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Esteri

Contro i migranti ad uso dei media

In diretta tv, sgomberato l’accampamento di Calais, da dove un migliaio di afgani cercavano di raggiungere la Gran Bretagna. Solo un atto di propaganda Calais (Francia) – “Come può accadere tutto questo proprio in Francia, la patria dei diritti umani?…

Tratto da Altreconomia 110 — Novembre 2009

In diretta tv, sgomberato l’accampamento di Calais, da dove un migliaio di afgani cercavano di raggiungere la Gran Bretagna. Solo un atto di propaganda

Calais (Francia) – “Come può accadere tutto questo proprio in Francia, la patria dei diritti umani? Voi venite nella nostra terra, in Afghanistan, a insegnarceli e poi…”. Smorfie di stanchezza miste a disillusione prendono forma sul volto di Shazullah Khan.Trent’anni, i capelli corti e ben curati indicano il suo arrivo recente tra le sterpaglie di questa bidonville della speranza alla periferia di Calais. La penombra della tenda di plastica e lamiera è schiarita da due candele. “Questa non è l’Europa. L’Europa -prosegue Shazullah in un ottimo inglese- è quella che abbiamo letto su libri e giornali. Qui è tutta un’altra storia”. Qui s’incrociano anche le loro storie, nell’ultimo bastione continentale dello spazio Schengen. “Sono partito sei mesi fa” racconta Mahmoud, 37 anni. Una barba ispida gl’imperla il viso. A casa, nel distretto afgano di Kunar, ha lasciato moglie e 4 figli. Sulla parete di legno alle sue spalle, tra materassi sgualciti e borsoni pronti per una nuova partenza, qualcuno ha appeso le foto che raccontano l’assurdo di questa strana attesa. Calais non è un punto d’arrivo. Ma solo di passaggio. Mancano una quarantina di chilometri di mare per raggiungere la Gran Bretagna. Oltre il Canale della Manica c’è l’Eldorado dove sognano d’arrivare gli afgani in fuga dalla democrazia d’esportazione. Intanto dormono in 9 dentro questo rifugio tra la sabbia e i cespugli della zona industriale della città. Per molti lo scomodo viaggio di sola andata dall’Afghanistan finisce in questa terra di nessuno.
Quasi una beffa: hanno già percorso migliaia di chilometri. Alcuni schiacciati nella cabina di qualche camion, in “prima classe”. Gli altri -soprattutto i più giovani- avvinghiati ai tir diretti a Ovest. Poi però tutto s’arresta al parcheggio del porto di Calais, dove partono i traghetti per Dover. Le statistiche dicono che due o tre migranti al giorno approdano Oltremanica. “Io non ci sono ancora riuscito” mugugna Sahel, 17 anni, partito a giugno da Jalalabad. Non è facile intrufolarsi nel terminal marittimo più sorvegliato d’Europa. Così si finisce nell’altro “parcheggio”, tra le tende degli afgani che attendono di passare. Chi ha i soldi, sborsa l’ennesima tangente ai passeur: da 400 a 700 euro. La Lampedusa di un’Europa capovolta non si raggiunge coi barconi. Chi non ha denaro, attende per mesi, trascorsi in cerca di un giaciglio tra le baracche che la Francia decide d’abbattere.
L’ultima notte. “La ‘jungla’ è la nostra casa, per favore non distruggetela. Altrimenti, dove andremo?” è scritto sugli striscioni davanti a un falò. Sono stati gli stessi migranti a chiamare “jungla” questo mezzo ettaro di arbusti. Terra senza legge, l’unico non-luogo sicuro per loro, dove c’è una fontanella per centinaia di persone e nemmeno una toilette. Per alimentare il fuoco gli attivisti dell’associazione No Border impilano bancali di legno. È l’ultima notte dell’accampamento. Tra poche ore arriveranno centinaia di poliziotti, accompagnati dalle ruspe per radere tutto al suolo.
