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Esteri

Diritti cuciti addosso

In Thailandia associazioni di migranti birmani in fuga dalla dittatura lavorano per il riconoscimento di un salario dignitoso

Tratto da Altreconomia 146 — Febbraio 2013

MAE SOT, THAILANDIA – Il fiume Moei nella luce del tramonto, a poche centinaia di metri dal Ponte dell’Amicizia che a Mae Sot unisce la Thailandia alla Birmania, è uno scorcio d’Asia di struggente bellezza. Le case, cresciute in poetico disordine a filo d’acqua sulla sponda birmana, sembrano rimandare a un altrove dello spirito. Ma la realtà deve essere ben diversa se ogni anno centinaia di birmani passano quel confine a guado o su imbarcazioni in spola incessante fra una riva e l’altra. Nessun immigrato descriverà mai il fiume come un ostacolo, la traversata dura pochi minuti e procede senza impedimenti. Il pericolo è ciò che si è lasciato alle spalle, e il peggio deve ancora venire. “Ho camminato per un giorno e una notte intera, seguendo la guida e badando a dove mettevo i piedi sul terreno minato -racconta Ying Horm, di etnia shan, oggi conduttrice radiofonica per la comunità birmana a Chiang Mai-. Rimanere al villaggio non era possibile: hanno aperto due voragini per estrarre pietre preziose, scavano per un gasdotto e da anni ci tagliano le foreste”.

 

Ying Horm è una dei 3 milioni di birmani che dal 1988, anno delle sollevazioni popolari soffocate nel sangue dal regime militare, hanno varcato i confini in cerca di protezione dal lavoro forzato, dai conflitti armati, e dalla devastazione delle loro terre, per finire dalla padella nella brace dei voraci vicini, Thailandia e Cina in testa, affamati di manodopera a basso costo, ancor minore della propria. A Ruili, città cinese di confine cresciuta a dismisura sul commercio di gemme e legname birmano, 100mila sfollati sono impegnati nella lavorazione dei preziosi, della pietra arenaria e del legno fossile, materie prime estratte in Birmania contro la volontà delle popolazioni locali.
In  Thailandia, Paese che ospita un milione e mezzo di birmani, i lavoratori migranti sono occupati senza diritti prevalentemente nell’edilizia (donne comprese), nei lavori agricoli e domestici, nella lavorazione del pesce, nei ristoranti, e nella prostituzione (40mila donne con punte nelle città di frontiera). Ma è il settore delle confezioni di abbigliamento per l’esportazione ad avere tratto il massimo vantaggio da una manodopera numerosa e derelitta. A Mae Sot, lungo un confine punteggiato da campi profughi che ospitano 170mila rifugiati, è sorto un polo industriale tessile, favorito nei primi anni Novanta da incentivi alle imprese, che occupa in 300 fabbriche e 200 laboratori fino a 300mila immigrati birmani irregolari, in stragrande maggioranza donne, su un milione di addetti che il settore conta nel Paese.
I racconti dei migranti birmani che abbiamo incontrato a Chiang Mai e a Mae Sot  dipingono un quadro di sofferenze e di speranze infrante. “Abbiamo vissuto a lungo nella foresta, al confine, senza cibo -racconta Sai Sark, assistente alle cause legali della Migrant assistance programme (Map) Foundation di Chiang Mai-: pensavamo solo a fuggire, non sapevamo che servissero i documenti per spostarsi in un altro Paese”.

 

Trovare un lavoro, anche da irregolari, non è difficile; tenere saldo il timone della propria vita in un mare fatto di debiti crescenti che il salario non ripaga, di minacce ed estorsioni, è un’esigenza, e si impara strada facendo: “Quando si esce dalla fabbrica per fare la spesa -racconta una delle operaie tessili incontrate al Centro di aggregazione di Map a Mae Sot, nel loro unico giorno libero del mese- bisogna sempre avere con sé almeno 230 baht, 30 per il biglietto dell’autobus e le spese, 100 per pagare il poliziotto che forse ti fermerà al mercato e 100 per pagare quello che troverai al ritorno. Non conviene reagire, perché se ti mettono in stato di fermo, anche se hai i documenti ma li ha trattenuti il padrone, alla fine ne pagherai 3mila”.
Non è strano che il giorno libero coincida sempre con quello di paga. Sì, ma quale paga? Il salario e le ore che ci vogliono per racimolarlo sono in testa alle preoccupazione dei lavoratori. A Mae Sot il salario minimo è di 226 baht al giorno (5 euro e mezzo), e per quanto il governo abbia annunciato un innalzamento per tutto il Paese a 300 baht (ancora ben lungi da un livello dignitoso) nessun datore di lavoro corrisponde il minimo. I lavoratori che abbiamo intervistato parlano di retribuzioni pari a 50-120 baht e straordinari obbligatori, a un terzo della tariffa dovuta, con turni di 13-16 ore, e sempre corrisposti con 15-20 giorni di ritardo. Se a ciò si aggiunge che ai migranti è vietato costituire sindacati, conseguire una licenza di guida e, in alcune province, formare assembramenti pacifici o possedere un cellulare, ce n’è quanto basta per disperarsi.

