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Inchiesta

Chi parla, rischia

Il “caso Snowden” non ha smosso il legislatore, almeno in Italia. Nemmeno il provvedimento approvato il 21 gennaio dalla Camera dei Deputati tutela le segnalazioni anonime, anzi: ha stralciato le denunce di "abusi" ed eliminato ogni forma di premialità (o rimborso con parte delle somme recuperate). E chi discrimina il "segnalante" per punirlo rischia una sanzione (minima) di 30mila euro

Tratto da Altreconomia 178 — Gennaio 2016

Il 27 novembre 2015 Hervé Falciani -ingegnere informatico franco-italiano che in passato aveva lavorato per le banche Hsbc e Ubs- è stato condannato dal Tribunale penale federale di Bellinzona a cinque anni di prigione per spionaggio economico e industriale: nel 2009, aveva rivelato informazioni riservate su 130mila potenziali evasori fiscali con depositi nella Confederazione elvetica.
Edward Snowden
, informatico statunitense, è accusato dal governo degli Stati Uniti di furto di proprietà dell’Esecutivo, comunicazione non autorizzata di informazioni della Difesa nazionale e comunicazione volontaria di informazioni segrete con una persona non autorizzata: nel giugno del 2013 aveva rivelato i programmi di sorveglianza di massa portati avanti dalla National Security Agency, per cui lavorava come consulente per conto della Booz Allen Hamilton. Chelsea Elizabeth Manning è una militare USA (all’epoca era Bradley) che dall’agosto 2013 sta scontando una condanna a 35 anni di reclusione  per aver diffuso notizie coperte da segreto all’organizzazione Wikileaks. Per il suo coraggio è stata candidata tre volte al premio Nobel per la Pace (2011, 2012, 2014), senza successo.

Snowden, Falciani, Manning, pur con le profonde differenze di contesto, professione, motivazione politica, effetti raggiunti, o ambizioni personali,  hanno “soffiato nel fischietto”, attirando l’attenzione mediatica su fatti che avevano ritenuto abusi, e talvolta illeciti. Sono dei “whistleblowers”, termine che la lingua italiana non riesce a tradurre, se non con la locuzione “chi spiffera”. In Europa è merce rara: secondo un report del 2014 curato da Eurobarometro sulla corruzione, infatti, il 74% degli europei entrati in contatto con fenomeni corruttivi non ha sporto alcuna denuncia. Secondo il network internazionale anticorruzione Transparency International (TI) www.transparency.it-, tutto ciò è dovuto a una scarsa protezione dei segnalanti, diffusa in diversi Paesi europei e non solo.

Oltre a TI, tra gli organismi internazionali deputati a monitorare tutele e delle garanzie messe in campo dai Paesi -europei e non-, vi sono rispettivamente il GRECO (Groupe d’Etats contre la corruption), che è un organo del Consiglio d’Europa, l’Anti-corruption working group in seno al G-20, e il Working group on bribery, chiamato ad attuare una convenzione anticorruzione dell’OCSE del 1997.
L’attività di quest’ultimo trova sbocco nei report che dedica a ciascun Paese, contenenti stato dell’arte, raccomandazioni e “buone pratiche”. È il caso dell’Austria: fin dal marzo 2013, infatti, il Paese ha predisposto e sperimentato per due anni una piattaforma online anonima attraverso la quale i “whistleblowers” possono mettersi in diretto contatto con il “Public Prosecutors Office”, avendo la certezza che il proprio indirizzo IP (l’idendità in rete) non sia rintracciabile. Ancora indietro risulta invece la Spagna: nel marzo 2015, l’OCSE le ha contestato la “non implementazione” di una normativa capace di evitare discriminazioni o azioni disciplinari per dipendenti-segnalanti pubblici e privati. Anche la Germania non rappresenta un modello: seppur “raccomandato”, il rapporto scritto richiesto dall’OCSE in tema di salvaguardia dei “soffiatori nel fischietto” è rimasto lettera morta.

