Economia
Che genere di bilancio vogliamo scrivere
Le azioni delle amministrazioni pubbliche non tengono quasi mai conto del sesso dei cittadini. Un paradosso che -anche in Italia- si combatte coi numeri Il 63,5% delle donne del Lazio non lavora perché è impegnata a prendersi cura dei figli;…
Le azioni delle amministrazioni pubbliche non tengono quasi mai conto del sesso dei cittadini. Un paradosso che -anche in Italia- si combatte coi numeri
Il 63,5% delle donne del Lazio non lavora perché è impegnata a prendersi cura dei figli; oltre la metà delle donne non occupate sarebbe disponibile a lavorare se asili e scuole materne fossero più accessibili per disponibilità di posti e il 58% se fossero più accessibili in termini di costi; più di una donna su due tra coloro che hanno in famiglia anziani o disabili si orienterebbe verso una prospettiva occupazionale se i servizi pubblici glielo consentissero. Sono questi alcuni dati emersi dal “Bilancio di genere” della Regione Lazio, un territorio dove il tasso di disoccupazione femminile è al 10%, sopra la media italiane. “Attraverso fonti statistiche siamo andati a vedere quali sono i bisogni non soddisfatti delle donne del Lazio che lavorano o che intendono lavorare, e che pongono dunque un limite alla loro attività lavorativa”, spiega il professor Massimo Paradiso, docente di Economia politica presso l’Università di Bari e consulente della Regione Lazio per il bilancio di genere. Con questo strumento per la prima volta si fa una distinzione netta tra i bisogni di uomini e donne, soggetti diversi con ruoli ed esigenze differenti all’interno del sistema socioeconomico, ma che nei bilanci pubblici vengono tutti compresi nella categoria generica di cittadini. Il bilancio di genere parte invece dall’esigenza di differenziare. “In seguito a queste analisi abbiamo trasformato tali bisogni in linee di intervento concrete per venire incontro ai bisogni delle donne”, spiega ancora il prof. Paradiso. Un caso virtuoso quello del Lazio, che ha portato all’inserimento in bilancio di misure finanziarie consistenti, come i 54 milioni di euro per l’apertura di nuove scuole materne e per la gestione di asili nidi, e un incremento di fondi per le residenze sanitarie assistenziali (Rsa), con finanziamenti per la copertura dei contributi previdenziali per il lavoro di cura domiciliare, per il potenziamento dell’assistenza domiciliare ad anziani e disabili. In termini pratici un bilancio di genere si può stilare in molti modi e può prevedere la collaborazione di tecnici, consulenti esterni, pubbliche amministrazioni o in alcuni casi di università. La metodologia non è sempre la stessa, ma il punto di partenza è sempre l’analisi della società in termini di genere, attraverso fonti statistiche esistenti o tramite indagini ad hoc. Un’operazione non sempre facile visto che, nelle banche dati e nei sistemi informativi degli enti e delle amministrazioni italiane, spesso le donne non esistono proprio, invisibili sia nelle rilevazioni statistiche, nell’analisi dei beneficiari dei servizi pubblici o, se proprio va bene, schiacciate tra il numero totale della popolazione e il numero totale degli uomini. La differenza insomma, se proprio la vuoi sapere, te la calcoli da solo. Nel bilancio di genere le spese degli enti vengono lette e riclassificate, stilando una sorta di top-ten delle pari opportunità, analizzando quali politiche vadano a vantaggio delle donne e quali degli uomini e interpretandone quindi i bisogni. Nel migliore dei casi, come nel Lazio, ciò porta a interventi finanziari mirati: altre volte questo non succede e ai bilanci di genere non seguono politiche concrete da parte degli amministratori. Nel mondo sono circa 40 i Paesi ad essersi dotati di questo strumento: ha cominciato l’Australia nel 1984. In Italia, il Comune di Sestri Levante, nel 2001, è stato il primo, all’interno di un progetto della Provincia di Genova, a sperimentare un analisi del bilancio in ottica di genere, assieme alle iniziative contemporanee della Regione Emilia Romagna e delle Province di Modena e di Siena. Oggi sono circa 60 gli enti che, tra Province, Comuni e Regioni, si sono dotati del bilancio di genere: “Un processo favorito dalla modifica del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione”, chiarisce Giovanna Badalassi, consulente ed esperta di bilancio di genere, “grazie al quale le amministrazioni sono passate dall’avere il mero compito di difesa delle pari opportunità al ruolo di promotrici delle stesse”.
