Ambiente / Intervista
Come rendere “visibile” la violenza tossica dei disastri ambientali
Adriano Zamperini, docente di Psicologia a Padova, ricostruisce il limbo in cui vivono le vittime delle comunità colpite: la paura per la malattia, i processi sfiancanti, le complicità delle istituzioni. Un modo per chiarire le responsabilità
Quello che più caratterizza i disastri ambientali è la coltre grigia che li avvolge: invisibile è la mano di chi li causa, così come i pericoli per le vittime, i danni e i traumi. Dalla nube tossica che coprì Seveso (MB) nel 1976 fino all’inquinamento da Pfas in diverse Regioni del Nord Italia passando per il sacrificio di Taranto: sempre più questi fenomeni entrano a far parte delle nostre vite. Segnando profondamente e stravolgendo gli equilibri di intere comunità su cui Adriano Zamperini, docente di Psicologia della violenza all’Università di Padova, da anni ha concentrato la sua attività di ricerca, racchiusa nel saggio “Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali” pubblicato da Einaudi a fine 2023. Un libro decisivo per “rendere visibili” le tante e sfaccettate conseguenze della violenza tossica delle sostanze inquinanti.
Professor Zamperini, studiare i disastri ambientali usando come prospettiva l’invisibilità. Da che cosa nasce questa idea?
AZ Molti disastri ambientali di natura industriale sono fenomeni di violenza “lenta e invisibile”. Tradizionalmente la violenza è facilmente identificabile quando c’è una breve distanza fisica e temporale tra il perpetratore e la vittima. Invece, nel caso dei disastri ambientali, esistono spesso sostanziali divari tra l’esposizione a una sostanza tossica e la manifestazione del danno, a causa di processi eco-biologici latenti e cumulativi. C’è una distanza fisica, temporale e cognitiva tra il comportamento di una corporation e una diagnosi di cancro decenni dopo. Inoltre, quando gli effetti dell’esposizione non sono immediatamente rilevabili da analisi mediche, le potenziali vittime non possono stabilire quanto e se sono state esposte o se in futuro avranno problemi. L’invisibilità endemica delle sostanze tossiche ha spesso confuso e inibito la capacità di chi è stato colpito di rendersi percepibile agli occhi della collettività, per ottenere la dovuta attenzione.
Il libro si apre proprio con un riferimento al disastro di Seveso del 1976, quando un incidente nell’azienda Icmesa provocò la fuoriuscita di una nube tossica. Perché?
AZ Seveso aiuta a comprendere i conflitti che simili vicende innescano nelle comunità locali, dando forma a quello che noi studiosi chiamiamo “comunità corrosive”. Nell’incertezza generale, dove tutti avevano paura, il “che fare?” era sempre accompagnato da diverse posizioni e contrapposti interessi che spesso generavano aspri contrasti. Evacuare o restare? Dirottare ragazze e ragazzi in scuole lontane dalla zona inquinata? Sopprimere gli animali da cortile? Tra i tanti conflitti generati uno dei più drammatici è stata la questione dell’aborto, quando si diffuse la notizia che alcune donne portavano in grembo un feto morto. L’angoscia e lo stress vissuto dalle gestanti e dai rispettivi partner fu enorme. Per questo ritengo che Seveso abbia ancora molto da insegnare, affinché il “mai più” non sia solo espressione di un conformismo emotivo da cerimonia.
“I colpevoli siamo noi”. Così apriva un quotidiano all’indomani del distacco di un enorme crepaccio dalla Marmolada il 3 luglio 2022. È un titolo corretto?
AZ Nel libro, accenno a questo evento per evidenziare la differenza tra disastri ambientali naturali, che non sollevano grandi interrogativi in termini di giustizia, e quelli industriali dove, invece, il problema della prevedibilità o persino il dolo sono elementi decisivi. Nel caso della Marmolada, sentiti gli esperti, tutti concordi nel sostenere l’imprevedibilità della valanga, il discorso pubblico si è subito posizionato su una generica e vaga responsabilità collettiva. Quel titolo chiama in causa il nostro stile di vita, caratterizzato da un atteggiamento predatorio nei confronti dell’ambiente le cui conseguenze sono note. Vero. Però la genericità della denuncia è un problema: se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è veramente. Chi si sentirà, così, coinvolto e chiamato ad agire? Infine, il titolo ricalca la narrazione dominante sulla crisi ambientale incentrata su un copione che prospetta un’umanità uniformemente implicata e indistintamente responsabile. Non è così. Il libro nasce proprio per praticare una “anatomia dei disastri ambientali”, per segmentare i fenomeni e chiarire eventuali e puntuali responsabilità.
