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Interni / Reportage

Come sta il diritto all’istruzione universitaria nelle carceri italiane

Il sistema che permette a detenute e detenuti di frequentare i corsi con l’aiuto di docenti e tutor conta oggi quaranta Poli universitari penitenziari funzionanti per quasi 1.800 immatricolati. Seppur si tratti di meno del 3% della popolazione ristretta, negli ultimi anni i passi sono stati significativi. Ma gli ostacoli rimangono numerosi e le linee guida definite non sempre applicate. Il nostro viaggio, da Secondigliano a Opera

Antonio è uno studente di 25 anni da poco laureato in Giurisprudenza all’Università di Bologna. Al secondo anno, nel novembre 2020, ha fatto una scelta: diventare tutor. È il modo in cui vengono chiamati gli studenti universitari che scelgono, come volontari, di affiancare i detenuti che frequentano i Poli universitari penitenziari (Pup) nella preparazione degli esami. “In un periodo di reclusione come il lockdown -racconta Antonio-, dentro di me è nato il desiderio di entrare in contatto con chi recluso lo è tutto l’anno”.

La sua esperienza non è un caso isolato, il sistema che permette a detenute e detenuti di frequentare i corsi universitari grazie all’aiuto di docenti e tutor conta oggi quaranta strutture funzionanti più quattro in fase di attivazione: i Pup appunto, presenti in tutte le Regioni di Italia.

“Quello della pena non può essere un tempo sospeso, deve riempirsi di possibilità di lavoro e apprendimento per i detenuti. La Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) è nata anche per questo”, spiega Franco Prina, fondatore della Conferenza nata nel 2018 dopo un lungo cammino partito negli anni Settanta, quando alcune università, come quella di Torino e di Milano, avevano iniziato a offrire servizi ai detenuti che ne facevano richiesta. “Allora la garanzia del diritto allo studio in carcere avveniva in modo casuale -spiega Prina, che ne è stato presidente fino a poche settimane fa, prima della nomina di Giancarlo Monina, docente all’Università di Roma Tre-. Da una parte c’era il background culturale che influiva molto nella volontà di continuare gli studi, dall’altra la fortuna di trovarsi in un istituto vicino ad un’università che offriva questo servizio”. In mancanza di quest’ultima condizione fare l’università in carcere era praticamente impossibile.

Benché appena il 2,8% della popolazione carceraria risulti iscritto a un corso universitario, nell’arco di sei anni, da quando si è realizzato il coordinamento nazionale tra Conferenza dei rettori, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ministero, il sistema dei Pup ha prodotto risultati significativi. Dalla cifra iniziale di 796 iscritti nel 2018 si è arrivati a raggiungere il numero complessivo di 1.707 detenuti immatricolati all’università nell’anno accademico 2023/2024. La stragrande maggioranza (il 95,8%) è rappresentato da uomini, mentre le donne sono solo il 4,2%. Gli stranieri rappresentano invece il 10,4%. Un trend in crescita costante che corrisponde alla progressiva estensione del numero delle università aderenti, con l’apertura di nuovi poli in Regioni dove prima del 2018 queste strutture erano assenti come Sicilia, Basilicata e Puglia.

Nonostante gli sforzi compiuti dalla nascita della Cnupp ad oggi, sono ancora molti gli ostacoli a una piena garanzia del diritto allo studio per le persone detenute o in condizioni di limitazione della libertà personale. Se è vero, infatti, che la Conferenza definisce un modello di come dovrebbe funzionare lo studio universitario in carcere delineando linee guida e procedure, spesso questi parametri non vengono rispettati.

Come nel caso della necessità di predisporre spazi adeguati allo studio sia collettivo sia individuale, o la garanzia dell’accesso alle biblioteche, alle risorse informatiche e alla didattica a distanza. Le maggiori criticità sono legate infatti soprattutto al sovraffollamento di molti istituti penitenziari -il tasso di sovraffollamento è pari al 117% con 60mila detenuti, oltre 10 mila in più dei posti disponibili- e all’arbitrarietà del sistema di permessi e autorizzazioni che può rendere il lavoro di docenti universitari e tutor molto difficile. “Il rispetto dei parametri è lasciato alla buona volontà di coloro che lavorano in carcere -continua l’ex presidente Prina-, dal direttore dell’istituto al singolo agente di polizia penitenziaria, basta che uno soltanto si metta di traverso e il meccanismo si inceppa”.