I dati. Dando un’occhiata ad alcuni bilanci di genere un dato salta subito all’occhio: le spese “dirette” in modo esplicito alle donne, come le spese per la salute riproduttiva, le campagne contro la violenza e i corsi di formazione per donne, non superano generalmente l’1% del totale di bilancio. Le altre spese sono riclassificate in politiche a prima vista gender neutral, ma che hanno in realtà un impatto molto diverso su uomini e donne e, pur non potendo essere definite di genere, di fatto lo diventano nel momento in cui si analizza l’utenza di un dato servizio. L’esempio più classico a questo proposito è quello delle politiche dello sport e in particolare del calcio, amato dal 41,0% degli uomini italiani e dall’1,4% delle donne (Istat): “Dalle letture di molti bilanci di genere emergono spesso importanti investimenti nella costruzione di campi da calcio o di stadi”, dice Roberta Ottaviani, della Provincia di Genova. “Solo dopo una riflessione di genere ci si rende conto che sono tipologie di spesa da cui traggono beneficio quasi esclusivamente i maschi: un problema di genere che non si verifica se l’investimento fatto viene fatto su una palestra o un centro polisportivo”.
Un altro esempio riguarda le spese sociali per gli anziani: “Ridurre queste spese va a discapito soprattutto delle donne”, spiega Badalassi, “che compongono la maggior parte della popolazione inattiva, soprattutto con disagio economico, e rappresentano la maggior parte dei familiari caregiver”.
Per esempio, una diminuzione del sostegno alla domiciliarità degli anziani, messa in luce dal bilancio di genere della Provincia, è una politica che penalizza soprattutto le donne, che sono il 73% degli over 85 e sono più povere rispetto ai maschi. Nelle fasce pensionistiche più basse, infatti, le donne raggiungono l’82% delle pensioni dai 250 ai 500 euro e il 72% delle pensioni fino a 250 euro mentre sono quasi assenti in quelle dai 1.750 ai 3.000 euro. Dati che si riflettono su scala nazionale, dove le donne rappresentano il 53,4% del totale dei pensionati, ma percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici (secondo i dati del Cnel). Le pari opportunità non sono solo una lettura di persone, ma anche una lettura di territori: investire nell’illuminazione pubblica è una politica di genere se si pensa che ben il 36% delle donne italiane ha paura a camminare al buio la sera. Anche quando si parla di trasporti i bisogni non sono gli stessi per tutti: “Spesso gli orari del trasporto pubblico non sono compatibili con quelli della maggior parte delle donne -spiega Roberta Ottaviani- che il più delle volte lavorarono part-time e utilizzano i bus proprio nella fascia oraria in cui ci sono meno mezzi”. In una città del Quebec, la forte crescita occupazionale femminile in un quartiere periferico industriale si era spiegata, dopo attenti studi, con l’apertura di una nuova fermata della metro in quella zona, che aveva ampliato le possibilità occupazionali delle donne, permettendo loro di andare a lavorare in centro città. “Esiste ancora una segregazione orizzontale dei mestieri, che indirizza donne e uomini a settori di attività diversi, per cui è necessario offrire anche alle donne un ventaglio ampio di possibilità lavorative sul territorio”, analizza Badalassi. “Per questo puntare ad esempio solo sull’edilizia per uscire dalla crisi non è politicamente equo dal punto di vista delle pari opportunità: investire soprattutto nelle infrastrutture e nei lavori pubblici significa infatti offrire possibilità lavorative quasi esclusivamente a uomini”.
Sono osservazioni chiaramente applicabili anche a livello nazionale. Dati alla mano, le donne occupate nell’edilizia in Italia sono 103.000 e rappresentano il 5,3% del totale (Istat). C’è da chiedersi quante di loro andranno ad occupare i “40 mila posti di lavoro” legati alla costruzione del Ponte sullo Stretto sbandierati dal ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli. Con la lettura di genere anche alcune peculiarità del mondo maschile vengono analizzate in modo nuovo. Dal bilancio di genere della Provincia di Firenze, per esempio, i maschi la fanno da padrone in tutte le statistiche legate al disagio sociale, costituendo la maggioranza degli utenti dei Sert (82,2%), degli alcolisti (70,9%), dei suicidi (76,6%), delle vittime di incidenti stradali (78,4%) e dei minori denunciati alle autorità giudiziarie (80%). “Trascurare questi dati è fuorviante, mentre un’analisi più attenta potrebbe portare a campagne di sensibilizzazione dirette soprattutto agli uomini”.
