Esteri / Opinioni
Sull’economia Trump ha idee confuse. L’Ue saprà assumere una leadership?
Il programma elettorale del nuovo presidente Usa in materia monetaria e di spesa pubblica è molto incerto, e prevede un incremento dei costi ma non adeguate copertura. Il dollaro rischia di perdere il ruolo di “Paese rifugio”, e l’Euro potrebbe prendere il suo posto. L’analisi di Alessandro Volpi
Le conseguenze della netta vittoria di Trump sono inevitabilmente numerose e per molti versi imprevedibili. Le incertezze in merito derivano dal fatto che il nuovo presidente degli Stati Uniti non ha presentato un vero e proprio programma elettorale, soprattutto in materia economica. Dunque non è chiaro cosa farà rispetto alla politica monetaria della Federal Reserve, se conserverà o meno l’indipendenza della banca centrale, se farà pressioni sulla presidente Yellen perché rialzi i tassi o li tenga invariati o persino produca una riduzione ulteriore del costo del denaro, aumentando la massa di fuoco del “quantitative easing”.
Raramente il mondo si è trovato di fronte una situazione analoga dove un presidente ha ricevuto un mandato in bianco, costruito su un netto rifiuto del sistema in quanto tale, senza alcuna chiarezza sui propri impegni. Ancora più sorprendenti però sono i pochi elementi definiti del programma del candidato vittorioso. Per Trump bisogna abbattere drasticamente il debito pubblico degli Usa, ormai molto vicino al 100 per cento del Pil e allo stesso tempo occorre ridurre in maniera altrettanto significativa la pressione fiscale. Tutto questo senza contenere la spesa pubblica per investimenti ma procedendo anzi ad aumentarla, per avviare un massiccio piano di opere infrastrutturali.
È fin troppo semplice cogliere le molteplici contraddizioni di questa ricetta che mette insieme Reagan e i “neocon” con Keynes e persino con vari spunti di socialismo reale, coltivati da un conservatore molto tradizionalista che ha condotto però una vita da reality scandalistico. A complicare il quadro si aggiunge l’idea espressa a più riprese da Trump secondo cui la riforma sanitaria di Obama deve essere superata perché troppo costosa per gli americani e sostituita da una liberalizzazione delle polizze sostenuta però da un’ulteriore, marcata defiscalizzazione a vantaggio dei sottoscrittori delle polizze stesse, destinata a far lievitare i costi pubblici di questa voce con un significativo aggravio delle finanze federali.
Ma dove si trovano centinaia di miliardi di dollari per finanziare questo colossale fabbisogno di risorse pubbliche necessarie perché Trump rispetti simili impegni tanto fumosi?
È difficile immaginare di intensificare la già accennata politica monetaria espansiva che la Fed ha utilizzato a larghissime mani dal 2011: persino Trump non può pensare di stampare carta moneta ad libitum, anche perché il nuovo presidente si è erto a difensore del dollaro forte, pur valutando la moneta in termini pressoché esclusivi di “prestigio” nazionale.
Alla luce di tutto ciò gli Stati Uniti stanno rapidamente diventando una grande incognita per i mercati internazionali e stanno perdendo il ruolo di “Paese rifugio”, decisamente minacciato, oltre che dalle convulse strategie economiche, dalla macroscopica confusione nelle linee dalla politica estera trumpiana, infarcita di appelli isolazionistici, molto vicini all’egoismo “patriottico” combinato a un protezionismo da clausura che pare destinato a generare danni prima di tutto agli americani.
In altre parole, al di là delle reazioni immediate, è molto probabile che il dollaro e tutti i titoli denominati in dollari non siano più in grado, nell’era Trump, di attrarre capitali dal resto del mondo senza dover pagare interessi alti. Sembra esaurirsi quindi la fase del finanziamento del debito Usa a tassi negativi mentre si profila la necessità per le altre economie del pianeta di trovare lidi più sicuri rispetto a Trumplandia.
Quali possono essere queste “nuove” destinazioni? Appare evidente che il dollaro non può essere sostituito dalla yuan per l’ancora palese difficoltà della moneta cinese ad assumere un ruolo internazionale, e neppure da una moneta assai deflativa come lo yen.
Si apre così un’opportunità straordinaria per l’euro, la sola moneta credibile e affidabile di fronte al dollaro di Trump: ma il riconoscimento della credibilità della moneta significa anche la credibilità dei titoli di debito denominati in euro. Allora, davvero, diventa possibile allentare i vincoli del rigore coltivati nel Vecchio Continente, che erano nati per sostenere la credibilità e la tenuta della moneta unica in una fase in cui proprio molte delle monete europee presentavano i tratti delle “grandi malate”.
Se l’euro risulta, pur con le gravi tensioni interne, l’unica che possiede le dimensioni geografiche e il peso economico necessari per risultare credibile su scala mondiale, allora risultano assai meno utili, e ammissibili, i rigidi parametri della Commissione europea. La vittoria di Trump suscita dunque molteplici apprensioni, ma proprio questi timori consegnano all’Europa un ruolo di nuovo centrale e la responsabilità di comprendere il mutato spirito dei tempi per uscire dalla gabbia della crisi e per evitare derive pericolosamente antidemocratiche.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa