Chi mangia la terra – Ae 91
In quindici anni, in Italia, è stata cementificata una superficie pari a quelle del Lazio e dell’Abruzzo messe insieme. Colpa del boom del mattone e dei Comuni il cui bilancio dipende troppo dagli oneri di urbanizzazione.Ma attenzione: anche gli allevamenti…
In quindici anni, in Italia, è stata cementificata una superficie pari a quelle del Lazio e dell’Abruzzo messe insieme. Colpa del boom del mattone e dei Comuni il cui bilancio dipende troppo dagli oneri di urbanizzazione.
Ma attenzione: anche gli allevamenti intensivi tramutano in deserti i terreni fertili. Che non possono essere recuperati
Il deserto padano. Suona strano, vero? Suona ancora più strano che per una volta non c’entrino né la siccità né i cambiamenti climatici. C’entrano i mangiatori di terra, voraci consumatori di una risorsa di cui nessuno sembra preoccuparsi. Decine di centraline ci informano minuto per minuto del pessimo stato della nostra aria.
Il dibattito sulle energie alternative al petrolio segue le impennate del prezzo del barile. Ma avete mai sentito qualcuno allarmarsi per l’eccessivo consumo del suolo? Eppure è un bene comune limitato e difficilmente rinnovabile, che viene sprecato, proprio come l’acqua o l’energia, o inquinato, come l’aria. È un problema italiano e non solo, ma il luogo in cui emerge in tutta evidenza è il Nord Italia.
Osservando da un satellite, ha detto recentemente l’urbanista milanese Maria Cristina Treu, quello che si vede è “una megalopoli che occupa la fascia centrale delle aree di pianura da Torino a Trieste”.
In Cent’anni di solitudine la giovane Rebeca Buendía mangiava la terra per disperazione, “con un’avidità suicida, piangendo di dolore e di furia, masticando lombrichi teneri e scheggiandosi i denti su gusci di lumache”. Oggi le motivazioni sono meno poetiche e hanno a che fare essenzialmente con il soldo. I mangiatori di terra sono i piccoli comuni che elargiscono licenze edilizie a piene mani perché gli oneri di urbanizzazione e l’Ici, l’imposta comunale sugli immobili, sono i soli introiti che possono garantire la loro sopravvivenza. Sono gli amministratori pubblici che innescano la spirale “nuovo insediamento-nuova strada per raggiungerlo-nuovi insediamenti lungo la strada”. Mangiatore di terra è anche il sistema dell’allevamento intensivo che satura il suolo agricolo di nitrati, con il doppio effetto di impoverirlo e di inquinare l’acqua di falda (vedi articolo a pagina 11). Tra cemento e inquinamento, c’è chi comincia a evocare un arido futuro per la sempre meno verde Padania.
“Un’avidità suicida”, scriveva Márquez. Dal 1990 al 2005, in Italia sono stati cementificati 3 milioni 663.030 ettari di terreno, secondo i dati Istat. Vale a dire più delle superfici di Lazio e Abruzzo messe insieme. Il suolo libero è diminuito di oltre il 17 per cento. Un boom edilizio e infrastrutturale simile a quello del Dopoguerra, non giustificato, però, da alcun boom economico. Al contrario, proprio il declino produttivo ha rilanciato il mattone, eterno bene rifugio in tempi di magra e di incertezza, e ha riversato valanghe di soldi pubblici in cantieri di più o meno grandi opere: un caotico keynesismo del calcestruzzo. Il record spetta alla Liguria, dove in quindici anni la superficie di suolo non costruito si è quasi dimezzata (meno 45,55 per cento, su un territorio che era già tutt’altro che vergine). Segue, altrettanto inattesa, la Calabria (meno 26,13 per cento, senza contare le costruzioni abusive).
Le regioni padane sono ai primi posti per numero di ettari ceduti a edifici, strade e infrastrutture: oltre 370mila l’Emilia-Romagna, 308mila il Piemonte, 275mila la Lombardia, 153mila il Veneto. Vittorio Emiliani, giornalista, ex consigliere d’amministrazione della Rai oggi impegnato nei Comitati per la bellezza, ha portato questi dati a un recente convegno romano sul “paesaggio aggredito”: “Con i ritmi più recenti”, ha detto, “si può prevedere che in capo a pochi decenni intere regioni
-comprese la Toscana e il Lazio- saranno in pratica un deserto di asfalto e cemento”.
L’urbanista veneziano Pier Luigi Cervellati ha coniato una definizione geniale, che riassume in sé la fine della città e la fine della campagna: “villettopoli”. Tecnicamente si chiama sprawling, cioè spargimento abitativo: un numero sempre crescente di persone abbandona la città e va abitare in Comuni piccoli e piccolissimi, in cerca di case a minor prezzo e magari di una migliore qualità della vita. Villette a schiera e palazzine dall’intonaco luccicante punteggiano quelli che fino a pochi anni fa erano minuscoli insediamenti agricoli mezzi abbandonati. Intorno è tutto un fiorire di paradisi della scarpa e outlet della candela (ne esiste uno sul serio, vicino a Pisa). L’offerta di cemento è addirittura superiore alla domanda, perché per quei piccoli comuni ogni metro quadro realizzato è una manna in termini di entrate fiscali.
