Economia
Crescere o ristrutturare? Questo è il problema
“Di più. Bisogna remare di più” si andava dicendo per tutta la nave. Lo ordinava il capitano dalla cabina, lo ripeteva il nocchiero al timone, lo gridavano i capi voga giù nella stiva. Lo sussurravano i passeggeri nei loro ritrovi…
“Di più. Bisogna remare di più” si andava dicendo per tutta la nave. Lo ordinava il capitano dalla cabina, lo ripeteva il nocchiero al timone, lo gridavano i capi voga giù nella stiva. Lo sussurravano i passeggeri nei loro ritrovi ed era oggetto di preghiera durante la messa officiata nella cappella di prua. Sembrava che parlandone, la speranza potesse diventare realtà, ma nonostante lo sforzo dei rematori, la nave non avanzava di un metro. Il primo a capire perché fu un mozzo sbucciapatate che non si muoveva mai di cucina. Un giorno, togliendosi i pesanti occhiali neri, che per ordine del capitano dovevano essere portati da tutti 24 ore su 24, aveva guardato oltre l’oblò ed aveva scoperto che i remi non affondavano nell’acqua, ma nella sabbia. Per senso di responsabilità era corso dal capitano, ma non aveva finito la frase che due energumeni l’avevano alzato di peso e gettato in cella come punizione per essersi tolto gli occhiali. Un ufficiale, che aveva assistito alla scena, era stato sopraffatto dal dubbio e non appena fu solo si tolse anch’egli gli occhiali e diede un’occhiata di sotto. Bastò poco per capire che il mozzo aveva ragione e fra mille incertezze fece rapporto: “Signor capitano, l’acqua è finita. Per avanzare non è dei remi che abbiamo bisogno, ma di corde e di rulli”. Ma neanch’egli venne ascoltato e al pari del mozzo venne imprigionato per essersi tolto gli occhiali. Oggi la nave è ancora là, immobile in mezzo al deserto, sola col suo mantra.
Questa è la rappresentazione, sotto forma di novella, della nostra realtà. Sarà per colpa del pensiero unico che ci offusca la vista, sarà per colpa della pigrizia che ci spinge nel branco, fatto sta che confindustria, sindacati, destra e sinistra, all’unisono tutti ripetono che bisogna crescere, crescere, crescere. Eppure tutti lo sanno: il tempo della crescita è finito. Prima di tutto per via della globalizzazione che ha spezzato la linea di continuità fra domanda e produzione. Magari i consumi crescono in Italia, ma la produzione cresce a Shangai o a Varsavia. E poi c’è la saturazione dei mercati. In Italia già abbiamo un auto ogni due abitanti, più di un telefonino a testa, guardaroba stracolmi, dispense piene di merendine scadute. Che altro dobbiamo comprare per sostenere la crescita? Certo se il reddito fosse distribuito in maniera più equa, quei milioni di famiglie che oggi non arrivano alla quarta settimana potrebbero comprare di più. Ma l’espansione dei consumi deve fare i conti con i limiti del pianeta. Due secoli di industrializzazione selvaggia hanno delapidato la terra e lo hanno inondata di rifiuti tossici che mettono a repentaglio la vita. Il tutto mentre metà della popolazione mondiale non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. I tre miliardi di poveri assoluti, loro sì hanno diritto di crescere, ma rischiano di non poterlo fare perché la concorrenza per le risorse scarse si fa sempre più aspra.
In conclusione anche la nostra nave è senz’acqua e non è più tempo dei remi ma delle corde e dei rulli. Fuori di metafora, dobbiamo cambiare modello economico, dobbiamo orientarci verso un modello di società che si pone come obiettivo il benvivere, inteso come capacità di garantire a tutti una vita sicura e armoniosa, sapendo che vanno rispettate tre condizioni: utilizzare meno risorse possibile, produrre meno rifiuti possibile, lavorare il meno possibile. Dunque si tratta di mettere in moto un processo di cambiamento ben più articolato della semplice decrescita. Non solo ridurre, ma soprattutto ristrutturare, non solo a livello energetico e tecnologico, ma anche produttivo. Dobbiamo ridurre alcuni settori e ampliarne altri, perché nella sua distorsione, questo sistema ci ha subissato di prodotti inutili e dannosi, mentre ci ha privato del necessario. Del resto così funziona il mercato: spinge il consumo delle cianfrusaglie alla portata delle tasche di tutti e nega l’accesso ai servizi vitali perché troppo costosi per i portafogli dei più. Dunque, fra le mille ristrutturazioni che dovremo operare, una emerge sopra le altre: il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento del pubblico, inteso come l’economia dei diritti e dei beni comuni, perché da lì passa la sostenibilità ambientale e la dignità umana e sociale. E’ chiaro, ad esempio, che il trasporto per tutti, a basso impatto ambientale, non è l’auto privata, foss’anche elettrica o a idrogeno, ma l’autobus e il treno diffuso. E se ciò vale per il trasporto ancora di più vale per la sanità, l’istruzione, la previdenza , l’acqua e tutto il resto che classifichiamo come diritti.
E’ bene alzare la testa e guardare l’orizzonte col cannocchiale in modo da evitare quei passi che pur sembrando vantaggiosi nell’immediato, preparano il disastro per il futuro. Un tipico esempio riguarda le misure che si stanno prendendo per la soluzione del debito pubblico. A parte l’invocazione della crescita, che lascia il tempo che trova, quello che davvero si farà è la privatizzazione dei servizi e la svendita del patrimonio pubblico. Con una semplice alzata di mano, il Parlamento ci priverà per sempre dei beni che i nostri padri ci hanno lasciato in eredità collettiva grazie a decenni, se non secoli di sacrifici. E con un pubblico messo a nudo sarà ancora più difficile avviare quel cambio di rotta che non è più rinviabile.
Non lasciamo che siano i mercati a dettarci il futuro. Facciamo in modo che l’ultima parola sia sempre la nostra.
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