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C’era una volta una popolare

La Banca popolare di Milano da cooperativa diventa società per azioni, favorendo investitori i cui nomi sono schermati nei paradisi fiscali —

Tratto da Altreconomia 148 — Aprile 2013

C’era una volta una banca popolare. Se fosse una favola potrebbe iniziare così la storia della prima banca cooperativa milanese, ma la vicenda di Bpm è destinata a non aver un lieto fine. Dopo 148 anni di attività, la dirigenza dell’istituto di credito ha scelto di trasformarlo in società per azioni, per metterlo (finalmente) sul mercato.
Dirigenti nuovi di zecca, saliti alla ribalta dopo che -nell’ottobre del 2011- l’ex presidente Massimo Ponzellini è stato travolto dall’inchiesta della Procura di Milano. Le indagini sono in corso, e la prudenza è d’obbligo, ma di certo le accuse rivolte al management di Bpm hanno favorito chi sta rivoltando la banca come un calzino. Una scelta che porta aria di festa negli ambienti finanziari: nel primi 40 giorni del 2013 il titolo Bpm è balzato del 28%, in una Borsa di Milano praticamente stagnante.

L’autunno verde di Bpm. Il sistema messo in piedi dal presidente Massimo Ponzellini emerge nell’autunno del 2011, grazie al lavoro di vigilanza della Banca d’Italia: le inchieste della procura di Milano mettono in luce un giro vorticoso di favori e mazzette, grazie al quale Bpm era una specie di bancomat a disposizione di una lunga lista di amici ed esponenti politici, per lo più di centrodestra. Un meccanismo di cui si è detto e scritto molto, e che porta prima alle dimissioni e poi all’arresto di Ponzellini. Il suo posto lo occupa Andrea Bonomi, finanziere d’assalto che alla fine di ottobre ha già in mano la presidenza, con il sostegno di Mediobanca e degli Amici della Bpm, un’associazione che riunisce dipendenti sindacalizzati che ha sempre avuto un ruolo significativo nella governance della banca (vedi box).
Classe 1965, nato a New York, domiciliato a Londra, attraverso il fondo londinese Investindustrial, Bonomi ha accumulato pacchetti di società sparse tra Italia, Spagna e Regno Unito. Nel nostro paese ha investito nei settori più disparati, dai grandi magazzini (Coin) alla cosmetica (Parfume), dai divertimenti (Gardaland) alle scommesse (Snai e Cogetec), fino ai gioielli (Strozzi) e, appunto, alle banche. Al suo attivo c’è anche un posto di consigliere in Rcs, la società che pubblica il Corriere della Sera. Oltreconfine troviamo sedi in Lussemburgo, Svizzera, Jersey, Gibilterra e Bahamas, paradisi fiscali tra i quali spiccano vere e proprie roccaforti del segreto societario.
Bonomi non è né un banchiere né un industriale. Investindustrial è un fondo di private equity, che compra e vende aziende nel giro di pochi anni per intascare plusvalenze. Operazioni speculative, punto e basta. E tra le prede non poteva mancare Bpm, che ha tutte le carte in regola per generare profitti a due cifre, scommettendo al rialzo sul titolo.

