Ambiente / Opinioni
Che cosa dice la nuova proposta di Direttiva europea per il monitoraggio dei suoli
Pur essendo centrata sul monitoraggio e non sulla tutela dei suoli, la proposta del 5 luglio dalla Commissione ha aspetti interessanti. Offre un metodo per identificare le “patologie” dei suoli, consolida il linguaggio per evitare falsificazioni, supera la visione corta dei confini amministrativi. Ma non mancano le insidie. L’analisi di Paolo Pileri
Il 5 luglio scorso la Commissione europea ha pubblicato la proposta di Direttiva “Directive of the European Parliament and of the Council on soil monitoring and resilience (Soil monitoring law)”. Il codice di riferimento per chi volesse catturare il documento originale è COM(2023) 416 final. Il titolo chiarisce bene che si tratta di una legge per il monitoraggio del suolo e non per la sua tutela (ma vedremo in fondo che qualcosina arriva anche per la tutela). Ciò non toglie che la proposta mantiene un’importanza che non possiamo e non dobbiamo sottovalutare.
Innanzitutto perché la Commissione torna a occuparsi di suolo, rimettendo attenzione a una questione che sappiamo essere delicatissima e strategica per la vita del Pianeta e per il benessere di tutti, come ben detto in premessa (sebbene purtroppo il suolo non sia definito come ecosistema, e questo per l’Italia sarebbe stato assai cruciale con i venti di autonomie che ci sono). Dopodiché la proposta è importante anche perché arriva a offrire un metodo tecnico e scientifico per identificare le diverse patologie delle quali il suolo soffre così da avere un quadro chiaro, comparabile e unitario utile per allestire le riforme politiche necessarie.
E questo sarà il punto: far seguire delle azioni di tutela e gestione del suolo alla fase di monitoraggio. È evidente che uno schema comunitario di monitoraggio e di assunzione di indicatori comuni era urgente e necessario per evitare agli Stati membri di nascondersi dietro misure diverse che possono ritardare le necessarie azioni di tutela e quindi far finire il tutto in un nulla di fatto. Così la proposta offre una lunga lista di indicatori e di metodologie (allegato 1) che dovranno essere approvate dal Parlamento ma che sono in larga parte già ampiamente usate dai Paesi membri che effettuano il monitoraggio.
Nella proposta di Direttiva sono anche, e di nuovo, elencate le definizioni attinenti la materia, così da consolidare un linguaggio comune riducendo quella fabbricazione di termini e frasi dietro alle quali -lo sappiamo bene in Italia (vedi Altreconomia 260)- si sono celati continui consumi e degradi di suolo.
Oltre a queste novità, la proposta (che richiede comunque un ampio studio e quindi torneremo a parlarne) offre altre prospettive interessanti. Ad esempio propone i “Soil district” (articolo 4) secondo i quali i Paesi membri dovranno osservare la salute dei suoli. Questi distretti sono per noi Italia una novità perché superano la visione corta dei confini regionali, spostando l’attenzione almeno su macro-aree più appropriate allo status ecologico ed ecosistemico del suolo. Le macro aree sono i cosiddetti NUT1 che in Italia corrispondono a cinque gruppi di Regioni (Nord-Ovest/Nord-Est/Centro/Sud/Isole).
La prospettiva, ripeto, è sfidante per noi visto che siamo rigidamente basati sui confini amministrativi e politici elettivi. Sarebbe bello mantenere la geografia minima dei NUT1 se non addirittura migliorarla come proposto nel citato articolo 4 mixando con criteri climatici o di uso del suolo. È importante andare oltre la visione regionale. Non indietreggiare in uno schema rigido per confini amministrativi che nulla hanno a che fare con la dimensione ecologica della risorsa suolo e con le relative dinamiche causa-effetto sarà per noi uno dei primi banchi di prova.
Accetteremo la sfida o la rigetteremo? Tra l’altro la proposta chiede agli Stati membri di definire delle nuove autorità di monitoraggio sul suolo che si attestino su quelle macro-geografie: interessante perché unità del genere sono più indipendenti dalle pressioni politiche locali. Ma accetteremo anche questo?
Un’altra sfida è celata nell’articolo 6 quando si propone agli Stati membri un “regular and accurate monitoring of soil health”. Regolare e accurato, due aggettivi impegnativi ma necessari che inchiodano tutti a una presa d’atto che la questione è altamente seria e dobbiamo porvi attenzione ed energie. L’articolo 9 propone addirittura una cadenza di monitoraggio non superiore ai cinque anni e con un certo numero di campionature. Diversamente tutto questo sarà non solo vano ma rischierà di non attivare quel meccanismo preventivo di cui andiamo dicendo da tempo.