Chi si è dotato invece di una specifica legislazione a protezione dei segnalananti sono stati il Giappone (il Japan’s Whistleblower Protection Act del 2004), il Canada (il Protected Disclosures Act del 2000), il Regno Unito (il Public Interest Disclosure Act del 1998), che rappresentano i “modelli”  delle linee guida del gruppo di lavoro anticorruzione del G-20. Esempi che, in certi casi, proteggono fino in fondo l’anonimato del segnalante: fattispecie non così frequente, come hanno notato gli autori del rapporto che ha raccolto nel 2012 le “best practices”, perché dipendente dal “contesto culturale” che talvolta “percepisce negativamente il whistleblower”. È il caso dell’Italia, dove quest’ultimo è erroneamente affiancato al “delatore”. In realtà, “chi per lucro, per vendetta personale, per servilismo verso chi comanda o per altri motivi, denuncia segretamente qualcuno presso un’autorità giudiziaria o politica, soprattutto qualora eserciti abitualmente tale attività” (questa la definizione di delatore della Treccani), non c’entra nulla con il “segnalante”.
Ma se il ritardo del vocabolario è accettabile, lo è meno quello accumulato dal legislatore nazionale, il quale, nonostante i celebri casi di cronaca brevemente ricordati, non è stato ancora in grado di istituire per legge un efficace sistema di tutela per gli autori di segnalazioni di reati o irregolarità nell’interesse pubblico (i “whistleblowers”, appunto).

Il primo tentativo di introdurre nel nostro ordinamento una generale disciplina di “protezione” per il dipendente è avvenuto nel 2012, attraverso una legge intestata all’allora ministro della Giustizia, Paola Severino. La “Severino” era andata a riformare un articolo del Testo unico del pubblico impiego (il 54-bis di un decreto legislativo del lontano 2001) prevedendo che il “pubblico dipendente” che avesse denunciato “condotte illecite” non poteva “essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria”. Nell’aprile del 2015 -a “caso Snowden” ampiamente deflagrato- l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) presieduta da Raffaele Cantone pubblica le proprie “Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)”. Lo fa per un motivo molto semplice: la normativa vigente -e cioè la legge Severino del 2012- produce “incertezza”, è “lacunosa”, in alcune sue parti “generica”, del tutto sprovvista di una tutela dei “dipendenti che segnalano condotte illecite negli enti di diritto privato in controllo pubblico  (ad esempio SOGIN Spa, Società gestione impianti nucleari, ndr) e negli enti pubblici economici (ad esempio la SIAE, ndr)”. Un “vuoto normativo” che ha spinto -nell’aprile 2015- l’Autorità di Cantone ad augurarsi venisse “colmato”.

Da qui, dopo un primo tentativo nel settembre 2013, è nata una proposta di legge presentata nella metà del mese di ottobre dello scorso anno da quattro deputati del Movimento 5 Stelle, guidati da Francesca Businarolo che ne era relatrice per la commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Il testo era stato elaborato raccogliendo le raccomandazioni e i suggerimenti della rappresentanza italiana di Transparency International (www.transparency.it), che si possono riassumere in 4 punti fondamentali: la confidenzialità e l’anonimato del segnalante devono essere assolutamente tutelati, gli strumenti a disposizione di chi “soffia nel fischietto” devono essere facilmente accessibili e sicuri, a supporto di chi ha perso il lavoro o subito ritorsioni a seguito di segnalazioni puntuali va predisposto un “fondo di sostegno”. L’ultimo aspetto fondamentale è quello per cui le norme di tutela valgano in ugual misura sia per il settore pubblico sia per quello privato. Senza discriminazioni di alcuna natura. Nella “proposta Businarolo”, inoltre, era stato indicato anche un “premio” per il segnalante, da stabilirsi in proporzione alla somma eventualmente recuperata dopo una condanna definitiva della Corte dei Conti.
Prima di approdare alla discussione parlamentare -alla fine dello scorso novembre-, il testo della legge viene però profondamente emendato in commissione. Tra gli scettici c’è Confindustria, che sentita in audizione il 29 ottobre 2015 lamenta un rischio per la “salvaguardia dell’autonomia degli operatori economici”.
Dunque, l’anonimato decade, lasciando il posto al “divieto di rivelare l’identità del segnalante” che però è derogabile. Anche la tutela in ambito privato viene ridimensionata, e demandata a modelli organizzativi facoltativi e sottoposti all’autoregolamentazione delle imprese. Eliminato è anche il premio, sostituito -al contrario- da una sanzione amministrativa pecuniaria in capo a chi dovesse perseguitare il segnalante (licenziandolo o discriminandolo) che va da 5mila a 30mila euro.

