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Dentro l’omeopatia

Nove milioni di italiani usano farmaci “alternativi”: un mercato da 300 milioni di euro dominato da un paio di aziende e da confusione normativa Alessia, 5 anni, è una “silicea”, quando ha la febbre con mal di testa e raffreddore…

Tratto da Altreconomia 113 — Febbraio 2010

Nove milioni di italiani usano farmaci “alternativi”: un mercato da 300 milioni di euro dominato da un paio di aziende e da confusione normativa

Alessia, 5 anni, è una “silicea”, quando ha la febbre con mal di testa e raffreddore per lei va bene “aconitum 15 CH”. Anna, 2 anni, è una “calcium sulphuricum” e la volta che una febbre improvvisa e rapida le ha provocato le convulsioni ha dovuto assumere “belladonna 15 CH” e niente tachipirina. Non è il linguaggio in codice di marziani, è il linguaggio dell’omeopatia, una delle 9 medicine non convenzionali più conosciute e praticate al mondo che, in Italia, è scelta da 9 milioni di persone e muove un mercato da 300 milioni di euro. L’omeopatia è un metodo clinico e terapeutico basato sulla “Legge dei Simili”, secondo la quale è possibile curare un malato somministrandogli una sostanza che, in un uomo sano, riproduce tutti i sintomi della sua malattia. La Farmacologia omeopatica classica (materia medica) è costituita da una serie di “rimedi” tratti dal mondo vegetale, animale e minerale, che sono stati singolarmente testati a dosi infinitesimali sull’uomo sano, per evidenziarne i sintomi provocati. Nella pratica clinica omeopatica classica ogni paziente è unico e ogni malattia ha un legame univoco con il suo portatore, quindi come tale va curata. Per formulare la diagnosi il medico deve conoscere tutto -corporatura, peso, carattere, fattori ambientali, alimentazione, relazioni interpersonali, storia del paziente- fattori che non possono prescindere dalla diagnosi e aiutano a somministrare il rimedio più affine ai sintomi con i quali il malato esprime la sua malattia. La terapia è personalizzata, basata sul rimedio “unico” (uno per volta) e non prevede mai l’associazione di più rimedi contemporaneamente. Questa viene chiamata “omeopatia classica unicista”. Vecchia ormai di 200 anni, l’omeopatia è una scienza ad altissima definizione ed è una pratica riservata in modo indiscutibile alla professione medica. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nel 2007. “Purtroppo in Italia l’omeopatia è ancora disorganizzata e il concetto di terapia omeopatica confuso -dice il dottor Alberto Magnetti, professore a contratto presso l’Università di Medicina e Chirurgia di Torino e direttore dell’Istituto Omiopatico Italiano-. La legge non è assolutamente chiara in materia per cui, pur essendo riconosciuta come ‘atto medico’, l’omeopatia non è prevista dal Servizio sanitario nazionale, fatta eccezione solo per i piani sanitari di alcune regioni italiane come il Piemonte, l’Emilia Romagna, la Toscana e la Provincia Autonoma di Bolzano”.
Questo ha due importanti conseguenze: da una parte chi acquista rimedi omeopatici deve pagarli di tasca propria (un tubo di rimedio unico in granuli acquistabile in farmacia costa circa 6 euro); dall’altra parte la strada all’ingresso dell’insegnamento dell’omeopatia nelle università è sbarrato. Non ci sono percorsi formativi uniformati: dunque la preparazione del medico omeopatico è variabile e a discrezione delle diverse scuole. Per garantire la qualità dei medici che esercitano come omeopati la Federazione italiana delle associazioni dei medici omeopatici (www.fiamo.it), ha riunito in un Dipartimento di formazione tutte le più serie scuole italiane di omeopatia che non hanno legami con case farmaceutiche e che svolgono un programma condiviso dall’European Committee for Homeopathy (www.homeopathyeurope.org). “Se non possiamo contare sul riconoscimento governativo -dice ancora Magnetti- non è perché l’efficacia dell’omeopatia non è dimostrabile, argomento che meriterebbe un capitolo a parte (vedi pagina 29, ndr), ma deriva da un ritardo dell’Italia, che ancora non si è adeguata alla normativa Ue che conferisce al prodotto omeopatico lo status di “farmaco” a tutti gli effetti. Legge che in Italia viene disattesa (vedi box in basso). Problemi legislativi a parte, lo stato di salute del mercato italiano dell’omeopatia non è poi così male. Gli ultimi dati disponibili in materia di Medicine non convenzionali (Mnc) rilevati dal Censis dicono che negli ultimi vent’anni si è assistito ad un costante aumento d’interesse da parte della popolazione verso le cure alternative. Dati alla mano, il 23,4% dei cittadini italiani, pari a 13 milioni di individui, oggi utilizza abitualmente le MnC. Di questi, circa 9 milioni ricorrono all’omeopatia. In vent’anni, l’incremento dei pazienti omeopatici è stato del 65%. Scendendo ancora più nel dettaglio, l’aumento del ricorso all’omeopatia è stato del 5% nel 2008 e del 5,3% nel 2009, con un picco al Nord, in particolare delle donne e più in generale da parte dei ceti con alta scolarità. Accanto ai pazienti ci sono 20mila medici che prescrivono rimedi omeopatici (e per questo si fanno pagare anche 150 euro a visita) e circa 7mila farmacie dotate di un settore dedicato. A livello europeo, il mercato italiano dell’omeopatia rappresenta il terzo mercato dopo Francia e Germania, con un fatturato che si aggira intorno ai 300 milioni di euro (l’1% del mercato farmaceutico), più di 1.200 dipendenti impiegati nel settore e un contributo di circa 50 milioni di euro che le aziende italiane del settore versano allo Stato annualmente sotto forma di contributi ed imposte. Delle 18 aziende aderenti a Omeoimprese, Guna Spa e Boiron Italia detengono oltre il 50% del mercato omeopatico italiano.
