Opinioni
Di Orwell, delle parole, della generosità eretica
Nel Paese delle "larghe intese", nel Paese in cui un onorevole parla di "giuste manganellate" (contro i manifestanti) e del razzismo istituzionalizzato e normalizzato, c’è ancora chi crede che l’informazione indipendente sia un bene da tutelare.
Sono passati giusto 65 anni da quando, quarantacinquenne e molto malato, Orwell concluse la seconda (e ultima) stesura del suo capolavoro, "1984". Di quell’eccezionale profezia è utile non trascurare l’appendice, quella in cui si definisce la “Neolingua” ufficiale di Oceania, per “venire incontro alle necessità ideologiche” dello Stato del Grande Fratello.
“Il fine della Neolingua -scrive Orwell- non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci, ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata (…) un pensiero eretico sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso. (…) La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità di pensiero; (…) tutte le ambiguità e le sfumature di significato erano state completamente eliminate. (…) La speciale funzione di talune parole in Neolingua (…) non consisteva tanto nell’esprimere significati, quanto nel distruggerli”.
Dovremmo badare di più alle parole. Siamo talmente “dentro” al sistema, che stiamo perdendo le espressioni per raccontare l’alternativa.
Non a caso, questa è l’epoca delle “larghe intese”. L’epoca in cui una condanna a 7 anni per prostituzione minorile e concussione non ha conseguenze politiche. L’epoca in cui chi si professa “credente” sostiene che la pace si “arma”. L’epoca in cui i lavori del Parlamento si fermano per protestare contro la magistratura. L’epoca in cui un “onorevole” parla di “giuste manganellate”, e un altro offende un ministro della Repubblica, normalizzando e istituzionalizzando il razzismo. L’epoca delle deportazioni “a mia insaputa”. L’epoca del “non ci sono alternative”.
In quest’epoca scellerata, continuiamo ancora a voler distinguerci, e a preferire il pluralismo. Non siamo soli.
In un appello di fine giugno, abbiamo chiesto ai nostri lettori, soci, simpatizzanti e amici di sostenere il nostro lavoro, minacciato da quella crisi di cui tanto abbiamo scritto in queste pagine. In pochi giorni c’è stata una vera e propria mobilitazione. Mi riferisco ai comitati per l’acqua, al Forum “Salviamo il paesaggio”, a tutti gli amministratori locali di “Avviso pubblico”; penso a Radio Popolare; ricordo la signora che si è presentata in redazione senza averci mai conosciuto; ho in mente i tanti amici che da sempre ci sostengono, al nostro fianco nelle fiere e negli eventi cui partecipiamo. A loro aggiungo tutti i nostri collaboratori, ottimi professionisti che oltre al lavoro che compiono con passione, ci hanno dimostrato un attaccamento fuori dal comune. Penso alle botteghe del commercio equo, ai “nostri” punti vendita. Rivedo il modulo di quel ragazzo di 15 anni che ha chiesto di poter diventare socio. Rileggo le mail dei “resistenti” dell’Aquila. E ovviamente penso ai nostri lettori: quelli che lo sono da anni, quelli che hanno rinnovato ben prima che scadesse il loro abbonamento.
A chi non era nostro lettore, quindi, un caloroso benvenuto. Agli altri, ben ritrovati. A tutti, il nostro ringraziamento. Abbiamo ricevuto tanti messaggi, abbiamo provato a rispondere a tutti. Chiedo scusa se non siamo stati all’altezza di tanto affetto e generosità.
Ecco, un’altra eresia: mettere la generosità tra gli elementi di un sistema sociale ed economico.
La generosità -col dono, la fiducia, la giustizia, l’equità-, è uno dei cardini di dell’altra economia. Laddove però, sovvertendo l’etimologia, si è nobili perché generosi, e non viceversa.
La nostra tuttavia è un’iniziativa volta non solo a sostenere economicamente questa cooperativa (che ne ha -beninteso- sempre bisogno). Vuole anche ribadire che l’informazione indipendente è un bene tutelato dal lavoro di chi se ne assume la responsabilità e dal controllo di chi ne usufruisce, a vantaggio della democrazia. E non può essere affidato semplicemente al mercato. Perché sappiamo quali sono le conseguenze.
Come direbbe George Orwell, “il giornalismo è scrivere qualcosa che qualcun altro non vorrebbe fosse scritto. Il resto sono pubbliche relazioni”.