Cina alla conquista degli oceani – Ae 52
L’80% delle merci viaggia sul mare. E da quando la Cina è entrata nel Wto i suoi porti attirano una fetta sempre maggiore di traffico marittimo tanto che, l’anno scorso, il commercio estero cinese è aumentato del 30%. Risultato: le imbarcazioni scarseggiano e i prezzi per prenderle a nolo sono andati alle stelle. E la Repubblica popolare ora ha un obiettivo ambizioso: diventare il primo Paese nel mondo dello shipping
La tempesta del made in China che si è abbattuta sull’Italia e sull’Europa, spingendo alla deriva molte industrie, non si è infranta sui trasporti marittimi. Anzi, è una forte vento di poppa quello che sta soffiando nelle vele degli armatori, che negli ultimi anni hanno registrato fatturati record. L’80% delle merci viaggia sul mare. Le maggiori rotte collegano i Paesi del Nord del mondo: la rotta transpacifica collega l’estremo oriente con gli Stati Uniti, quella transatlantica l’Europa con gli Stati Uniti e quella del Far East l’Europa con l’estremo Oriente. Negli ultimi anni, però, da quando cioè la Cina è entrata nel Wto, il traffico marittimo si è fortemente concentrato sui porti cinesi. Solo l’anno scorso il commercio estero della Cina è cresciuto del 30% e i trasporti via mare si sono talmente intensificati che le navi non bastano più.
Il boom a livello mondiale riguarda sia il settore dei trasporti delle “rinfuse liquide” (petrolio, gas) e solide (materie prime, rottami di ferro, cereali) che quello dei container. Il traffico delle navi dry bulk -come vengono comunemente chiamate in inglese le navi portarinfuse solide- ha raggiunto il 63% del totale della merce trasportata via mare e i prezzi giornalieri per una nave sono cresciuti negli ultimi 12-18 mesi del 150%. Nello stesso periodo il traffico delle navi portacontainer è aumentato dell’8% (i noli sono cresciuti del 20%) e si avvia ad essere il segmento più importante nel settore dei trasporti internazionali (vedi box).
Le navi mancano perché le esportazioni dalla Cina sono cresciute: “C’è, infatti, una fortissima asimmetria: le navi arrivano cariche dalla Cina e dai Paesi asiatici, ma ripartono mezze vuote”, dice Giuliano Gallanti, fino a pochi mesi fa presidente dell’autorità portuale di Genova. Ma mancano anche perché negli ultimi anni le compagnie di navigazione hanno ridotto le loro flotte, preferendo noleggiarle dagli armatori. La quota di navi di proprietà delle venti più grandi compagnie del mondo è scesa dall’85% nel 1992 al 52% nel 2002, mentre la loro flotta charter è salita dal 15% al 48%. Il motivo è che la nave è un altissimo capitale immobilizzato e il noleggio permette una maggiore flessibilità nei picchi stagionali. La Mediterranean Shipping Company, la seconda compagnia di navigazione al mondo e di proprietà di un armatore italiano, è un chiaro esempio di questa tendenza: in dieci anni i noleggi sono passati dal 16% al 51% della flotta.
La scarsità di navi è un’emergenza e nei cantieri di tutto il mondo se ne costruiscono febbrilmente di nuove: oggi gli ordini per la costruzione di navi portacontainer sono pari al 37% della flotta in esercizio. Ed è ancora Pechino a condurre la regata: durante l’ultimo convegno degli armatori tedeschi, lo scorso marzo, è stata espressa forte preoccupazione per il ruolo della Cina nella cantieristica del prossimo futuro. La Germania, infatti, è oggi, dopo Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti e Polonia, la nazione dove vengono costruite più navi merci, ma già oggi non riesce più a competere con i prezzi cinesi. Oltretutto, a seguito della delocalizzazione della produzione, gli armatori cinesi hanno assorbito la tecnologia tedesca, e le loro navi non hanno più nulla da invidiare alle gemelle europee.
La Cina ha già annunciato di volere diventare in cinque anni il primo Paese al mondo nella produzione di navi merci: portacontainer sempre più grandi, capaci di trasportare fino a diecimila Teu (unità di misura pari a un container da 20 piedi), come chiedono le compagnie di navigazione per abbattere i costi e essere più competitive.