Le strade si intasano, così nasce la necessità di nuovi collegamenti, raddoppi, bretelle, svincoli. Ed è tutta terra che se ne va.
“In Lombardia ci sono 1.547 Comuni, il 94 per cento dei quali ha meno di 5mila abitanti, e sono proprio questi ad aver registrato il maggiore aumento della popolazione dal 2001 a oggi”, spiega Maria Cristina Treu, docente di progettazione urbanistica e vicepresidente della Fondazione Politecnico di Milano. “La fuga dalla metropoli è iniziata più di vent’anni fa. In una prima fase ha provocato l’espansione delle cittadine di qualche decina di migliaia di abitanti, oggi va a riempire i buchi rimasti nei centri più piccoli”. Un revival bucolico che ha le sue contraddizioni:
“Sul territorio si aprono nuovi conflitti, con gli ex cittadini che protestano per il rumore dei trattori o, come succede nel cremonese e nel mantovano, per la puzza dei maiali che il vento porta centinaia di metri lontano dagli allevamenti”.
I piccoli Comuni dovrebbero essere contenti di rifiorire, invece l’espansione diventa un problema. In Italia le imposte locali non si pagano a testa, ma a tetto. Non sono legate al reddito, ma al metro quadro occupato. Non derivano dal consumo di beni, ma dal consumo di terra. “L’unica fonte di reddito per queste amministrazioni sono gli oneri di urbanizzazione, sotto forma di servizi o opere di interesse collettivo, e l’Ici”, continua Maria Cristina Treu. “Tra l’altro l’Ici più proficua è quella che grava sugli immobili commerciali, perciò i comuni spalancano le braccia ai grandi centri per lo shopping, outlet e simili”. Avere un’Ikea sul proprio territorio è come vincere al Superenalotto. L’imposta sui fabbricati industriali è più ridotta, ma questo non ha impedito, specialmente ai tempi degli incentivi agli investimenti previsti dalla legge Tremonti bis, la corsa al capannone: “Per esempio viaggiando lungo la Paullese, a Ovest di Milano, se ne vedono moltissimi rimasti vuoti”.
I piccoli Comuni svendono suolo in cambio di tasse (fino al 50% del bilancio corrente di un Comune può dipendere dall’Ici) senza che alcun ente superiore abbia il reale potere di pianificare uno sviluppo del territorio più sensato. “Ognuno decide per sé e la valutazione di impatto ambientale delle nuove opere è considerata un orpello burocratico. Non c’è programmazione ma neppure cooperazione tra i Comuni vicini. L’unico criterio preso in considerazione è la rendita fondiaria.
Il mercato fondiario, però, non è come quello di qualsiasi altro prodotto, va regolato con dei paletti”.
L’Unione europea ha in cantiere una direttiva che fisserà dei limiti al consumo di suolo. La Provincia di Milano ha calcolato che mettendo insieme i piani urbanistici dei 189 Comuni che la compongono, nei prossimi anni il consumo di suolo passerà dall’attuale 34 per cento al 42,7, pari a una crescita di 159 chilometri quadrati.
La sola riserva di territorio non costruito rimasta intorno al capoluogo lombardo è il parco regionale agricolo Sud Milano che in molti, a destra e a sinistra, vorrebbero modificare (vedi box a sinistra). “Soprattutto da noi e nel Nordest l’esaurimento del suolo è un tema strategico”, afferma il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. “Non lo è solo per noi ambientalisti ma anche per le nostre ‘controparti’: ormai fare nuove autostrade o infrastrutture presenta difficoltà e costi proibitivi”. L’opposizione alla Tav in Val Susa ha certamente a che fare anche con la difesa del suolo, ma nel profondo Nord le microvertenze sono diverse e frammentate: contro nuovi poli logistici, centri commerciali, strade, autostrade. Proprio intorno alle nuove vie di collegamento si instaura un meccanismo vizioso. “L’autostrada Broni-Mortara”, riprende Di Simine, “collegherà due cittadine che non ne hanno particolarmente bisogno. È un intervento che non ha senso se non quello di favorire nuovi insediamenti”. Qui sta l’ultima frontiera del project financing, il sistema di finanziamento che permette di costruire grandi opere con il finanziamento privato.
Se prima il privato poteva rifarsi “con il pagamento dei pedaggi futuri, oggi il suo investimento viene rimborsato dalla possibilità di costruire lungo il percorso”.
E così, tra un nuovo outlet e un nuovo multisala, tra un nuovo svincolo e un nuovo parcheggio, cresce l’illusione ecologica di Villettopoli.