Una questione di Borsa. Anche Piazza Affari punta sullo smantellamento della vecchia Bpm. Perché è la settima banca italiana, con oltre 21 miliardi di raccolta e 800 punti vendita, di cui 450 in Lombardia, la regione più ricca d’Italia. E perché è un “gioiellino”, che a differenza degli altri istituti di credito è stato in parte difeso da un meccanismo tipico delle cooperative, il voto capitario (quello che per il mercato somiglia a un difetto): nessun azionista può esprimere più di un voto in assemblea, qualunque sia la quota di azioni possedute (che in ogni caso non può superare lo 0,5% del capitale). Una norma legislativa e statutaria che rende impossibile qualunque scalata. Se aggiungiamo che il 5% degli utili finisce ai dipendenti, e che la gestione è sempre stata in mano ai rappresentanti dei lavoratori -che attraverso gli Amici della Bpm esprimevano la maggioranza in assemblea e nel Consiglio di sorveglianza, che nominava il Consiglio di gestione-, possiamo capire l’insofferenza dei mercati.
La nuova dirigenza l’ha capito: serve un messaggio chiaro agli investitori.  Sciolti gli Amici alla fine del 2011, il nuovo corso è riassunto in un comunicato aziendale del 12 febbraio 2012: trasformazione in spa e stop al voto capitario (ogni socio avrà tanti voti in base alle azioni possedute), abolizione del 5% degli utili ai dipendenti e lavoratori in minoranza nel Consiglio di sorveglianza.
La strada era già tracciata dai pronunciamenti dell’Antitrust e della Banca d’Italia, che tra l’altro chiedeva discontinuità con la vecchia gestione. E il responso della Borsa non si è fatto attendere: al lancio del comunicato il titolo è schizzato a 0,57 euro per azione -più del doppio rispetto alla quotazione di fine novembre 2011-, e questo per Bonomi ha significato una plusvalenza di quasi trenta milioni. Potenza della finanza.
Il prossimo appuntamento sarà l’assemblea convocata per sabato 27 aprile, quando il varo della spa segnerà nuovi clamorosi rialzi.
Bonomi & friends. Tocca, però, tornare di nuovo all’autunno 2011. Per spiegare come ha fatto Bonomi, mentre espugna la presidenza di Bpm, a rastrellare azioni con operazioni che non brillarono per trasparenza. Scorrendo il prospetto Consob sulla struttura societaria che controlla il pacchetto Bpm c’è il rischio di perdersi. In cima alla piramide c’è la società Bi-Invest, che gestisce il fondo chiuso di private equity Investindustrial IV, che a sua volta controlla la società di diritto lussemburghese International Financial and Commercial Holding (Ifch). Quest’ultima, a cascata, ha in pancia ben 20 società italiane -che fanno capo all’italiana Global Financial and Commercial Holding (Gfch)- che messe insieme detengono l’8,6% di Bpm. La Bi-Invest è regolata dalla legge del Jersey e dunque schermata, ma c’è da chiedersi anche chi siano i sottoscrittori del fondo Investindustrial. La domanda è cruciale poiché da lì sono venuti il soldi per l’acquisizione del pacchetto, ma destinata a restare senza risposta.
Nella sua ascesa Bonomi è stato aiutato da tre società, azioniste di minoranza di Gfch: Partenone srl,  Viris spa e G.B.Par srl, attraverso un complicato sistema di prestiti infruttiferi in cambio di azioni Gfch. La Partenone è controllata dalla Papiniano spa, in mano al re delle cliniche Giuseppe Rotelli, proprietario del San Raffaele di Milano. Viris e G.B.Par. fanno capo, rispettivamente, a Cordusio Fiduciaria (Unicredit) e alla storica famiglia dei principi Borromeo, proprietaria tra l’altro dell’isola Bella sul Lago Maggiore. Le tre società hanno erogato prestiti infruttiferi per far salire la partecipazione di Bonomi dal 6,6% al 9,9% (ma si fermò all’8,6), dopo l’aumento di capitale dello stesso autunno 2011. Conquistato il pacchetto di maggioranza e nominato alla presidenza, Bonomi è ormai alla plancia di comando. Il destino della banca è segnato, la vecchia Bpm non c’è più.