Questi giganti dei mari, però, stanno creando non pochi problemi ai porti che devono attrezzarsi per rendere più profondi e larghi i canali di entrata, costruire nuovi terminal con sufficiente profondità e ampiezza delle banchine. In Europa, il problema è particolarmente urgente nei Paesi del Nord, dove molti porti sono fluviali. Per tornare alla Germania, il porto di Amburgo potrebbe essere presto scavalcato dal vicino porto di Wilhemshafen, dove si sta dragando il fondale per fare attraccare, a partire dal 2007, navi profonde 16,5 metri. Secondo gli ambientalisti, questi mega porti distruggono l’habitat naturale e in Gran Bretagna sono insorti contro il progetto della Associated British Ports (la società che gestisce i terminal inglesi) per ingrandire il porto di Southampton, uno dei maggiori porti-container del Paese per fare attraccare le grandi navi della compagnia di navigazione danese Dfts.
Già, perché le compagnie esercitano una pressione altissima sui porti, ponendoli in competizione tra loro e fanno presto a cambiare sponda se le loro richieste non vengono esaudite, o addirittura a costruirsi i loro porti come ha fatto il colosso danese A.P. Moller, holding del gruppo Maersk-Sealand, che si è permesso di rompere i legami con il porto di Singapore, il più grande porto del mondo, e se n’è costruito uno tutto suo proprio di fronte, sull’isola Tanjung Pelepas in Malesia. Da anni è in corso una profonda ristrutturazione dei porti e numerosi sono stati già privatizzati. Spesso sono le stesse compagnie di navigazione ad acquistare i terminal portuali come è avvenuto a Taranto dove chi comanda è la taiwanese Evergreen o a Cagliari dove è attiva l’anglo-olandese P&O Nedlloyd, oppure i grandi gruppi di gestione portuale, come la Psa di Singapore, proprietaria del porto di Genova Voltri, o la tedesca Eurokai-Eurogate che controlla i porti di La Spezia e Gioia Tauro, di cui è entrata in possesso acquistando la compagnia di navigazione Contship Italia. Inaugurato nel 1996 Gioia Tauro è oggi il primo porto del mediterraneo, anzi un hub, un porto di trasbordo, simile a quelli utilizzati dagli aerei, dove le navi cargo vengono scaricate e i container ripartono su navi più piccole, i feeder, alla volta dei porti italiani, europei e nordafricani. In pratica è un grande parcheggio di container provenienti da tutto il mondo e questo spiega perché l’indotto produttivo per la città e la gente del posto sia stato così marginale.
Con l’ingresso della Cina nel Wto, le multinazionali del mare hanno calato l’ancora nelle acque cinesi e oggi quasi tutti i terminal container dei maggiori porti sono delle joint venture tra le autorità portuali locali e le società di gestione portuale internazionale: il colosso Hutchinson Port Holding, di Hong Kong ha investito nello Shangai container terminal, il porto più grande del Paese e dal quale transitano 100 milioni di tonnellate di merci l’anno, la Psa di Singapore nel porto di Guangzhou, mentre la P&O Port in quello di Qingdao. Anche le compagnie di navigazione hanno fatto rotta verso la Cina: la AP Moller e la P&O si sono unite alla China Ocean Shipping Company (Cosco), la prima compagnia di navigazione cinese, per costruire un porto container a Qingdao nella Cina nordorientale e creare così la rotta più veloce verso l’Europa.
Lo sviluppo della Cina è legato a doppio filo al suo commercio internazionale e al suo sbocco sul mare: da anni il governo investe nel potenziamento dei porti e oggi il 90% dei prodotti destinati all’estero viene imbarcato sulle navi. Negli ultimi dieci anni il settore marittimo è cresciuto così velocemente, da superare persino la crescita del Pil e l’obiettivo -annunciato- del governo è quello di diventare il primo Paese nel mondo dello shipping.
L’Africa vittima del multimodale
La crescita del trasporto multimodale basato sui container sta penalizzando fortemente i Paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli africani. Il commercio estero di questi Paesi, già ostacolato da dazi, quote e tariffe deve fare i conti anche con la logistica e i trasporti. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) il costo del trasporto delle merci dai Paesi del Sud è in media due o tre volte superiore alle tasse doganali nei Paesi di sbocco e, di conseguenza, rappresenta il più grande ostacolo per l’accesso sul mercato internazionale. Sul costo influisce la mancanza di infrastrutture interne, l’arretratezza dei porti e il monopolio di alcune compagnie di navigazione. La flotta di navi che battono bandiere africane rappresenta appena lo 0,6% del tonnellaggio mondiale. Il traffico marittimo è controllato dalla grandi compagnie di navigazione che si sono spartite le coste del continente nero anche se poi si sono concentrate prevalentemente sulle sponde dell’Africa Occidentale, come hanno fatto la francese Bollore e la danese Ap Moller.
Da alcuni anni la Banca mondiale “consiglia” ai governi dei Paesi africani di privatizzare i propri porti: una manovra che rischia di consegnare anche questo snodo cruciale dell’economia in mani straniere.