Su questo aspetto punta il dito Andrea Porciello, professore di Filosofia del diritto che per anni ha insegnato agli studenti del Pup dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. “Se uno studente fa richiesta di una penna, di un libro o della prenotazione di un esame e questa richiesta, per colpa o incuria non viene trasmessa o si ritarda appositamente la sua comunicazione, tutto il percorso universitario subisce continui blocchi”.

A queste difficoltà si aggiunge la mancanza dei mezzi indispensabili per studiare: un luogo silenzioso dove concentrarsi, una luce che puoi accendere quando vuoi, libri gratuiti, uno sgabello dove sedersi e un tavolo. “Sembrano banalità -spiega Maria Rosaria Santangelo, docente di Architettura all’Università Federico II di Napoli-, ma sono condizioni necessarie. Se condivido una cella con altre quattro persone, a volte anche di più, la buona volontà per studiare non basta. Ci sarà sempre qualcuno che grida, che guarda la televisione o chiede di spegnere la luce per riposare”. Da anni insegna Progettazione architettonica agli studenti detenuti del Pup di Secondigliano, sono loro a raccontarle nel corso dei laboratori le difficoltà nel proseguire gli studi. Come nel caso dei libri di testo: in alcuni casi le spese vengono coperte dalle università, in altri sono a carico del detenuto stesso. “Chi si iscrive a un corso universitario in carcere desidera uscire dal vuoto pneumatico di uno spazio che lo comprime, che prosegua o meno fino alla laurea una volta scontata la pena è indifferente, noi come università dobbiamo offrire tutti gli strumenti necessari”.

Prima che esistessero i Pup, nel 2014, un gruppo di docenti dell’Università Bicocca ha messo in piedi un’esperienza unica al carcere di Opera, a Milano. I professori hanno siglato una convenzione che rendeva possibile allestire all’interno dell’istituto penitenziario una vera e propria aula universitaria. “Ho insegnato per dieci anni a Opera in una classe mista, formata da studenti liberi, che venivano in carcere per tutte le ore del corso e studenti interni”, ricorda professore Roberto Cornelli che ora insegna Criminologia all’Università Statale di Milano. “È una modalità di insegnamento partecipativa che evita lo scambio a senso unico delle esperienze -continua Cornelli-, non sono solo i detenuti a parlare e il focus non è solo l’esperienza detentiva, gli studenti interni ed esterni si relazionano tra loro da pari”.

Il fatto che il numero di detenuti iscritti ai corsi universitari sia in aumento si iscrive nel contesto attuale delle carceri italiane, dove qualsiasi diritto, persino i più basilari, come quello a un trattamento dignitoso o alla salute, viene quotidianamente messo in discussione. Le criticità che delineano il quadro complessivo del mondo carcerario influiscono, quindi, anche in questo ambito. “Il carcere è un luogo dove lo scarto tra teoria e pratica è purtroppo la regola -afferma Alessio Scandurra, coordinatore per Antigone dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti-, il rispetto dei principi che hanno ispirato la nascita di questi spazi è sempre parziale, lo è per la presenza di riscaldamento e acqua calda che dovrebbe essere obbligatoria e invece non sempre c’è, figuriamoci per il diritto allo studio”.

Ma in una situazione costantemente emergenziale, nel rapporto tra università e carcere sono stati fatti dei passi avanti. Anche se riguardano una piccola percentuale della popolazione carceraria (2,8%) e sono il prodotto di un sistema ibrido che parte dalle istituzioni ma fa molto affidamento sulle associazioni di volontariato. “Dalla fondazione della Cnupp la sensibilità è cambiata, si creano ponti tra il carcere e il mondo di fuori e questo contribuisce a formulare politiche informate -sostiene Scandurra-, magari seguire un corso di Ingegneria in carcere non ti farà diventare per forza ingegnere, ma non vuol dire che abbia meno valore per uno studente interno che per uno libero. A quanti sono privati della libertà personale non devono essere automaticamente sottratti gli altri diritti”.

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