“Violenza invisibile” è il titolo del saggio pubblicato nel 2023 per Einaudi da Adriano Zamperini, docente di Psicologia della violenza presso l’Università degli Studi di Padova
Spesso le vittime restano però deluse dai procedimenti penali.
AZ Chiarito che partecipare a un processo per disastri ambientali è un percorso umanamente faticoso ed emotivamente stressante, probabilmente l’elemento che origina maggiori ricadute in termini di travaglio psicologico è il rendersi conto che i procedimenti penali presentano parecchi limiti. E i loro esiti frequentemente deludono le parti lese. Le modalità probatorie -prove oltre ogni ragionevole dubbio, giurisprudenza discordante- e il decorso del tempo -relativo alla durata delle indagini e del processo- remano contro le istanze di riconoscimento e giustizia delle vittime. Soprattutto la prescrizione è un macigno. Nonostante, con immane fatica, si sia raggiunta l’agognata meta della prova, il tempo impiegato azzera tutto. Provocando una vera e propria vittimizzazione secondaria.
L’arruolamento di scienziati, il coinvolgimento di politici e la manipolazione dell’opinione pubblica. Così si silenziano i disastri ambientali. Di che cosa si tratta?
AZ La strategia di “fabbricare dubbi” è spesso citata dagli storici della scienza per definire le campagne di disinformazione sui rischi del fumo attuata dall’industria del tabacco. Seminare dubbi e incertezza è una caratteristica centrale dei racconti di tossicità ambientale, maneggiati e usati in modo diverso a seconda degli interessi di governi e apparati industriali. Nel libro parlo di costruzione sociale dell’ignoranza: indebolire e screditare la scienza indipendente, promuovendo al contempo come unica “vera scienza” quella interessata; incalzare e mettere in difficoltà le autorità preposte alla regolamentazione; allarmare circa il danno economico per l’industria e l’occupazione. Ritardando di fatto il processo politico decisionale.
Lei utilizza il termine “danno” e non “reato” così come “violenza” anche quando non viene infranta una legge. Perché?
AZ I perpetratori di disastri ambientali causano variegati danni: somatici (morte, gravi lesioni, malattie), materiali (deprezzamento delle proprietà, perdita del lavoro) e psicosociali (disagio emozionale, stress e tensioni familiari). Guardare a simili orrori assumendo la prospettiva del danno, consente di riconoscere chi o cosa è imputabile per l’accaduto, andando oltre la stretta nozione di responsabilità individuale. Altre componenti, però, sebbene non siano giuridicamente definibili come criminali, causano sofferenza. Responsabilità aziendali e statali ma anche fattori strutturali che possono favorire il costituirsi di situazioni nocive, arrivando a coinvolgere la sfera politica. Ciò evita di rimanere relegati nella sfera dell’illegalità, considerando anche quanto è stato cagionato attraverso pratiche legali.
Parla a lungo delle cosiddette “zone di sacrificio”. Che cosa sono?
AZ È un termine introdotto da funzionari statunitensi per indicare aree dove i sottoprodotti delle operazioni di estrazione mineraria dell’uranio, degli impianti di produzione di armi nucleari e dei siti di test atomici hanno lasciato dietro di sé paesaggi inadatti all’abitazione umana. Possiamo però includere nelle “zone di sacrificio” una gamma più ampia di comunità che vivono in luoghi immediatamente adiacenti a industrie a forte impatto ambientale: segmenti di popolazione, spesso marginalizzata, che devono sopportare ingenti e ingiusti disagi sanitari, sociali ed economici. Recentemente, ad esempio, l’Onu ha definito Taranto come “zona di sacrificio”.
Scrive che una democratizzazione della scienza renderebbe “reale” il principio di precauzione. “La migliore prospettiva di azione pubblica oggi disponibile”. Perché?
AZ Credo che oggi sia diffuso il consenso sul fatto che la nostra società debba ridurre la quantità di elementi nocivi presenti nell’ambiente: piuttosto di lavorare a valle per sanzionare e bonificare, sembrerebbe più sensato agire a monte, per limitare o impedire il rilascio di sostanze tossiche. E in effetti, dopo qualche timido passo, il principio di precauzione ha ottenuto un certo riconoscimento ufficiale. Significa dipendere meno dal giudizio di esperti e più dalla deliberazione democratica su come gestire le minacce di inquinamento, sgomberando dal campo l’idea che la valutazione del rischio sia competenza esclusiva di analisti del calcolo costi/benefici. La scienza antidemocratica sostiene che le questioni tecniche devono essere affrontate solo da esperti. Democratizzare la scienza significa includere i cittadini nel processo scientifico rafforzando così il diritto a un’esistenza sicura e giusta.
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