Economia / Opinioni
Perché questa crisi economica non è come le altre
Quella partita dalla pandemia è diversa dalla “grande depressione” del 1929 e dal crollo finanziario del 2008. Generata dalla paralisi produttiva, richiede nuove soluzioni. È la crisi di un organismo fiaccato nella sua componente vitale. Non si può uscire senza convalescenza e senza terapie di ausilio. L’analisi di Alessandro Volpi
L’attuale crisi è profondamente diversa da quelle che l’hanno preceduta. La “grande depressione” del 1929 è stata, nella sostanza, una crisi di sovrapproduzione smascherata da una colossale bolla finanziaria che ha portato alla luce le profonde incongruenze del decennio successivo alla prima guerra mondiale. Quella del 2008 è stata una crisi di isteria finanziaria, preparata dai lunghi e ruggenti anni Novanta, quando si erano affermate pratiche illusionistiche secondo cui era possibile cancellare il rischio per effetto di sempre più azzardate ingegnerie finanziarie, in grado di creare valore per tutti. I mutui subprime dovevano dare la casa a chiunque la desiderasse procedendo alla distribuzione del rischio, “cartolarizzandolo”, mettendolo in capo al maggior numero di soggetti possibili. Tanti piccoli rischi erano meglio di un solo grande rischio; ma i piccoli rischi sono diventati troppi, pesanti per le spalle fragili di chi li assumeva e sono risultati rapidamente tossici. Partendo dalla finanza, che aveva raggiunto ormai confini decisamente estesi, la crisi ha contagiato l’economia reale fino a paralizzare i sistemi produttivi. Occorreva quindi rimuovere il virus finanziario attraverso l’acquisto pubblico dei titoli tossici; in altre parole si è affrontata la crisi trasformando il debito privato, in primis quello bancario dove i titoli tossici si erano concentrati, in debito pubblico.
Ora la crisi parte dalla pandemia ed è decisamente anomala. Non dipende dalla sovrapproduzione, né dall’ingegneria finanziaria, ma dalla paralisi delle persone, dalla necessità, quasi primordiale, del loro isolamento. In questo senso, è ancora più radicale perché colpisce il cuore stesso della nozione di economia e di società con cui abbiamo avuto a che fare almeno negli ultimi due secoli e si basa sulla indispensabilità delle persone nella loro qualità di manodopera e di consumatrici. La crisi economica nata dalla pandemia determina una significativa riduzione delle prerogative delle persone, dei loro spostamenti, dell’utilizzo delle loro capacità, della loro possibilità di produrre reddito. Non hanno registrato paralisi produttive e sociali di questa portata neppure i conflitti durante i quali, anzi, non di rado le produzioni e soprattutto la produttività sono cresciute in maniera sensibile. Anche le relazioni sociali, proprio durante i conflitti, si sono intensificate, hanno determinato maggiori “assembramenti” di persone, spesso drammatici, dagli sfollamenti ai rifugi antiaerei e ai campi di concentramento che hanno operato però nella direzione di un rafforzamento del senso di appartenenza e di comunità, messo a dura prova, ora, da un certo meno doloroso, ma sicuramente straniante distanziamento sociale.
Questa crisi non è, quantomeno nel breve periodo, superabile quindi con l'”aggiustamento” dei meccanismi di malfunzionamento economico che siano, come in passato, riconducibili alla cattiva distribuzione dei redditi e della ricchezza, o alla egemonia della finanziarizzazione. Questa crisi impone di trovare una soluzione che accetti una minore capacità di generare reddito e ricchezza da parte delle persone e pertanto dovrebbe indurre a una nuova “convenzione sociale” destinata a sostituire una simile mutilazione, almeno fino a quando la scienza non avrà trovato una risposta e fino a quando la dimensione fisica della produzione di valore non sarà diventata meno decisiva. È la crisi di un organismo fiaccato nella sua componente vitale e dalla quale non si può uscire con ricette che non gli diano il tempo adeguato di convalescenza e le terapie di ausilio necessarie.
Università di Pisa
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