“Oltre 150 persone sono partite negli ultimi giorni, ma fino a qualche settimana fa, qui erano un migliaio”, scuote la testa Vincent Lenoir dell’associazione Salam, che da anni offre assistenza ai migranti. Si dice convinto che i governi di Francia e Gran Bretagna abbiano sottoscritto un accordo segreto “per chiudere un occhio sui controlli e far passare un po’ di migranti”. Sgomberare le poche centinaia rimaste è di gran lunga più agevole per le forze dell’ordine francesi. Alle 7.30 del mattino, in un’operazione ampiamente preannunciata alla stampa, oltre 500 poliziotti circondano il campo. Altri agenti in tenuta anti-sommossa son pronti a intervenire. “Gli immigrati sono tutti radunati dietro gli striscioni” gracchia nella radio il commissario della polizia. Nessuna resistenza, almeno da parte dei profughi. Protestano, invece, gli attivisti dell’organizzazione No Border, cercando invano di ostacolare gli agenti. Gridano “papiers pour tous”, permessi per tutti. Sale la tensione tra militanti e forze dell’ordine. Centinaia tra giornalisti, fotografi e cameramen documentano lo sgombero. “Questa è la Francia di Sarkozy, siamo la vergogna d’Europa” urla uno degli attivisti. Gli afgani -quasi tutti della comunità pashtun- vengono identificati a piccoli gruppi e caricati sugli autobus, dove i sedili sono protetti da teli di plastica. Sylvie Conyans, una delle volontarie dell’associazione  Salam, stringe Mahmoud, un ragazzino di 14 anni. “Un’operazione infame a uso dei mass-media” sbotta. “Questa è una vera deportazione, abbiamo paura” riesce a dirci Ashrat mentre viene accompagnato verso i pullman. 278 migranti identificati, molti sono richiedenti asilo. Tra loro, 135 minorenni accompagnati in appositi centri. Entrano in azione i caterpillar governativi, schiacciano anche i vasi di fiori davanti alla piccola moschea di plastica blu.
Dalla legge della “jungla” a quella delle ruspe. Il 21 luglio un primo tentativo di sgombero era fallito, troppi afgani accampati. Due mesi dopo, le ruspe “impongono la loro legge nella ‘jungla’”, come titola a tutta pagina il quotidiano locale Nord Littoral. Il Tarzan che mostra i muscoli della giustizia si chiama Éric Besson, ex-socialista, ministro dell’Immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale. Di solidale, qui, è rimasto poco. Nel 2002, venne raso al suolo il campo della Croce rossa di Sangatte, sempre a Calais. Ministro degli Interni era Nicolas Sarkozy. Oggi, da presidente, chiede ai suoi ministri di reiterare la linea dura. Allora non risolse nulla. Adesso l’unica efficacia di simili operazioni sembra quella mediatica. I proclami del ministro Besson (“Dobbiamo fermare il traffico di esseri umani”) alimentano la propaganda. Il problema -come temevano le associazioni umanitarie, già attive all’epoca del precedente sgombero- non è stato risolto. Al massimo, nascosto. Come la polvere sotto un tappeto. Ora i migranti afgani cacciati dalla “jungla” dormono insieme agli altri migranti, sotto i ponti. Calais, dal 2008, è amministrata dall’Ump, il partito di Sarkozy.