 

La comunità birmana ha saputo resistere tessendo una formidabile rete di mutua assistenza, grazie al lavoro di organizzazioni dal basso come Map, Yaung Chi Oo Workers’ Association (Ycowa) e Burmese Women’s Union (Bwu), che provvedono incessantemente all’assistenza legale, sanitaria e formativa.
Il fiore all’occhiello è la radio comunitaria che dal 2009 trasmette su due frequenze nelle lingue più parlate dai migranti birmani, con programmi a microfono aperto, diffondendo informazioni utili per migliorare la loro vita. “Quando scatta una ‘sanatoria’ -racconta Naw Kham, responsabile delle frequenze di Mae Sot- l’annuncio viene dato attraverso i canali radiotelevisivi nazionali, ma molti nostri connazionali non conoscono il thailandese. Il compito della radio è informarli nella loro lingua e in modo preciso, e non solo attraverso l’etere, ma con opuscoli multilingue distribuiti fra le comunità con l’aiuto di volontari”. Ogni mese la radio promuove incontri di discussione fuori dai luoghi di lavoro, nelle aree industriali, agricole o nei cantieri, per sondare il gradimento dei programmi e raccogliere suggerimenti o richieste. “Per lavorare in questa radio, occorre sapere molte cose -osserva la giovane dj War War Naing- e non solo in tema di lavoro e di salute, ma anche sui cantanti e le canzoni più in voga in Birmania”.
Si crea consapevolezza anche attraverso la lettura, è ciò che fanno le veterane del Bwu, organizzazione nata dalle donne fuoriuscite nel 1988 e impegnate in un processo lento ma implacabile di emancipazione femminile in città e nei campi profughi sul confine. Ci accolgono con aria dimessa: “Quest’anno abbiamo dovuto chiudere il centro di accoglienza per mancanza di fondi -dicono Naw Mu Naw e Zar Zar-: abbiamo ospitato fino a cento donne alla volta, maltrattate, disoccupate o in attesa di partorire; offrivamo corsi di cucito, ma anche luoghi di sosta per le operaie esauste dai lunghi turni di lavoro”. Continuano a organizzare la biblioteca mobile, con 14 punti di prestito itineranti gestiti da volontari in motorino fuori dalle fabbriche o nei luoghi di aggregazione.
Le medicine e le iniezioni che praticavano al centro ora le portano a domicilio, per il resto c’è il Centro medico della dottoressa Cynthia Maung, celebre medico scalzo e lei stessa rifugiata politica di etnia karen, che dal 1989 cura ogni anno gratuitamente 140mila persone escluse dall’assistenza sanitaria, con l’aiuto di 700 persone fra medici, infermieri e volontari.

 

L’impegno ultradecennale di Map e Ycowa -profuso nel sostegno legale e organizzativo dei lavoratori di Mae Sot- ha portato nel 2012 a un esito quasi insperato: la M-Apparel è la prima fabbrica della città ad avere riconosciuto il salario minimo ai migranti. “Il nostro lavoro non è facile -dice Jackie Pollock, direttrice di Map-: in Birmania formare sindacati era vietato dal 1964 e il lavoro forzato sistematico; i rifugiati arrivano con nessuna esperienza sindacale e con la convinzione che esporsi per i propri diritti avrà conseguenze gravissime”. Negli ultimi anni, tuttavia, le proteste dei lavoratori e le vertenze, specie per salari non pagati e licenziamenti, sono aumentate in modo considerevole: dal 2001 al 2012 Ycowa e Map hanno assistito 2.083 lavoratori in 157 casi legali riuscendo a ottenere indennizzi per decine di milioni di baht.
Nong Nong, uno dei giovani animatori degli scioperi alla M-Apparel, si presenta all’appuntamento con una cartella di documenti sotto il braccio e le etichette di marche statunitensi specializzate in abbigliamento scolastico e per bambini: “La prima cosa che abbiamo fatto -racconta- è stata sospendere gli straordinari. Avevamo dalla nostra parte 300 lavoratori su 500; poi siamo scesi in sciopero e, con l’aiuto di Ycowa, abbiamo presentato una raccolta firme all’Ufficio per la protezione del lavoro per aprire una vertenza, che si è conclusa a giugno 2012 e ha sancito l’obbligo per l’azienda di corrispondere il salario minimo”. M-Apparel ha risposto, però, anche con ritorsioni: “Abbiamo perso la razione di riso e l’alloggio in fabbrica, i carichi di lavoro sono aumentati, e di 300 che eravamo siamo rimasti in 80. I nuovi assunti e chi non ha firmato all’ufficio del lavoro continuano a percepire salari arbitrari”. C’è anche chi è stato licenziato, come Zin Mar, una ragazza giovanissima e di grande coraggio: “Mi sono unita alle proteste che ero in prova da un mese, al termine del terzo ho perso il lavoro; ho cercato altrove, ma una mia foto segnaletica è arrivata a tutti gli imprenditori della zona. Oggi vivo al centro di accoglienza di Ycowa”. Zin Mar ha le idee molto chiare: “Sono venuta in Thailandia per trovare un lavoro dignitoso, non per mendicare il mio salario”. E come lei, Khine Linn: “Presto avrò i documenti e andrò a Bangkok: se riesco voglio impegnarmi nel sindacato, la nostra lotta non sarà stata inutile”.—

Chance, "No Chains"
In Thailandia ci si imbatte in soluzioni molto radicali, nate dalla creatività e dalla capacità di resistenza operaia. Dignity Returns e Try Arm sono cooperative di ex lavoratrici di fornitori di Nike e Triumph. Producono a Bangkok t-shirt, borse, biancheria e costumi da bagno. Insieme all’organizzazione argentina La Alameda, che ha strappato dalla tratta numerose migranti boliviane, in parte ricollocate in cooperative di produzione di abbigliamento, hanno dato vita al consorzio e “marchio militante” internazionale No Chains (www.nochains.org).

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