Guna è la più importante azienda italiana del settore, con una quota di mercato del 25%, oltre 200 dipendenti, 40 consulenti, un fatturato di oltre 50 milioni di euro e una crescita annua media superiore al 10%. Proprietario di questo colosso farmaceutico è Alessandro Pizzoccaro che, dopo la laurea in economia e commercio e una breve ma intensa esperienza nel settore dell’import-export nei Paesi arabi, venticinque anni fa fondò Guna, insieme alla moglie Adriana Carluccio, allora ricercatrice in Farmitalia. Tre anni fa la crescita degli affari ha imposto spazi più ampi e Guna ha acquistato il vecchio stabilimento Ciba in Milano (ex “NeoCibalgina”), in Via Palmanova 69 (foto in alto). Gli oltre 6.000 metri quadri sono stati trasformati dall’architetto Ivo Pellegri, con un restyling che gli è valso il premio per la migliore facciata industriale europea. Laboratoires Boiron è un’azienda farmaceutica familiare indipendente, di proprietà della famiglia Boiron e presente in oltre 50 Paesi, con 3.800 dipendenti. Di questi, 250 lavorano nella filiale italiana, prima propaggine estera del gruppo, aperta a Milano nel 1979 e ora presente sul territorio nazionale con tre sedi, a Milano, Roma e Bologna. Christian Boiron è Presidente del consiglio di amministrazione del gruppo e Presidente dei Laboratoires Boiron Italia. Il fratello, Thierry, è direttore generale di Laboratoires Boiron in Francia e la sorella Michèle è membro del consiglio di amministrazione del gruppo. Figliol prodigo di Jean Boiron, che con il fratello gemello Henri fondò i Laboratoires Boiron nel 1967 a Lione, Christian è un ex ragazzo ribelle, poi laureatosi in farmacia e gestione aziendale. Nel ‘76 diventa Direttore generale dell’azienda, nell’83 Presidente. Dal 1989 al 1992 è anche stato vicesindaco di Lione (durante il mandato del sindaco Michel Noir), con delega allo Sviluppo economico ed internazionale e attualmente è membro del consiglio d’amministrazione della facoltà di Medicina di Lione e docente del dipartimento di Scienze umane e sociali. Si dividono il resto del mercato le altre 16 associate a Omeoimprese, tra cui nomi noti come Weleda Italia (Milano) e Cemon (Napoli), importatrice del marchio tedesco di rimedi unitari Unda e, come spiega Fulvio Toso, responsabile Area didattica del gruppo, “caso isolato di impresa profit del settore nata, più che dalla spinta imprenditoriale, dall’esigenza di un gruppo di medici omeopatici di reperire i rimedi per i pazienti, in tempi in cui l’omeopatia era ancora poco diffusa in Italia”. Il grosso del fatturato delle imprese deriva da prodotti che appartengono alla sfera dell’omeopatia pluralista (Boiron), dell’omeopatia complessista e dell’omotossicologia (Guna). Su questo tema si apre un altra questione legislative spinosa, che riguarda le definizioni. Se oggi in Italia ci sono sul mercato oltre 30.000 medicinali chiamati “omeopatici” è merito del decreto legislativo n. 219 del 24 aprile 2006 che, in maniera sommaria, definisce medicinale omeopatico “ogni medicinale ottenuto a partire da sostanze denominate materiali di partenza per preparazioni omeopatiche o ceppi omeopatici, secondo un processo di produzione omeopatico descritto dalla farmacopea europea (…); un medicinale omeopatico può contenere più sostanze”. Sembra fatto apposta, ma cosa sia davvero un prodotto omeopatico per la legge italiana ancora non si è capito e in questa definizione, rientrano a pieno titolo una lunga serie di preparazioni, che hanno poco a che fare con il rimedio unico. Contemporaneamente, la legge non chiarisce cosa si intende per “omeopatia”, generando grande confusione tra omeopatia classica unicista, omeopatia pluralista di scuola francese, omeopatia complessista e omotossicologia. Tutte medicine non convenzionali riconosciute ma diverse tra loro, “sorellastre” dell’omeopatia classica che, operando con sostanze multiple e rimedi unitari combinati tra loro, eludono la legge dei simili nell’atto stesso in cui dichiarano di osservarla. Lo spiega Ioannis Kontantos, direttore didattico dell’Accademia internazionale di omeopatia classica “Pieria” di Pisa: “L’omeopatia pluralista e l’omeopatia complessista sono interpretazioni ‘spurie’ dell’omeopatia, molto più vicine alla medicina ufficiale. I preparati che vengono commercializzati come omeopatici solo perché contengono nella loro composizione un mix di rimedi unici, tradiscono l’essenza dell’omeopatia. Vengono prescritti per una determinata patologia e vanno bene per tutti, senza tenere conto della terapia personalizzata”. Ma il medico che prescrive medicinali pluralisti o complessi non è un impostore e non lo sono nemmeno le case produttrici, perché rispettano i termini di legge. “La gran parte dei prodotti a più componenti che si trovano in commercio e che tutti chiamano omeopatici -spiega la farmacista Renata Calieri- hanno una loro dignità e identità specifica e si possono definire a seconda delle loro caratteristiche ‘omeopatizzati’, ‘omotossicologici’, ‘omeoterapici’”. È solo una questione di definizioni, certo, ma con le sole definizioni si può fare un mercato da 300 milioni di euro.