Ma perché ostinarsi comunque a partire dall’Afghanistan sapendo quello a cui si va incontro? Mohammed Muktari vuole arrivare in Gran Bretagna perchè suo zio ha trovato sistemazione a Hull, nello Yorkshire. “Hai sentito che gli americani invieranno altre truppe?”, risponde con una domanda. “Questo significa che l’Afghanistan non è sicuro. Se nemmeno loro riescono a gestire la situazione, come possiamo stare tranquilli noi… ovunque ci sono soldati o talebani”. Mohammed faceva il panettiere a Mazar-el-Sharif, ha lasciato a casa la moglie e due figlie di 4 e 2 anni: “Gestivo una piccola bottega. Mi hanno minacciato di morte, ecco perchè sono qui”. Si dice convinto che le autorità britanniche gli daranno casa e assistenza sanitaria. “Ma dall’altra parte della Manica non c’è la terra promessa, glielo diciamo sempre” fa notare Brigitte Lips, una signora sulla cinquantina che qui tutti chiamano Mamy. “Forse là possono almeno parlare un po’ di inglese. Restare qui è davvero difficile per loro”. Così difficile che Mamy da anni apre le porte di casa sua ai migranti irregolari. Ha organizzato una sorta di doccia nel box e permette ai “ragazzi” di ricaricare da lei i cellulari. Per loro -secondo Mamy- la Francia è fermée, chiusa. L’uscita di sicurezza da Schengen è sigillata tanto quanto l’ingresso. Di qui non si passa.
Di nuovo a Calais.
Avevamo incontrato Nasser Khan la notte dello sgombero. L’indomani lo ritroviamo in coda insieme ad altri migranti nel piazzale vicino al municipio di Calais. Qui l’organizzazione Belle Etoile offre un pasto e cure mediche. A mezzogiorno i volontari -con la pettorina giallo-fosforescente come per le emergenze in autostrada- distribuiscono panini e thè caldo. “Mi hanno portato a Lille in questura e poi rilasciato nella notte” racconta Nasser. Mostra la scheda di identificazione numero 1728. “Ho chiesto un medico per un forte mal di testa, ma non mi hanno dato assistenza” si lamenta. Stessa felpa verde di ieri, sulla faccia il peso della notte insonne. Spiega che lui starebbe anche in Francia, vorrebbe studiare la lingua. Ha già fatto domanda d’asilo e per questo le autorità non l’hanno potuto trattenere. A sera, sono invece quelli dell’organizzazione Salam a offrire un piatto caldo ai migranti. In coda per una zuppa di riso non ci sono solo afgani. La distribuzione avviene nei pressi di un deposito del porto. Sull’altro lato dell’edificio sono accampati migranti somali, palestinesi, egiziani. Bivaccano di fronte al Terminal 7 per Dover e a due gru d’acciaio, con le stesse speranze degli altri: attraversare la maledetta lingua di mare che li separa dalla Gran Bretagna. Sul muro le scritte con la vernice bianca “Stop deportations” e “Frontiere = souffrance”, fermate le deportazioni, la frontiera è sofferenza. Stasera si contano i “reduci” dello sgombero della “jungla”. Sorrisi e pacche sulle spalle quando a ritirare la cena si presentano Erman Khan, 16 anni, e i suoi due cugini Farhad e Miravslav, che i volontari conoscono bene. “Siamo scappati dal campo la sera prima dell’arrivo della polizia” raccontano quasi divertiti. Loro, ormai, stanno scappando da 3 mesi. Da quando hanno abbandonato Jalalabad. La tappa più faticosa -ricorda Erman- è stata la Patrasso-Bari in traghetto, incastrati nel semi-asse di un tir stivato dentro il ventre d’acciaio della motonave: “Eravamo davvero stretti, ma almeno non si rischiava di cadere per strada”. Ora i tre cugini consumano la loro zuppa sotto il grande faro di Calais, a poche centinaia di metri dalle brasserie del centro città, convinti d’aver dribblato i poliziotti mandati da Sarkozy. Gli altri agenti, quelli di pattuglia per le strade della cittadina dell’Eurotunnel, per ora non daranno loro la caccia.