Nolo, quanto mi costi. Tutte le voci dal “Caf” al “Fob”
Di quali voci è costituito un nolo marittimo? A guardare bene, le sue componenti (ovvero quanto occorre pagare alle compagnie di navigazione per trasportare un container) sono le più svariate.
Accanto al nolo marittimo vero e proprio, l’ocean freight, vi è una miriade di spese addizionali la cui somma spesso supera il nolo stesso. Le più comuni hanno acronimi bizzarri, come il Baf (bunker additional factor) che copre il prezzo del carburante, il Caf (currency adjustment factor) che copre le variazioni di cambio del dollaro, il Cuc (container unbalance charge) che copre il riposizionamento del container utilizzato, e così via. Nolo più spese addizionali rappresentano solo la parte marittima del costo di trasporto, ma dato che il container è stato creato per il trasporto door to door, ecco che vanno aggiunti anche i costi Fob (free on board) ovvero tutte le spese che precedono il carico a bordo, nonché quelle per l’inoltro alla destinazione finale.
Fra le prime, ci sono le spese di trasporto su camion o treno fino al porto, quelle legate al terminal come le Thc (terminal handling charges) per il carico del container a bordo, e quelle di dogana.
Tra le seconde ci sono le spese di sbarco -Cyc (container yard charges) e le Owc (on wheel charges) per il trasbordo su treno o camion.
Il 90% del traffico in mano a un pugno di compagnie
Nel mare dei trasporti ci sono pochi pesci e grandi predatori: le prime venti compagnie di navigazione controllano il 90% dei traffici marittimi. La competizione internazionale ha spinto i grandi gruppi a unirsi in consorzi e alleanze per gestire, spesso in modo oligopolistico, le tratte marittime. Queste grandi società sono attive in tutte le principali rotte di traffico e offrono un servizio globale alle aziende che esportano in tutto il mondo. Recentemente l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (Oecd) ha accusato le multinazionali dei mari di creare dei cartelli sui noli tramite, per esempio, l’introduzione simultanea di rincari.
Le principali compagnie di navigazione sono la danese Ap Moller (Maersk-Sealand), la svizzera Mediterranean Shipping Company, la anglodanese P&O Nedlloyd e la taiwanese Evergreen. A queste vanno aggiunti i due colossi cinesi: Cosco, una delle più importanti aziende del Paese con interessi nella cantieristica, la fabbricazione di container, la gestione di terminal portuali, ma anche nella finanza, l’edilizia e le infrastrutture. L’altra grande realtà armatoriale cinese è rappresentata dalla China Shipping Company Line, che in pochi anni si è affermata prepotentemente sulla scena mondiale e lo scorso 16 giugno ha fatto ingresso alla borsa di Hong Kong, puntando a diventare la sesta compagnia di navigazione al mondo entro il 2007.
Bandiere ombra e vecchie carrette
Per secoli i mari sono stati dominati dalle flotte europee, in particolare quella inglese, olandese e spagnola; oggi sono le bandiere ombra a dominare la scena mondiale. Panama, Liberia, Cipro e Bahamas sono le principali nazioni che “prestano” la loro bandiera di comodo coprendo armatori stranieri (in gran parte del settore delle petroliere): meno tasse e controlli, più libertà di circolazione e più incidenti.
Le navi con bandiere di comodo sono spesso vecchie carrette: l’età media delle navi immatricolate ad Antigua è di 17 anni, 21 anni per quelle di Saint-Vincent e Grenadine e 22 anni per quelle delle isole Cayman.
Oggi le sei principali bandiere ombra rappresentano oltre il 47% della flotta mondiale. Questi Paesi non hanno ratificato le convenzioni sulla tutela dei diritti del personale navigante e sempre più marinai lavorano in condizioni di sfruttamento.
Sulle navi merci, soprattutto marinai dall’Asia o dall’America Latina si accontentano di vitto e alloggio, o di una paga miserrima, pur di prendere l’abbrivio per una vita migliore.
La rivoluzione viaggia in scatola
Il mondo in una scatola. Il container è il protagonista indiscusso del commercio internazionale del nostro secolo. Non solo le merci a più alto valore ma persino le granaglie, come il mais o il frumento, viaggiano stipate dentro a questi contenitori metallici che hanno rivoluzionato il settore della logistica e dei trasporti. I container hanno dimensioni unificate in tutto il mondo (il Teu, Twentyfoot Equivalent Unit, in inglese il container da 20 piedi, un parallelepipedo lungo sei metri, alto e largo 2,40 metri, che può contenere, per esempio, 250 monitor per Pc o 18 tonnellate di piastrelle) e possono viaggiare su strada, ferrovia e nave con il vantaggio di accelerare le operazioni di carico e scarico delle merci, riducendo i tempi e abbassando il costo finale del trasporto.
