territori di cui siamo semplici ospiti passeggeri.
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