Trafficanti d’uomini. Anche Abraham è un cliente fisso dei volontari. Da quattro anni ogni sera è in fila per la sua cena. Impreca contro lo spreco: “Sto sprecando qui la mia giovinezza”. Ha 25 anni, viene dall’Eritrea. Per la quarta volta la sua domanda d’asilo è stata respinta. Ha presentato l’ennesimo ricorso. “In tanto il tempo passa e io non riesco a schiodarmi da qui”. Perché? “Semplice: non trovo le centinaia di euro che chiedono i passeur”. Sostiene che i trafficanti siano tutti afgani. “Chi è bravo viene assoldato da loro per procurare nuovi clienti tra i migranti, ma noi africani facciamo fatica a inserirci in questo business”. Non serve chiedere perchè sia fuggito dall’Eritrea (vedi Ae 109): “Per sopravvivere”. I buoni procacciatori ottengono probabilmente il passaggio gratis verso la costa britannica. Altrimenti bisogna scucire centinaia di euro. Tutti qui sanno come funziona. Nessuna ipocrisia, tanti affari. In città vediamo una Mercedes scura con targa inglese ferma vicino a un drappello di afgani all’ora di pranzo. Scende un signore incravattato, qualche chiacchiera, un rapido scambio di numeri di cellulare. Riparte. “È così da anni, sotto gli occhi di tutti” afferma Laurent Renault, giornalista di una testata locale. L’alternativa è tentare di aggrapparsi alla disperazione sotto i mezzi pesanti. Le celle frigorifere riescono più facilmente a penetrare nella cittadella fortificata del porto. Queste recinzione elettrificata è l’ultima ostacolo di un itinerario che -per gli afgani- si snoda dall’Asia con tappe quasi fisse. Kabul, Iran, Turchia, Grecia, Italia, Francia. Fino a Calais. Ma il bordo settentrionale d’Europa è terra d’attesa anche per curdi, palestinesi, iraniani, iracheni, somali, sudanesi. Vivono sparpagliati nelle altre “jungle”: alcune tra sterpi e rovi, altre mimetizzate in città, dove somali ed eritrei occupano abusivamente appartamenti e fabbriche dismesse.
Le altre “jungle”. I sudanesi abitano quasi tutti tra la ferrovia e un canale, vicino a un centro commerciale. Dormono in un’unica tenda da campeggio. Nell’insolito salotto open-air sotto i pini, un divano si spalanca di fronte ai treni di passaggio. Ismail, 23 anni, dice di venire da Millit, in Darfur. Ha toccato l’Europa sbarcando a Lampedusa. “Sono qui da un mese. In Sudan ho frequentato le scuole superiori e vorrei iscrivermi all’università”. Però non in Francia. “No, qui no. Voglio una vita normale”. Ovviamente pensa al Regno Unito. Stesse aspettative per i curdi rimasti a poche centinaia di metri dalla “jungla” distrutta. La “loro” sorge lungo binari abbandonati. Squallide capanne di legno e plastica. Montazeri abita qui da 25 giorni. È un signore dinoccolato, con qualche capello bianco. Viene dall’Iran. “Da quale città non posso dirlo, troppo pericoloso”. Poche parole. “Problemi politici nel mio Paese”. È una specie di fratello maggiore per questo gruppo di ragazzotti accomunati dalla lingua e dalla cultura curda. Mohammed Ali Mohammed, diciottenne col ciuffo corvino, è di Mossul, in Iraq. Sta preparando il tè sulle traversine di legno ormai in disuso. “Vado a Manchester da mio fratello” afferma convinto Sardasht, un altro iraniano di 24 anni. Su questa strana ferrovia che non conduce da nessuna parte  incrociamo la nuova responsabile locale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. “È il mio primo giorno di lavoro, sono in visita” dice la signora vestita in elegante lilla mentre scansa la pattumiera della “jungla” curda. Le Nazioni Unite hanno aperto una sede full-time a Calais, la seconda in tutta Europa. Nel 2002 era stato chiuso un ufficio Onu dopo lo sgombero dell’altro campo. Da allora, la situazione s’è solo aggravata. Sette anni