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Altre Economie

Con dighe e miniere non c’è sviluppo

Al World Social Forum di Tunisi i movimenti globali discutono dell’opposizione a mega progetti estrattivi e idroelettrici. Questi ultimi favoriti anche dai meccanismi del protocollo di Kyoto. L’esperienza italiana della rete StopEnel (su Altreconomia di aprile un reportage dalla Colombia)

Tunisi – “Le multinazionali energetiche e minerarie vengono nei nostri paesi e quello che si aspettano da noi è che, come cinquecento anni fa, abbassiamo la testa e diciamo sì signore. Noi però non ci pieghiamo. Usciamo in strada a protestare pacificamente e non sappiamo in quanti torneremo a casa. Ma non ci fermiamo” dice Nicanor Alvarado Carrasco del Poject Conga nell’Amazzonia Peruviana. Al Forum mondiale di Tunisi si discute della perversa relazione tra sfruttamento idroelettrico ed estrazione mineraria. Una relazione indissolubile, considerando che la maggior parte dei nuovi impianti che vengono costruiti nei paesi del sud non sono destinati a produrre energia per le persone, bensì per alimentare le grandi miniere che estraggono materie prime necessarie per il nostro insostenibile stile di vita.

“Quante dighe si possono costruire su un fiume?” chiede provocatoriamente Maduresh, attivista del movimento Save Narmada Movement, che da 27 anni si batte per salvare l’omonimo fiume indiano: “Sul Narmada ce ne sono più di mille, di tutte le dimensioni”. Save Narmada Movement negli anni ’90, grazie ad una fortissima solidarietà internazionale, aveva avuto la meglio sulla Banca mondiale, allora principale finanziatore dei grandi sbarramenti, imponendo uno stop durato meno di dieci anni. A partire dal 2005 la realizzazione dei progetti idroelettrici ha subito una nuova impennata, non solo a causa dell’alleanza di multinazionali e governi corrotti nell’imporre un modello economico basato principalmente sull’estrazione e l’esportazione delle materia prime, ma anche a causa del Meccanismo di sviluppo pulito inserito negli accordi sul clima siglati a Kyoto. Questo permette alle multinazionali del nord di continuare ad emettere CO2 in cambio dello sviluppo di progetti di energia rinnovabile nel sud del mondo. Un triplo business per le multinazionali occidentali dell’energia, che guadagnano dalle centrali a carbone in Europa, dall’idroelettrico nel sud del mondo e dalla vendita sul mercato dei crediti di carbonio dei certificati di riduzione delle emissioni (CER). Sui CER è inoltre possibile strutturare prodotti finanziari derivati, aggiungendo anche un quarto potenziale guadagno. Re:Common e il Forum italiano dei movimenti per l’acqua hanno illustrato durante la riunione l’esperienza della rete StopEnel, nata con lo scopo di contrastare in maniera sistemica il modello energetico dell’impresa elettrica nazionale e unire le comunità negativamente colpite dai suoi progetti in Italia, America latina ed Europa dell’Est.
 
Presente anche una folta delegazione di iracheni e kurdi, che grazie anche all’impegno dell’associazione “Un Ponte per…” hanno unito le forze per fermare insieme la costruzione della diga di Ilisu nel Kurdistan turco, recentemente bloccata dalle autorità giudiziarie turche a causa dell’assenza di un’adeguata valutazione di impatto ambientale. Il rafforzamento della lotta contro le dighe e le miniere appare oggi un nodo cruciale per prevenire nuove catastrofi ecologiche.
 

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