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Depressione, tra sensibilità e marketing

"Le diagnosi sono assolutamente sovrastimate. E i nuovi manuali diagnostici individuano molti falsi positivi. Non bisogna necessariamente avallare la consequenzialità depressione uguale antidepressivo". È in arrivo un nuovo farmaco, la Vortioxetina, promosso da una diffusa campagna stampa. Intervista allo psichiatra Piero Cipriano, autore de il manicomio chimico

“Quando è in uscita un nuovo antidepressivo, quasi certamente non dissimile dagli altri, parte la promozione, la campagna acquisti, la commercializzazione. Innanzitutto della stessa malattia depressione, conditio sine qua non per poter prescrivere, a pioggia, la molecola anti-depressione”. Piero Cipriano è uno psichiatra e psicoterapeuta oggi al lavoro al “San Filippo Neri” di Roma, uno degli oltre 320 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) d’Italia. Alla “società dei depressi” -per l’Organizzazione mondiale della sanità si tratterebbe di 350 milioni di persone nel mondo- ha dedicato diversi saggi, l’ultimo dei quali è “il manicomio chimico”, pubblicato nel 2015 per le edizioni elèuthera. L’etichetta che lo accompagna è quella di “psichiatra riluttante”.
 
Mentre è al lavoro sul terzo volume, “La società dei devianti”, assiste al ritorno mediatico della depressione e -attraverso articoli o interviste su importanti periodici nazionali- di quegli strumenti presentati come univoca soluzione. La “Vortioxetina” è il più recente.
 
Dottor Cipriano, dall’ultimo Rapporto “L’uso dei Farmaci in Italia” dell’AIFA, emerge che “In Italia il 39,9% dei pazienti è risultato aderente ai trattamenti antidepressivi nel 2015, in crescita rispetto all’anno precedente”. Come leggere questa dinamica?


Ci sono due modi per leggerla. Chi pensa che, per ogni condizione definita depressione, sia necessario assumere farmaci antidepressivi, non può che compiacersi del miglioramento dell’aderenza alla terapia (o compliance, come suol dirsi). Per chi, al contrario, ritiene che le diagnosi di depressione siano assolutamente sovrastimate non è una buona notizia: molto spesso, grazie ai nuovi manuali diagnostici (DSM-5) vi sono moltissimi falsi positivi (si veda per esempio il caso del lutto, che dal DSM-5, del 2013, dura solo due settimane, dopodiché il permanere della tristezza può essere diagnosticato come depressione), e comunque non necessariamente bisogna avallare la consequenzialità depressione uguale antidepressivo.
 
Nei suoi libri e contributi fa riferimento in maniera ricorrente alla “commercializzazione della malattia depressione”, come fosse una conditio qua non per prescrivere nuove molecole (presentate invece come un “aiuto” irrinunciabile). Che cosa intende?


Sin da quando entrarono in scena i nuovi antidepressivi serotoninergici, i SSRI (Prozac e simili), negli anni 90, c’è stata una straordinaria campagna acquisti per venderli. Ma per poterli vendere, e prescrivere, era necessario innanzitutto sensibilizzare la popolazione su cos’è la depressione, e quanto grave è non curarsi. 
Il National Institute of Mental Health attuò negli anni 90 la campagna di sensibilizzazione, detta DART (Depression Awareness Recognition and Treatment), per informare che la depressione è una cosa seria, che non si scherza con la depressione, che ci si suicida con la depressione, per cui bisogna curarla, curarla coi farmaci. Otto milioni di opuscoli diffusero, cui contribuì, ovviamente, la casa farmaceutica del Prozac. Quello fu il primo esempio di come si commercializza la depressione, altro che sensibilizzazione, una vera e propria campagna acquisti per far entrare quanta più gente possibile nella farmacia psichiatrica. E l’anno dopo la sua uscita il Prozac, grazie a questa campagna, fece il botto. 
Altro esempio: come, negli anni 2000, viene commercializzata la depressione in Giappone. Qui non esisteva nemmeno la parola depressione, per i giapponesi essere melanconico equivaleva a essere una persona seria e responsabile, e pure il tema del suicidio, per loro, non era equivalente di sintomo depressivo (vedi la tradizione di suicidio assistito del seppuku, che non era non certo appannaggio di persona depresse ma di persone d’onore). Ebbene, tale fu la campagna acquisti nel Sol Levante che nel giro di pochi anni riuscirono a trasformare una cultura, ed esportare il modello statunitense ed europeo di depressione.
 
Com’è cambiata, se è cambiata, quella che lei definisce la “narrazione della tristezza o stanchezza”? In che misura hanno pesato i DSM intervenuti nel tempo?