L’economia non retribuita. In Italia il lavoro familiare è distribuito in maniera fortemente ineguale tra i due sessi e resta una responsabilità quasi esclusiva delle donne, che pesa per 82,1% sulle casalinghe e per il 75,4% sulle donne che lavorano (dati Istat). “La sua invisibilità nel quadro macroeconomico di riferimento porta ad una grave distorsione nel modo in cui si vede la relazione tra aspetti economici e sociali”, spiega la professoressa Antonella Picchio, docente di Economia politica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e parte del Capp (Centro di analisi delle politiche pubbliche della stessa università). “Questa diseguaglianza ‘domestica’ ha effetti generali e persistenti nella sfera ‘pubblica’ e segna tutte le disparità sociali di genere”. Nasce da qui l’esigenza di analizzare il lavoro domestico e non retribuito nei bilanci, una considerazione sulla quale si basa la “teoria dello sviluppo umano in ottica di genere”, sviluppata in Italia dal Capp e applicata a diversi bilanci di genere, tra cui quelli della Regione Lazio e della Regione Emilia Romagna. “Bisogna ricordare che è proprio sul lavoro domestico e di cura che si basa la stabilità del sistema”, riprende la professoressa Picchio. Un esempio? “Il lavoro di riproduzione sociale è in realtà capitale sociale, perché è necessario: se non lo si riesce a dire nelle analisi questa cosa si perde, rimane una vicenda personale”. Proprio per questo appare evidente l’importanza di inserire nell’economia pubblica anche il lavoro domestico, che secondo le stime degli economisti de lavoce.info, in Italia equivale a 433 miliardi di euro: un terzo del Pil annuale del nostro Paese. Secondo alcuni studi ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi, dall’assistenza agli anziani e ai bambini, fino alle attività domestiche vere e proprie, prima non retribuiti perché gravavano sulle spalle della neo-assunta. Un’osservazione tanto più importante in tempi di crisi, giacché è prevedibile che ogni 100 posti di lavoro persi per le donne se ne perdano in realtà 115. Investire sull’occupazione femminile insomma ha una marcia in più.
Servono le volontà politiche.La costituzione di bilanci di genere è complessa e richiede competenze specifiche, ma soprattutto finanziamenti e volontà politiche forti. Le prime iniziative di bilancio di genere infatti sono state possibili grazie al Fondo sociale europeo, che “in Italia tra il 2000 e il 2006 ha finanziato la maggior parte delle iniziative in materia di pari opportunità e promozione del lavoro femminile”, spiega Badalassi. “Il passaggio a sistema richiede necessariamente un ruolo attivo da parte dello Stato. Nella nuova programmazione dei Fondi europei infatti l’Ue ha deciso di sostenere le politiche per le donne con una politica di mainstreaming: tutte le iniziative finanziate devono promuovere autonomamente le pari opportunità ma, venendo a mancare delle risorse dedicate, viene meno il ruolo di regia e di promozione degli assessorati alle Pari opportunità, che sono quindi particolarmente penalizzati dalla mancanza di risorse alternative”.
Proprio per questo spesso i bilanci di genere sono rimasti allo stato di sperimentazioni, non riuscendo a passare a sistema. Il superfluo viene tagliato con buona pace di chi crede che il superamento della crisi passi anche dalla promozione attiva delle pari opportunità e da un miglioramento della condizione femminile nel lavoro e nella società. Come Saadia Zahidi, del World Economic Forum, che recentemente ha dichiarato: “Le donne e le ragazze costituiscono la metà delle risorse umane disponibili sulla terra e ai fini di una rapida ripresa economica dovranno essere educate, ricevere potere ed essere integrate”.
Lavoro: metà restano a casa
Che l’Italia sia oggi alla 72esima posizione su 134 del “Global Gender Gap 2009”, il rapporto sulle pari opportunità stilato dal World Economic Forum, non sorprende nessuno. Tra le cause di tale ritardo spiccano non a caso l’indice su “partecipazione e opportunità nell’economia” (96esimo posto), le disuguaglianze delle donne rispetto agli uomini nei salari (116esimo posto), nel reddito da lavoro (91esimo) e nella partecipazione alla forza lavoro (88esimo). L’Italia è superata anche da Vietnam, Romania e Paraguay, precede di poco la Tanzania ed è terzultima in Europa (www.weforum.org). Secondo uno studio dell’economista Roberta Zizza della Banca d’Italia, se il tasso di occupazione di donne e uomini fosse uguale si avrebbe un incremento del prodotto interno lordo del 17,5% e si avrebbero circa 5 milioni di occupate in più.
In Italia l’occupazione femminile è ferma al 46,6% mentre quella maschile è al 70,7%: in Europa va peggio solo Malta. L’obiettivo della Strategia di Lisbona è del 60% entro il 2010.
Glossario minimo
Bilancio di genere: esercizio di lettura dell’operato di un ente che aiuta a comprendere le differenze di genere e le disparità di trattamento e a constatare come le politiche economiche non possano essere riferite ad un cittadino inteso in senso neutro, ma a cittadini e cittadine, con tutte le differenze connesse all’appartenenza di genere (personali, culturali, sociali, ecc.).