Funziona? Gli studi a favore
Tra i 9.301 lavori presenti attualmente su Med-line, il database bibliografico medico della National Library of Medicine, molte metanalisi -così sono definiti i lavori più significativi in campo scientifico, cioè la rivisitazione critica, formale e metodologica di tutti i lavori pubblicati al momento su un dato argomento- hanno sancito definitivamente la diversità dell’omeopatia dal placebo e la sua efficacia in trattamenti di alcune patologie pari a quella dei medicinali convenzionali, ma senza effetti tossici collaterali. Lo studio “Are the Clinical
Effects of Homeopathy Placebo Effects? del 1997), analizza 186 studi scientifici sull’efficacia dell’omeopatia. Di questi, 89 sono stati condotti in modo scientificamente accettabile e dai risultati emerge che nei pazienti curati con medicine omeopatiche l’effetto positivo era 2,45 volte maggiore rispetto al placebo. Lo studio “Homeopathic vs. Conventional Treatment of Vertigo: A Randomized Double-Blind Controlled Clinical Study” del 1998, trattò metà dei 119 pazienti che accusavano vertigini con l’omeopatia, e l’altra con un farmaco convenzionale. Il farmaco omeopatico fu efficace quanto il prodotto chimico, ma esente da effetti tossici collaterali. Durante lo studio “Acute Otitis Media in Children: A Comparison of Conventional and Homeopathic Treatment” del 1997, su 131 bambini con l’otite 103 seguirono la cura omeopatica, 28 quella convenzionale. I ricercatori constatarono che nel primo gruppo trattato le ricadute erano del 40% per paziente, mentre tra i bambini che assumevano l’antibiotico erano del 70%. Vittorio Elia e Marcella Niccoli, nel 1999 hanno dimostrato come le successive diluizioni centesimali e le succussioni, procedimenti tipici della preparazione dei rimedi omeopatici, possono alterare permanentemente le proprietà fisico-chimiche dell’acqua. La natura del fenomeno rimane sconosciuta, sebbene ampiamente indagata dal punto di vista sperimentale. Inoltre, tra gli studi condotti in Francia (dove l’omeopatia è rimborsata dal servizio sanitario nazionale) su costi e benefici delle terapie omeopatiche, quello della Caisse Nationale de l’Assurance Maladie des Travailleurs Salaris, del 1996, constatò che i giorni di assenza dal lavoro dei pazienti curati con l’omeopatia erano 3,5 volte inferiori rispetto ai pazienti sottoposti a cure convenzionali (“allopatiche”), e uno studio condotto dal governo francese nel 1991 mostra come le cure omeopatiche costino allo Stato meno di quelle allopatiche.