Nessuno come l’Italia ha bisogno di conoscere lo stato di salute dei propri suoli per prevenire dissesti, erosioni, inquinamenti, consumi etc.. Questo articolo-sfida sposta un po’ la mira dalla Protezione civile alla Prevenzione civile, concetto che abbiamo evocato anche da qui in occasione degli eventi alluvionali della Romagna.
Di nuovo un banco di prova per la politica perché non solo vedremo se accetterà questa regolarità ma anche se apposterà le adeguate risorse finanziarie e umane. E se lo farà senza perdere tempo. L’ambizione di questa proposta è alta e come tale deve rimanere. Pensate che si parla di un nuovo “portale suoli” in grado di dare trasparenza allo stato di salute dei suoli stessi (articolo 6) e questo non può che essere salutato come un’azione di democratizzazione ambientale.
Ma ancora una volta non mancano le insidie delle quali dobbiamo stare attenti. Tipizzare i suoli per il loro stato di salute non deve divenire la leva attraverso la quale identificare i suoli malati da destinare al consumo o al cemento. Ma dobbiamo fin da ora dirci chiaramente che i suoli malati, come i pazienti, saranno sottoposti a cure e attenzioni e non certo acquisiranno uno speciale lasciapassare per la loro morte. Al riguardo, all’articolo 10 la proposta di Direttiva si lancia in un’altra direzione, quella della definizione degli strumenti di gestione sostenibile dei suoli (buone pratiche e azioni), sia in ambito agricolo sia urbanistico. E qui scatta l’impegno alle politiche su cui i singoli Stati membri dovranno mettere la faccia. Al riguardo la Commissione non si mostra ingenua e sa bene che le cose non basta proporle in una Direttiva ma vanno accompagnate da un programma di formazione da offrire a tutti (articolo 10): tecnici, investitori, proprietari, politici e amministrazioni (“training activities and capacity building for soil managers, landowners and relevant authorities”). Non solo. Si chiede anche agli Stati membri di assicurare l’accesso a consulenti indipendenti e imparziali (“ensure easy access to impartial and independent advice on sustainable soil management”): una sfida nella sfida per tutti noi che richiederà una riflessione etica non scontata.
Come vedete, si tratta ancora di accompagnare anche questa proposta con un profondo lavoro culturale di stampo ecologico che riversa sul tavolo del decisore non solo metodi e indicatori, rapporti e mappe, ma anche un nuovo approccio filosofico ed educativo alla questione ecologica. Questo è lo spirito che si legge in questa proposta chiedendo a tutti i portatori di interesse di fare un passo culturale necessario e urgente. D’altronde, lo sappiamo, non si difende quel che non si conosce approfonditamente. Non sarà solo un monitoraggio a cambiare le cose sebbene sia un passo super necessario e non rinunciabile. La Commissione lo sa bene e non perde occasione per spingersi nel campo della formazione pubblica e della gestione dei suoli. Una sfida da non perdere assolutamente. Una sfida sulla quale far assumere nuove forme alle nostre decisioni e al mestiere politico e urbanistico.
Ultimo commento lo riserviamo all’articolo 11 sul contenimento del consumo di suolo (land take) che, per me, è ancora un po’ debole, soprattutto nel panorama italiano. Da un lato si chiede di ridurre le aree consumabili (“reducing the area affected by the land take to the extent possible”) il che fa pensare che dovremmo finalmente darci da fare per generare un articolo di legge urbanistica che consente di togliere le aree edificabili dai piani regolatori senza il contraccolpo dei ricorsi al Tribunale amministrativo regionale (Tar) di turno. E voglio così interpretare questo passaggio. Dall’altro nel medesimo articolo si apre un po’ troppo alle compensazioni (che sappiamo pericolose da noi perché alla fine consentono enormi consumi di suolo in cambio di una manciata di alberi e un po’ di energia) e si parla di ottimizzazione delle urbanizzazioni e/o di selezioni di aree dove l’impatto risulterebbe meno grave ovvero, penso, quei suoli già deboli e degradati che invece, come dicevo sopra, proverei a tutelare. Diverso se questa affermazione si rivolgesse alle sole aree dismesse, allora mi preoccuperebbe meno. Di nuovo starà anche a noi scegliere l’interpretazione più ecologica. Lo faremo? Ho dei ragionevoli dubbi, ma anche delle speranze. Per ora iniziamo ad approvare questa Direttiva il più presto possibile senza stravolgimenti ed emendamenti che possano fermarla. Anche questa è una prova politica. E non c’è tempo da perdere.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
© riproduzione riservata