Più carne meno campi
La segnalazione è inquietante: la Regione Piemonte propone “di spalmare il surplus di prodotti di deiezione animale su tutta la superficie regionale”. Ve lo immaginate? Da Cuneo a Domodossola, passando per Torino e Novara, un’immensa e nauseabonda distesa di letame. L’infortunio lessicale nasconde la metafora perfetta di una questione seria, quella dei nitrati contenuti negli escrementi degli animali da allevamento. I nitrati sono ricchi d’azoto, elemento di per sé benefico per l’agricoltura, se non supera determinate soglie di concentrazione. Dove l’allevamento è intensivo, i nitrati finiscono per saturare il suolo con due gravi conseguenze: l’impoverimento del terreno agricolo e l’inquinamento dell’acqua di falda, con effetti cancerogeni sull’uomo e di eutrofizzazione del mare (ricordate l’emergenza mucillagine in Adriatico?). “Mettendo insieme questi due elementi, il termine desertificazione non è fuori luogo”, spiega Enrico Moriconi, veterinario, consigliere regionale del Piemonte per la Sinistra europea e componente del comitato scientifico nazionale di Legambiente. È dal 1991 che una direttiva dell’Unione europea (la la 91/676/Cee) fissa dei limiti che le Regioni della Pianura padana, le più densamente abitate da mucche e maiali, sono ancora lontane dal rispettare. “La direttiva è stata recepita in Italia nel 1999, ma finora soltanto l’Emilia-Romagna ha prodotto un testo di legge”, continua Moriconi: “Lombardia, Veneto e Piemonte non hanno ancora provveduto”. La questione è delicata perché, visto che la quantità di terra è fissa, non resterebbe che ridurre il numero di animali allevati (e provate a dirlo agli allevatori). Applicando i limiti di apporto di azoto previsti dalla direttiva, infatti, “il carico potenziale ammesso per ogni ettaro di terreno sarebbe di due vacche o due vitelloni, oppure di nove suini o di 340 polli”. Intanto si tira avanti con provvedimenti spot.
Quest’inverno la Regione Lombardia ha imposto il divieto di spargere letame nei campi per quattro mesi, da novembre a febbraio, per evitare multe o la perdita di finanziamenti da Bruxelles.
Come accade in più nobili mercati, la soluzione alternativa sarebbe quella di mettere in contatto domanda e offerta. Così almeno la pensa Paola Santeramo, che da Matera è salita al Nord a studiare Agraria e oggi guida la Confederazione italiana agricoltura delle province di Milano e Lodi.
“Le aziende zootecniche, che producono quantità di nitrati che i loro terreni non possono più assorbire, dovrebbero accordarsi con quelle cerealicole, che hanno bisogno di concime”. Certo che -e qui torna il tema dei mangiatori di terra- “man mano che si riduce il suolo arabile e produttivo, è sempre più difficile trovare sbocchi per i sottoprodotti dell’allevamento”.
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Il caso parco Sud
Il Parco agricolo Sud della provincia di Milano si estende per 47mila ettari e copre un terzo del territorio provinciale. I Comuni che ne fanno parte sono 61.
È l’unico vero polmone verde della metropoli lombarda. Le sue cascine sono poco distanti dal centro di Milano (la più vicina è a 4 chilometri in linea d’aria dal Duomo). Ovviamente, è un terreno che fa gola ai gruppi di costruttori, anche perché prosegue senza sosta la fuga da Milano, troppo cara e invivibile. Già oggi il 19% del Parco è urbanizzato. 22 sindaci di altrettanti comuni del Parco hanno già chiesto di poter costruire di più. Nell’hinterland milanese in alcune zone il suolo urbanizzato è ormai arrivato al 70% (quando il limite di sostenibilità è fissato al 45%). Come se non bastasse, la Regione ha preparato un progetto di legge che consentirà a chi realizza infrastrutture viabilistiche la costruzione accanto a superstrade e tangenziali di capannoni ed edifici con destinazione commerciale.
Buone soluzioni, all’estero
In Germania c’è una legge che riduce di anno in anno la quantità di suolo consumabile, con l’obiettivo di arrivare a zero nel 2050. Non è stata una battaglia dei potenti Verdi di quelle parti, ma di una moderata democristiana che nel 1998 era ministro dell’Ambiente: Angela Merkel, oggi cancelliera federale. In Inghilterra vige l’obbligo di costruire almeno il 70 per cento di nuovi insediamenti su aree già urbanizzate, per esempio industrie dismesse. La Francia esige una fascia di rispetto di 15 chilometri tra un Comune e l’altro. E in Italia? Il suolo in sé non è tutelato, a meno che non sia a rischio idrogeologico o di particolare pregio estetico. Anzi, non sappiamo neanche quanto ne viene consumato perché non esiste un catasto specifico.
Legambiente ha cominciato a elaborare uno “Statuto dei suoli”: l’idea centrale è la compensazione ecologica preventiva, una cosa diversa dagli oneri di urbanizzazione, che sono successivi alla realizzazione di un’opera; chi costruisce deve per esempio riforestare una porzione di territorio.
Ma per rompere davvero la spirale dei mangiatori di terra c’è una sola strada, la riforma del fisco locale. In mancanza di altre risorse i Comuni continueranno a reggersi su Ici e oneri di urbanizzazione.