Dedico un intero capitolo, nel mio prossimo libro (La società dei devianti), a questo tema, cioè di come una tradizione di 2.500 anni riguardo la melanconia sia stata cancellata e riscritta dal manuale americano, precisamente a partire dal DSM-III dell’80. Da Ippocrate in poi c’è sempre stata una doppia visione della tristezza, una rara tristezza sine causa, che è patologica e va curata, e una diffusa tristezza cum causa, che è reattiva ai fatti della vita, e che non necessariamente va curata, nel senso che può risolversi da sé (perdo il lavoro e sono triste, ritrovo il lavoro e non sono più triste, muore una persona cara e sono triste, tempo del lutto, mettiamo quattro mesi, dopo non sono più triste). Il DSM-III cancella questa narrazione, e impone la sua, semplice, burocratica, banale: è depressione se per almeno due settimane sono presenti almeno cinque sintomi su nove (tra cui umore depresso, stanchezza ecc.). Questa riscrittura ha avuto l’effetto di moltiplicare il numero di depressi (e dunque ecco che la depressione diventa la patologia psichica più diffusa al mondo) e soprattutto di incentivare straordinariamente le vendite di antidepressivi (aumento del 400% negli Usa negli ultimi 20 anni).
 
Da dati AIFA, tra i primi trenta “principi attivi per consumo in regime di assistenza convenzionata” in Italia nel 2015 c’è la Paroxetina. Di che cosa si tratta e qual è la sua esperienza a proposito?


È tra i SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) più prescritti. Non molto diverso dagli altri SSRI. Un buon farmaco, per mia esperienza, ma deve essere saputo dare. Solo nei casi di depressione grave, e non a vita come si è soliti fare, e provando a ridurre il dosaggio appena i sintomi depressivi sono scomparsi e poi provare a eliminarlo. Non lo darei a pioggia e per qualunque acciacco esistenziale come, per pigrizia o sciatteria, molti medici -psichiatri e non- fanno, prescrivendo questo farmaco per ansia anche lieve, piccole fobie eccetera, e poi dimenticano di toglierlo.
Perché non darlo per sempre? Ma perché dopo un po’ di anni si crea un nuovo equilibrio neurotrasmettitoriale nel cervello che si nutre dell’antidepressivo e: 1. non è più possibile toglierlo, 2. dopo un po’ si riduce e/o cessa l’effetto (sulla falsariga della resistenza agli antibiotici) e bisogna aggiungere altri farmaci.
 
La Società Italiana di Psichiatria (SIP) ha annunciato per il 2016 “un’indagine conoscitiva sulla depressione per raccogliere dati a livello epidemiologico” ed “elaborare delle raccomandazioni su come individuarla per tempo”. Che cosa ne pensa e quale “raccomandazione” ritiene veramente necessaria a tal proposito? 
 
Spero non si tratti dell’ennesimo espediente per individuare casi sempre più sfumati, subsindromici o sottosoglia, come suol dirsi, e con la scusa di fare prevenzione, iniziare terapie farmacologiche là dove non c’è bisogno.
 
Sempre la SIP, ospitata da un importante settimanale nazionale, avrebbe guardato con favore l’arrivo in Italia di “un antidepressivo multimodale approvato a livello europeo” chiamato “vortioxetina”. Qual è il suo punto di vista a riguardo? 
 
La Vortioxetina è considerato un antidepressivo definito multimodale, appunto, ma mi chiedo cosa vuol dire, sembra agisca determinando una potente inibizione del reuptake della serotonina, ma aumenterebbe pure la trasmissione della noradrenalina, dopamina e del glutammato. E ciò avrebbe buoni effetti dal punto di vista cognitivo. Questo dicono gli studi a poche settimane. Ma gli studi vanno fatti a 15 anni, non a poche settimane. E comunque, sono almeno vent’anni che ogni volta che esce un ennesimo farmaco, sia tra gli antipsicotici (si cominciò col risperidone, poi olanzapina, poi quetiapina, e così via) sia tra gli antidepressivi, si grida al miracolo, all’antidoto definitivo per la psicosi o per la depressione, in realtà si rivelano farmaci molto simili tra loro (meet to drug, vengono definiti).
 
Che cosa fare per arginare l’indotta diffusione di questa “patologia rara”?
 
I tecnici, medici, psicologi, dovrebbero essere almeno un po’ più critici, lasciarsi meno suggestionare dalla facilità di diagnosi che i manuali suggeriscono, e fare epoché (sospendere il giudizio diagnostico), e attenuare dunque sia il proprio furore nosografico, ma provare a fare anche un po’ di epoché terapeutica, che non fa male. Meno farmaci insomma, e pure meno psicoterapia, talvolta, perché sia farmaci sia parole possono essere cura o veleno, dipende dal modo, dai tempi, e dai dosaggi.
 
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