Oggi le aziende richiedono sempre di più un servizio door-to-door, ovvero il trasporto della merce direttamente dallo stabilimento al cliente senza manipolazioni e passaggi intermedi, possibile proprio grazie al container. Questo spiega perché il traffico contenitori è in forte aumento: Hong Kong e Singapore, due dei più grandi porti del mondo, prevedono di arrivare nel 2010 a movimentare 30 milioni di Teu ciascuno, con un tasso di crescita annuo del 9,5%.
Di fronte a questa tendenza c’è sempre più bisogno di container, la cui produzione è in mano alla Cina, che da sola copre l’87% dell’offerta mondiale. Per ridurre i costi (il prezzo di un container standard si aggira sui 2.300 euro) ed essere più flessibili, le compagnie di navigazione, sempre più ricorrono al noleggio di container da società specializzate, tra le quali una delle maggiori è la GE SeaCo, società del gruppo multinazionale General Electric.
Il futuro? Autostrade del mare. Ma mancano ancora infrastrutture adeguate
Il mare è un’ancora di salvezza per le montagne. Il traffico che congestiona le Alpi e i Pirenei potrebbe venire deviato, tra qualche anno, sulle “autostrade del mare”, la rete di collegamenti tra Paesi europei che sfrutta le navi invece del trasporto su gomma. Sono anni che si lavora a questo progetto, ma forse oggi c’è qualche speranza in più, perché la Commissione europea ha stanziato 1,8 miliardi di euro.
Le previsioni sono per un aumento dei traffici su strade e autostrade europee (+50% fino al 2010) e il trasporto marittimo a corto raggio rappresenta una alternativa di mobilità competitiva e sostenibile. In Italia sul totale di 60 milioni di tonnellate di merci trasportate ogni anno su distanze superiori a 500 chilometri, solo il 5% utilizza il mare. Le cause sono molteplici (interessi economici, inghippi politici), ma se ci concentriamo sugli aspetti tecnici, i problemi riguardano soprattutto la mancanza di infrastrutture dedicate: aree portuali con parcheggi per i Tir e raccordi autostradali, traghetti speciali per il carico dei rimorchi -senza la motrice- per ottimizzare lo spazio nella stiva. Oggi le navi viaggiano cariche solo a metà: ogni anno vengono imbarcati 650 mila autotreni e basterebbe razionalizzare le stive per aumentare sensibilmente questa cifra.
Se è vero che la percentuale del trasporto via mare è ancora troppo esigua, la tendenza è in aumento, grazie a un maggior numero di partenze e di destinazioni: negli ultimi quattro anni sono cresciute le linee mediterranee e i collegamenti con le grandi isole (+131% quelli per la Sicilia e +45% quelli per la Sardegna). Il vantaggio del trasporto marittimo deve essere percepito innanzitutto dall’autotrasportatore: l’introduzione della patente a punti, che penalizza la guida protratta per molte ore e di un eco-ticket (ancora allo studio) e che prevede lo sconto fino al 30% sul prezzo del biglietto del traghetto, potrebbero essere un incentivo per utilizzare le navi.
L’implementazione del progetto europeo delle “autostrade del mare” è stata affidata, nel nostro Paese, a una Spa, la Rete autostrade mediterranee (un milione di capitale sociale), appositamente creata dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e controllata da Sviluppo Italia (la ex cassa del Mezzogiorno); alla scadenza del progetto, prevista nel 2007, la speranza è che i tir- finalmente- cavalchino le onde dei nostri mari.
E il Tir in acqua arriva prima
Tir contro tir. Per dimostrare che un mezzo su gomma impiega più tempo sulla rete stradale piuttosto che su una nave traghetto, recentemente è stata organizzata una sfida tra due tir identici per lunghezza e carico sulla tratta Livorno-Palermo: mentre uno si è imbarcato su un traghetto di linea nel porto di Livorno, l’altro ha imboccato la rete stradale compiendo una sosta in Calabria e ha attraversato lo stretto di Messina. La distanza per raggiungere il capoluogo siciliano era di 1.260 chilometri via terra e di 350 miglia nautiche via mare. Il traguardo nel capoluogo siciliano è stato tagliato per primo (e con quattro ore di vantaggio) dal tir che ha viaggiato sull’autostrada del mare. Il guidatore è arrivato riposato e ha speso 600 euro contro i 1.200 euro spesi dal concorrente tra benzina e autostrada.