dopo, la decisione di tornare sul campo per garantire assistenza a chi cerca asilo politico. Tra le baracche dei curdi incontriamo Mohammed Ahmed, palestinese di Gaza. È accampato a qualche duna di sabbia di distanza. Dice di avere 16 anni, cammina con le stampelle. Ma come ha fatto a sfuggire dalla Striscia di Gaza sotto assedio israeliano? Difficile capirsi, non parla curdo. Qualcuno traduce: nave. Nascosto su un camion partito via mare dall’enclave palestinese verso la Turchia. E da lì, il consueto e infinito itinerario lungo le porose porte d’accesso d’Europa. Dove certe operazioni come quella voluta da Sarkozy si rivelano inefficaci. Lo sa bene Saifullah. La mattina dello sgombero è sul furgone di un’organizzazione umanitaria. S’è nascosto prima dell’arrivo degli agenti. Sta sdraiato su un sedile mentre il mini-bus fende la calca di giornalisti in attesa di una conferenza stampa del prefetto di Calais. Lì, all’angolo di rue des Gravelines -villette basse coi gerani alle finestre vicine alle baracche- il funzionario annuncerà dopo qualche minuto che la “jungla” è stata ripulita. Ma Saifullah sarà già al sicuro. In centro città.

La geografia del diritto d’asilo
Tutta colpa della geografia, che mette la Grecia davanti all’Europa per chi proviene dalla Turchia. “Dovrebbero almeno chiederci se vogliamo fare domanda lì…” si lamenta Abdallah. È arrivato a luglio dall’Afghanistan, dopo un viaggio durato 7 mesi. Come molti altri è stato fermato dalle autorità greche, che hanno rilevato per prime le sue impronte digitali. Secondo la normativa, ora Abdallah ha l’obbligo di presentare richiesta d’asilo in Grecia. “Non ci penso nemmeno, voglio farlo altrove”, insiste. L’altrove, per gli afgani, è la Gran Bretagna. “Qualcuno si brucia persino i polpastrelli per non lasciare tracce”, spiega Maryam Rachi, di Secours Catholique, la Caritas locale. “In Grecia – sottolinea la volontaria, che parla arabo perchè di origine marocchina – c’è un problema di accesso alle procedure. Non c’è aiuto, i migranti si sentono davvero abbandonati”. A Calais, almeno, gli stranieri possono ricevere qualche informazione. “Ma quando qualcuno finalmente accetta di presentare domanda d’asilo in Francia – aggiunge – è troppo tardi. La richiesta viene respinta. In cambio si ottiene un foglio di via per tornare in Grecia”.

In Francia non c’è posto per i rifugiati
“I trafficanti cercano di dare informazioni ai migranti su come proseguire il viaggio verso la Gran Bretagna. Così facendo, alimentano il proprio business”. A parlare è Radoslav Ficek, avvocato, dell’associazione France-Terre d’asile. La sua organizzazione, prova a offrire informazioni sui diritti. “Il nostro compito -spiega- è garantire assistenza a chi la chiede”. Da qualche mese il ministero dell’Interno francese, attraverso la sotto-prefettura, ha aperto un ufficio a Calais. “Secondo i nostri calcoli, da maggio circa 220 migranti hanno già presentato domanda d’asilo politico o di protezione umanitaria”. Ma il governo ridimensiona le cifre, indicando una cinquantina di irregolari in meno. “Non hanno interesse a pubblicizzare queste opportunità” fa notare Ficek. A gennaio di quest’anno -secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati- in Francia c’erano ancora 33.703 domande d’asilo o protezione pendenti.
Nel 2008, le autortà d’Oltralpe hanno dato risposta a circa il 30% di quelle pervenute. Le statistiche indicano un forte aumento delle richieste d’asilo da parte dei minori, compresi quelli che riescono ad attraversare lo Stretto della Manica. L’anno scorso, 4.285 minorenni hanno presentato domanda nel Regno Unito, il 230% in più rispetto al 2007.

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