La proposta di legge che giunge in Parlamento viene così “indebolita nella sua efficacia”, come denuncia Transparency International Italia (TI).
Virginio Carnevali è il presidente del distaccamento italiano, che ogni biennio viene valutato dalla “casa madre” tedesca. L’elenco dei soci dell’associazione italiana non è pubblico (“Per questioni di privacy”, spiega Carnevali) e nella sezione “Aziende che sostengono Transparency International Italia” figurano tra gli altri Snam, Pirelli, Terna e Luxottica.  Per statuto, in ogni caso, i soci “sostenitori” di TI Italia non hanno diritto di voto in assemblea, e la quota di “Proventi da raccolta fondi” iscritta nel bilancio 2014 è comunque al di sotto del 10% di quanto raccolto attraverso i ricavi da progetti finanziati dalla Commissione europea. Una dimostrazione di terzietà e indipendenza secondo Carnevali, che rivendica due iniziative messe in campo da Transparency per sopperire alla lacuna normativa in tema di “whistleblowing”. “Dall’inizio del 2015 -racconta il presidente di TI- abbiamo lanciato la piattaforma online ALAC (allertaanticorruzione.transparency.it), tramite la quale è possibile far emergere i casi di corruzione e prestare assistenza a chi decide di segnalarli”. Al dicembre 2015 sono pervenute 124 segnalazioni, nel 65% dei casi in forma anonima e riguardanti in gran parte un’istituzione pubblica (nel 74% dei casi). È la risposta che -ad oggi- la normativa non è in grado di fornire. Anche a Milano, nell’aprile scorso, il Comune (che è socio di TI Italia) ha dato vita ad un canale di segnalazione, posto sotto il controllo di un comitato indipendente presieduto proprio da Carnevali. “Dal lancio del progetto abbiamo ricevuto 15 ‘avvisi’, anche se al momento non abbiamo riscontrato elementi da codice penale ma abbiamo potuto suggerire, grazie a queste segnalazioni, miglioramenti di procedure a favore di maggior trasparenza”.


Dunque che cosa è successo alla Camera dei Deputati il 21 gennaio?
Il testo contestato (anche da Transparency) è stato modificato, in alcuni punti anche pesantemente, e approvato a maggioranza ma non in senso favorevole per i segnalanti. Se è vero infatti che al concetto di "denuncia" è stato affiancato quello di "segnalazione" -per evitare di marchiare come delatore il "whistleblower"- è altrettanto vero che il provvedimento non concepisce più alcuna segnalazione di "abuso", ma solo di condotte "illecite". Un’interpretazione "chiusa" potrebbe quindi escludere condotte non caratterizzabili, insomma. Al contrario, le condotte "discriminatorie" perpetrate ai danni del segnalante sono diventate più circostanziate: licenziamento, demansionamento, trasferimento, "altre misure organizzative aventi effetti negativi, diretti o indiretti". Manca il mobbing, e più in generale un’apertura interpretativa che non pare esattamente a favore di chi si schiera contro il proprio datore di lavoro. Non è vero poi che la tutela riguardi anche il settore privato, nel quale, come descritto sopra, rimane tutto appeso a una facoltà, e non ad un obbligo. Non c’è poi alcuna introduzione della "crittografia", che già c’era nel testo, e tantomeno del concetto di "anonimato", come invece ha sostenuto qualche rappresentante istituzionale. Cancellata ogni forma di premialità per il dipendente "coraggioso", che il comma 9 del primo articolo del provvedimento aveva inteso riconoscere in "forme da definirsi in sede contrattuale". Chi riconoscerà spese e sforzi sostenuti dai denuncianti?

L’onorevole Businarolo, che ha lavorato per un miglioramento del testo, non nasconde ad Altreconomia la soddisfazione per la mediazione raggiunta, anche se riconosce contemporaneamente il bassissimo punto di partenza da cui tutto è dovuto ripartire. Un livello che ha viziato il testo approvato dalla Camera, che è tutto fuorché la tutela del "whistleblower". La parola passa quindi al Senato della Repubblica.

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