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Chiodo scaccia chiodo. Ma non dimenticate Sarajevo – Ae 28

Numero 28, maggio 2002Chiodo scaccia chiodo”, dice un antico proverbio. “Guerra scaccia guerra”, ci dice l'esperienza di quest'ultimo decennio. Ed ogni guerra diventa più cruenta, più assurda, più insopportabile. I morti, le stragi, le distruzioni si sommano, le une sulle…

Tratto da Altreconomia 28 — Maggio 2002

Numero 28, maggio 2002

Chiodo scaccia chiodo”, dice un antico proverbio. “Guerra scaccia guerra”, ci dice l'esperienza di quest'ultimo decennio. Ed ogni guerra diventa più cruenta, più assurda, più insopportabile. I morti, le stragi, le distruzioni si sommano, le une sulle altre, come cadaveri in una fossa comune. E la memoria di queste stragi, di questi morti, viene letteralmente affossata per dare spazio ad altri cadaveri di civili innocenti, di militari in divisa, di donne, bambini, anziani.

Questo è il senso e la direzione della storia umana dopo la caduta del muro di Berlino, la fine della contrapposizione tra due blocchi? Molti avevano sperato che la fine del pericolo “rosso” avrebbe portato un lungo periodo di tranquillità, che i dividendi della pace, cioè la fine della corsa agli armamenti, si sarebbe tradotta in più fondi per lo sviluppo locale, per i bisogni primari nei vari Paesi del Sud del mondo. Ma il sogno è durato poco: il 15 gennaio del 1991 iniziava una nuova guerra spettacolare, la guerra del Golfo, che fu definita, con grande fantasia, operazione di polizia internazionale. Un anno dopo, il 6 aprile del 1992, la prima granata cadeva su Sarajevo, ed iniziava una delle più atroci guerre etniche della nostra storia recente. La guerra di Bosnia ha prodotto 200.000 morti, più di un milione di feriti e di profughi. Dal '92 al '95 abbiamo assistito a tre anni di guerra in cui si sono scatenati gli istinti più bestiali, in cui è tornato, nel cuore dell'Europa, l'uso dello stupro e della violenza gratuita e sadica su donne e bambini, in cui la gente è stata divisa, discriminata e massacrata in base a presunte origini etniche e religiose.

A Sarajevo, a dieci anni esatti dall'inizio di quella guerra maledetta, è stato lanciato l'appello “L'Europa oltre i confini: per l'integrazione dei Balcani nell'Unione Europea”. L'incontro, organizzato dall'Osservatorio permanente sui Balcani di Trento (www.osservatoriobalcani.org) e dal Consorzio Italiano di Solidarietà, ha visto la partecipazione di decine di rappresentanti di ong italiane e balcaniche, nonché una vasta presenza di rappresentanti di enti locali.

Un momento di grande emozione è stato segnato dall'intervento di Romano Prodi, presidente della Commissione Europea. Prodi ha fatto un discorso molto serio, raro in questi tempi di marketing politico e di telepromozioni di aria fritta e companatico. Rispondendo alle richieste avanzate dall'Osservatorio dei Balcani di Trento, e letta dal giovane coordinatore Mauro Cereghini, Prodi ha sviluppato un discorso di strategia per l'integrazione dei Balcani in Europa. Al primo punto ha posto lo stop a qualunque modificazione nei confini, come precondizione per costruire una pace duratura e la prospettiva dell'entrata nell'Unione Europea.

Traduzione: il Kossovo resterà congelato com'è, gli albanesi di Macedonia si possono scordare di dividere la piccola repubblica su basi etniche, il Montenegro dovrà restare nella Federazione Jugoslava. Potrebbe apparire una presa di posizione autoritaria e giacobina, ma non vediamo altra strada per fare uscire i popoli balcanici dal baratro in cui sono caduti.

Basta con i mini-Stati, con le repubblichine etniche, che hanno portato solo lutti e miseria in tutti i Balcani. Anzi, nella strategia indicata dall'Osservatorio e valutata positivamente da Romano Prodi, bisogna lavorare per ridurre il potere degli Stati, rafforzare i poteri locali e andare nella direzione dell'integrazione europea, cioè di un'entità superiore a quella nazionale, di un'Europa delle minoranze, come ha ribadito il presidente della Commissione Europea. È una strategia della “diluizione del male”, di quel cancro che è il nazionalismo colorato etnicamente, che cova ancora e soffia con forza nei mini-Stati bosniaci costruiti, su base etnica, dagli accordi di Dayton. Dare ai popoli balcanici la prospettiva della cittadinanza europea, significa farli uscire dalle gabbie dove sono stati chiusi dalle élite nazionali, con il consenso delle grandi potenze e dalla nuova borghesia criminale che domina questi mini-Stati.

Non sarà un cammino facile. Prodi non ha avuto il coraggio di indicare una scadenza, come era stato richiesto dall'Osservatorio sui Balcani, che aveva proposto l'obiettivo dell'entrata dei Paesi balcanici in Europa entro il 2010. Ma ha indicato una serie di tappe per arrivare a questo obiettivo. Non ha nascosto le difficoltà e le resistenze per la prima fase dell'allargamento dell'Unione Europea che avverrà, quando entreranno Polonia, Ungheria, Estonia, Repubblica Ceca, Slovenia. Ma un fatto è certo: il presidente della Commissione Europea ha chiaramente detto che l'obiettivo dell'entrata dei Balcani nell'Unione Europea è fondamentale per la stabilità dei Balcani quanto per l'Europa, è un atto dovuto rispetto a popolazioni che hanno fatto parte della storia europea fin dall'epoca carolingia.