L’amico del Lussemburgo.
A questo punto spunta un altro raider. Si chiama Raffaele Mincione e attraverso la lussemburghese Time&Life mette sul piatto 60 milioni per l’8,2% della banca milanese. Era il 19 dicembre 2012. Di lui sappiamo che ha gestito la divisione europea di Salomon Smith Barney, che ha una grande passione per la vela, che si è fidanzato con la modella Heather Mills (poi diventata moglie di Paul McCartney) e che nel 2009 fece un grosso affare acquistando una palazzina nel centro di Londra per 18 milioni di sterline, meno della metà del suo valore.
Non sappiamo quasi nulla invece della sua struttura societaria. La Time&Life è in mano alla Capital Investment Trust, regolato dalla legge del Jersey, che a sua volta ha conferito il pacchetto di controllo alla Ifg Trust Company, con sede nelle Channel Island.
Dove ci fermiamo, perché conoscere i beneficiari di un trust domiciliato in tali paradisi fiscali è impresa impossibile. Oltretutto la partecipazione è stata spezzettata in quote inferiori allo 0,5%, per la normativa sulle banche popolari, e ciò complica oltremodo la faccenda. Insomma dietro Mincione potrebbe esserci chiunque e lo sa bene anche la Consob, che interpellata da Altreconomia ha confermato l’apertura di un’indagine. D’altro canto in Italia nessuna legge vieta operazioni del genere, in barba agli azionisti, agli amministratori e ai lavoratori della banca. Anche in tempi di redditometro, che minaccia di passare al setaccio ogni piccola spesa del contribuente. E la domanda torna, insistente: chi controlla Bpm? —

La lista degli amici
Era il 22 ottobre 2011, e in assemblea la componente sindacale si spaccò. Risultò eletto un Consiglio di sorveglianza favorevole all’ascesa di Andrea Bonomi. Da qualche anno la redditività del gruppo era al palo, ed erano evidenti gli effetti della gestione Ponzellini. A ricordare quel 22 ottobre è Roberto Alba, segretario della Fiba-Cisl in Bpm (gli altri sindacati sono Uilca, Fabi e Fisac): “Avevamo sostenuto insieme alla Fabi la lista di Marcello Messori al Consiglio di sorveglianza, che avrebbe indicato alla presidenza del Consiglio di gestione Matteo Arpe, un banchiere. Oggi il piano industriale è fatto in gran parte di tagli (tra i quali 800 esuberi, ndr) e siamo convinti che con Arpe le cose sarebbero andate diversamente.
In quell’elezione la Fiba e la Fabi presentarono una lista alternativa a quella degli Amici della Bpm: una scelta di discontinuità, che consentisse di intraprendere un rilancio della cooperativa. Una settimana dopo le elezioni, vinte dalla lista di Filippo Annunziata, l’associazione ci espulse e diverse centinaia di colleghi dalla Fabi trasmigrarono in Uilca”. La scelta di Fisac e Uilca -Annunziata e Bonomi- si rivelò suicida non appena quest’ultimo scoprì le carte sulla trasformazione in spa e sul modello di gestione che aveva in mente. E ora? “Leggiamo quello che sta accadendo in Bpm dai giornali, mentre vorremmo avere una proposta ufficiale sulla quale deliberare -continua Alba-. Quella circolata sulla stampa ci pare generica e carente sulla partecipazione dei lavoratori. Al famoso ‘cantiere’, di cui parla il comunicato del 12 febbraio, non siamo stati invitati. Oggi i dipendenti non hanno rappresentanza”.

Stop all’anonimato

Gian Gaetano Bellavia, esperto di riciclaggio e consulente di molte procure d’Italia, allarga le braccia leggendo i prospetti Consob sull’azionariato di Bpm: “Certo in Italia bisogna dichiarare a chi fanno capo queste strutture anonime, ma chi verifica la veridicità di queste dichiarazioni? Fra queste strutture opache si trova il trust, che è uno strumento giuridico utilizzato da secoli nei Paesi anglosassoni e nelle loro colonie per proteggere beni o diritti quando questi siano destinati a uno scopo o siano riservati a uno o più beneficiari. Quindi è di fatto una cassaforte giuridica entro la quale un soggetto disponente pone un bene o un diritto al fine di proteggerlo dalle proprie vicende personali o dall’azione dei terzi, o per destinare tali beni a protezione di beneficiari meritevoli di tutela. Cosa c’entra tutto questo con il controllo di una importante parte del capitale di una importante banca? Il risultato è che oggi non sappiamo a chi realmente si riferiscono questi importanti soci di Bpm e neppure da dove arrivano questi capitali”. Secondo Bellavia “bisogna trovare il coraggio politico di vietare ogni transazione economica o finanziaria tra soggetti residenti e società o enti di diritto estero di qualsiasi tipo incorporati in giurisdizioni che garantiscono l’anonimato societario”.
 

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