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Altre Economie

Cooperative a rischio

25mila posti di lavoro in meno nel 2012. È l’effetto indotto dai tagli al welfare e ai trasferimenti dallo Stato agli enti locali

Tratto da Altreconomia 134 — Gennaio 2012

Cattive notizie per i lavoratori delle cooperative sociali: migliaia di posti di lavoro sono a forte rischio a causa dei tagli alla spesa sociale decisi nelle manovre finanziarie del 2011. Il calcolo è presto fatto: gli addetti del settore sono 317.000. Poiché la cooperazione sociale dipende da risorse pubbliche per circa il 60% del suo fatturato possiamo stimare che oltre 190.000 persone siano occupate in attività finanziate da enti locali. Il taglio della spesa sociale dei comuni non sarà inferiore al 13%, perciò, con qualche approssimazione, 25mila operatori rischiano di perdere la loro occupazione. È la prima volta che la cooperazione sociale attraversa una crisi di queste dimensioni. Nei vent’anni passati dall’approvazione della legge che l’ha riconosciuta (vedi Ae 132) la crescita infatti è stata costante: nel 2008 sono state censite 14.000 organizzazioni, 317.000 addetti, circa 9 miliardi di euro di fatturato, e ben 4 milioni di utenti all’anno. È nel 2009 che, per la prima volta, il numero di cooperative diminuisce rispetto all’anno precedente.
Analizzando chi sono gli addetti della cooperazione, è facile presumere che tra chi perderà il lavoro ci saranno molte donne (sono oltre il 70% degli addetti) e tante persone con figli minori o famiglie a carico (l’87% degli addetti ha meno di 50 anni). A maggior rischio sono le persone che lavorano in cooperative di piccole dimensioni: a fatturati esigui spesso si accompagnano risorse scarse da poter investire per rispondere alla crisi. I dati del centro studi internazionali sull’impresa sociale Euricse mostrano un sottodimensionamento complessivo delle cooperative, nate spesso per rispondere a bisogni locali in cui oggi rischiano di rimanere impigliate. Quasi il 60% ha un fatturato inferiore a 250.000 euro, e solo il 15% superiore a 1 milione di euro.
Anche le figure professionali saranno coinvolte dai tagli in modo differente: presumibilmente, la spesa residua si orienterà verso servizi di base (assistenza e cura, soprattutto per anziani e disabili). Saranno relativamente più protetti i profili di medio-bassa qualificazione, più simili all’ausiliario socio assistenziale che all’educatore o allo psicologo.
Questo scenario potrebbe essere in parte attenuato dagli enti locali, se sceglieranno di dirottare sulla spesa sociale risorse attualmente destinate ad altro, ma rilevante sarà anche la “capacità d’impresa” del terzo settore, che dispone soprattutto di due leve: la raccolta di contributi e donazioni e la capacità di intercettare servizi a domanda pagante. Sulla effettiva incidenza di questi correttivi, però, i dati sono ambivalenti. La raccolta fondi è in crisi: sono in aumento gli enti che dichiarano di ricevere minori donazioni da parte di fondazioni bancarie (-23%) e pubblica amministrazione (-7%). Analogamente incerta è la crescita della domanda privata, anche quand’è sostenuta economicamente da strumenti quali voucher (Ae 128) o indennità di accompagnamento. Per il momento, però, i servizi privati sono un mercato scarsamente accessibile per il terzo settore, che si trova a competere su queste prestazioni con badanti, baby sitter e colf. Queste prestazioni, a forte rischio di irregolarità e talvolta anche di scarsa qualità, rispondono infatti in modo più economico e flessibile alla domanda del singolo.
Un’ulteriore possibile reazione alla contrazione delle risorse e alla contestuale crescita delle povertà è che molti soggetti, enti locali ma anche privati, si rivolgeranno al volontariato per rispondere ai loro bisogni. Sono prevedibili -e in parte già registrati dalle singole organizzazioni- un incremento della pressione della domanda diretta e uno spostamento della domanda pubblica verso servizi a costo abbattuto grazie al ricorso ai volontari. Dai bisogni dei poveri alla guerra tra poveri, il passo pare essere breve.

 

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