Fuori dal Parlamento bosniaco, tra la gente infreddolita dal ritorno dell'inverno, questo evento è stato visto con scarso entusiasmo, con un diffuso scetticismo. Oggi, l'obiettivo della cittadinanza europea appare una chimera a chi è costretto a fare carte false, a rischiare la vita per arrivare in Europa. La questione dei visti, vale a dire l'esclusione e la discriminazione per i popoli balcanici, è una realtà pesante che impedisce di immaginare un'alternativa. Una realtà che in Bosnia si fa ogni giorno più pesante.

Gli Stati etnicamente ripuliti, che sono il risultato degli accordi di Dayton, sono dominati da élite criminali che ricavano il massimo del loro profitto personale da questa situazione.

Le economie locali sono ormai distrutte, la quasi totalità delle attività produttive sono state chiuse, e la sopravvivenza è legata alla circolazione delle merci e quindi al flusso degli aiuti ed alla spesa dei soldati della Kfor, la .Gli unici investimenti sono quelli realizzati dai signori della guerra che costruiscono giganteschi supermercati, centri commerciali, che hanno dato un colpo definitivo ai piccoli commerci locali. Gli artisti, gli intellettuali, i ricercatori sono in gran parte fuggiti e nelle Università è passata una linea culturale fondata sui principi del razzismo e dell'integralismo più odioso.

Per fare un esempio, l'insegnamento di Sociologia generale nell'Università di Sarajevo ha adottato tre libri di testo: il primo si riferisce al pensiero di un filosofo arabo del '700, il secondo è un manuale sulla strategia di sterminio perpetrata dai serbi, il terzo una sorta di manuale di “biosociologia ” in versione lombrosiana, dove si insegna a distinguere il croato, dal serbo, dal bosniaco-musulmano, in base a determinati caratteri fisici. Per non parlare dei libri di storia, che fin dalla scuola elementare sono un concentrato di fanatismo e falsità che farebbe arrossire l'onorevole Storace, noto sostenitore della rilettura nazifascista della nostra storia.

Cosa ha fatto finora la Comunità internazionale, le stesse Ong, oltre a distribuire aiuti e tenere corsi sulla democrazia? Non sono i libri e la cultura più importanti di qualche strada o palazzo ricostruito?

Sarajevo è una città con troppe ferite, con troppi ricordi che pesano come le sue montagne che la stringono e l'hanno stritolata per tre anni.

Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani, come è stata definita durante questo incontro, attende segnali di speranza, forze esterne che l'aiutino a risollevarsi. Inseguendo il ciclo politico-militare delle guerre infinite ci siamo dimenticati che nei Balcani la guerra, ed i suoi effetti, non sono mai scomparsi. Che quella di Dayton non è la pace, ma al massimo una tregua, meglio ancora una “pax mafiosa”. È come se la Repubblica indipendente della Provincia di Palermo fosse governata da Totò Riina, quella di Catania dal clan dei Santapaola, quella di Gioia Tauro dalla famiglia Pesce. Non è una esagerazione. È la realtà della Bosnia di oggi e di gran parte dei Balcani. Una situazione che va incancrenendosi, che potrebbe esplodere da un momento all'altro se non si rilancia la cooperazione popolare e decentrata, il sostegno delle forze autenticamente democratiche, delle minoranze che resistono alla barbarie imperante.

Per questo è fondamentale uscire dalla logica dell'emergenza che brucia la memoria, che impedisce di costruire la pace. Inseguendo una guerra dopo l'altra, si lasciano solo macerie sul campo, odio e rancore che nel tempo porteranno ad altre guerre.

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Sei anni fa la pace di Dayton, e la Bosnia cessò di essere una sola
L'accordo di Dayton, nell'Ohio, mise fine a tre anno e mezzo di guerra in Bosnia. Venne firmato dal serbo Slobodan Milosevic (oggi sotto processo alla Corte penale internazionale dell'Aja), dal croato Franjo Tujiman, dal bosniaco Alija Izetbegovic e dall'americano Warren Christopher il 21 novembre 1995. Gli accordi stabilirono la costituzione di uno Stato chiamato Bosnia Erzegovina, suddiviso in due entità politiche e territoriali, separate su basi etniche e indipendenti tra loro. Si tratta della Federazione Bosnia Herzegovina, che ricopre il 51% del territorio, in cui vivono croati e musulmani, e la Republika Srpska, 49% del territorio, assegnato all'etnia serba. La scelta di affidare ai serbi (considerati gli aggressori durante la guerra) un territorio così vasto suscitò perplessità e proteste. Alla presidenza collegiale del Paese, che ha potere su un ristretto numero di questioni, siedono un serbo, un croato e un musulmano. A turno, ogni otto mesi, si alternano alla carica di primus inter pares. Sull'applicazione degli accordi vigila un apposito Ufficio di Alta rappresentanza (informazioni sul sito www.ohr.int). L'Alto rappresentante (attualmente l'austriaco Wolfang Petritsch) può destituire e interdire i funzionari pubblici che ostacolano l'accordo di pace. Il Primo ministro del Paese deve essere sempre di etnia diversa rispetto al primus in carica fra i tre presidenti.

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