Il paradosso legislativo
Secondo una normativa del 2006 dell’Unione Europea ogni “specialità” medicinale omeopatica dovrebbe avere l’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) come tutti gli altri farmaci, quindi con la composizione, l’indicazione terapeutica e la forma farmaceutica. Poiché in Italia la normativa non è stata recepita appieno le aziende non possono fare pubblicità ai loro prodotti omeopatici e nemmeno comunicare al pubblico queste informazioni attraverso il foglietto illustrativo, vietato per legge. Paradossalmente, i prodotti omeopatici vengono venduti in farmacia, parafarmacia e nei corner dei supermercati senza ricetta medica, come farmaci da banco, ma sprovvisti di istruzioni. Persino il nome del prodotto non può evocare la patologia per cui può essere utilizzato.
Per esempio, il medicinale per gli stati ansiosi “Sedatif” venduto in Francia da Boiron, in Italia ha dovuto cambiare il nome ed è diventato “Datif-Pc”.

Questione brevetto
In omeopatia esistono due tipologie di medicinali che hanno diverso impiego nella pratica terapeutica e diversa procedura di registrazione.
I medicinali “unitari”, usati in regime di omeopatia classica unicista e detti anche “a nome comune”, si trovano in commercio con il nome latino, seguito da diluizione (tipo “Belladonna 15CH”). Poiché offrono un’ampia gamma d’indicazioni terapeutiche che variano in base ai sintomi del paziente e alla sua individualità, hanno una procedura di registrazione semplificata, che non consente di fornire indicazioni terapeutiche e posologia, che vanno valutate dal medico omeopata (unicista). Essendo principi puri della natura (animale, vegetale, minerale), non sono brevettabili. Le cosiddette “specialità” medicinali omeopatiche hanno invece un nome di fantasia (“Oscillococcinum, Stodal, per esempio), indicazioni terapeutiche specifiche (antinfluenzale, sciroppo per la tosse…) e posologia precisa. Possono essere consigliate dal medico (non necessariamente omeopata) e dal farmacista oppure, proprio per le indicazioni terapeutiche precise, usati per l’automedicazione. Le “specialità” omeopatiche sono brevettabili, ogni azienda può inventare il proprio mix di rimedi e dargli un nome di fantasia a marchio registrato. Visto che non richiedono una prescrizione e hanno un uso specifico, vengono acquistati anche da persone che si affidano all’omeopatia solo occasionalmente e costituiscono la fetta più grossa del volume d’affari dell’omeopatia.

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