Gender mainstreaming: strategia di governo attenta a integrare sistematicamente le priorità e i bisogni rispettivi delle donne e degli uomini in tutte le politiche. Indicato dalla quarta Conferenza mondiale sulle donne (Onu, Pechino 1995) e dall’Unione Europea come uno dei capisaldi per la realizzazione effettiva delle pari opportunità tra uomini e donne, il gender mainstreaming impone una linea di azione, sia politica che amministrativa e gestionale, che sia in grado di far emergere le differenze di genere tra uomini e donne e, di conseguenza, possa esprimere risposte differenziate ai cittadini e alle cittadine, in considerazione delle rispettive specificità ed esigenze.
Pari opportunità e potere
L’analisi di genere dei bilanci pubblici è stata sperimentata per la prima volta nel 1984 in Australia. Il crescente interesse per tale tipo di analisi si è progressivamente diffuso a diversi Paesi, sostenuto sia direttamente dai governi, che dalle associazioni non governative. Un passaggio fondamentale è stato in questo senso la quarta “Conferenza mondiale sulle donne” di Pechino nel 1995. In tale occasione sono state lanciate a livello mondiale due strategie fondamentali di promozione delle pari opportunità: il gender mainstreaming e l’empowerment, sulla cui base si sono sviluppate tutte le politiche di pari opportunità degli anni successivi, fino ad oggi, sia a livello europeo, che a livello nazionale e locale. In tale quadro il bilancio di genere è stato riconosciuto quale obiettivo strategico da perseguire, ed è stato menzionato come uno strumento raccomandato agli Stati delle Nazioni Unite per la promozione dei diritti e delle pari opportunità delle donne.
L’esperimento italiano…
2001 Prime iniziative di bilancio di genere in Emilia Romagna, a livello regionale e nella Provincia e Comune di Modena.
2002 Progressiva diffusione del bilancio di genere a livello locale: le province di Genova, Modena e Siena firmano un protocollo di intesa per lo scambio di buone prassi e la diffusione presso altri enti delle metodologie di analisi. Aderiscono poi le Province di Alessandria, Ancona, Ferrara, Firenze, La Spezia, Milano, Parma, Pesaro-Urbino, Torino, e i Comuni di Genova, Cuneo, Firenze, Rimini, Sestri Levante, Torino, per una popolazione totale rappresentata di 10,5 milioni di abitanti. A livello regionale si segnalano, oltre all’Emilia Romagna e il Piemonte, i progetti in corso da parte di Regione Liguria, Regione Marche e Regione Friuli Venezia Giulia.
2006 Due commi della finanziaria del governo Prodi fanno esplicita l’esigenza di un bilancio di genere nazionale, di statistiche di genere oltre a percorsi formativi sul bilancio di genere presso dipendenti della pubblica amministrazione.
2007 La Direttiva Pollastrini-Nicolais “sulle misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche” prevede che il bilancio di genere debba essere sostenuto all’interno delle pubbliche amministrazioni.
2007 Viene svolto un progetto di fattibilità per un bilancio di genere a livello nazionale, promosso dal ministero delle Pari opportunità e condotto dall’Isfol.
2009 Il Decreto attuativo 150 della Legge Brunetta (15/09) cita il bilancio di genere tra i documenti che le amministrazioni devono redigere.
…e la storia
1984 L’Australia sperimenta per la prima volta l’analisi di genere dei bilanci pubblici.
1995 Durante la quarta Conferenza Mondiale sulle donne di Pechino vengono lanciate a livello mondiale il gender mainstreaming e l’empowerment quali strategie fondamentali per la promozione delle pari opportunità.
1996 La Commissione adotta una Comunicazione sul mainstreaming quale primo passo verso l’attuazione dell’impegno dell’Ue ad attuare il mainstreaming della dimensione di genere a livello comunitario.
1996 In Italia viene istituito il ministero per le Pari opportunità
2003 In Italia viene modificato l’articolo 51, primo comma, della Costituzione (legge Cost. n. 1 del 30 maggio 2003): la responsabilità degli enti pubblici nei confronti delle differenze di genere diventa più evidente prevedendo in modo esplicito un ruolo attivo: “a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne”.
2003 Risoluzione del Parlamento europeo sul bilancio di genere (2002/2198(INI)) – P5_TA(2003)0323).
2007 Il bilancio di genere è citato all’interno della road map sulle pari opportunità dell’Ue 2007/2013 come strumento per migliorare la governance sulla parità tra i generi.