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Ce lo chiede l’Europa!

Tre mesi esatti e poi -il 25 e 26 maggio- saremo chiamati ad eleggere il nuovo Parlamento europeo. Per comprendere l’importanza dell’Ue, Altreconomia passa in rassegna -con 14 scheda- il rapporto tra legislazione italiana ed europea. Scoprendo che su ambiente e diritti accumuliamo sanzioni, mentre su finanza pubblica e debito diamo seguito senza esitare alla Direttive —

Tratto da Altreconomia 156 — Gennaio 2014

L’Italia detiene il record per il maggior numero di infrazioni a suo carico aperte dall’unione europea, 110. Rispetto alla Germania ha ricevuto oltre il triplo delle sanzioni per aver recepito in ritardo precise direttive (36 contro 11). A causa di ripetute crisi di governo, per due anni consecutivi (2011 e 2012) non ha emanato la cosiddetta “legge comunitaria”, necessaria per introdurre nel proprio ordinamento obblighi e principi derivanti dall’Unione europea. Eppure, il nostro Paese è tra i migliori interpreti dello schizofrenico ritornello “ce lo chiede l’Europa”.
In certi casi infatti l’incidenza di quella fonte normativa chiamata “Europa” -prevista dal Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ovvero il Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009- si è rivelata nulla, del tutto imponderabile. Per certi versi sconosciuta. Basti pensare che il nostro Paese è stato giudicato -da uno studio sull’applicazione della legislazione europea curato dal Parlamento europeo- il peggiore in materia di “comunicazione trasparente dei passaggi normativi a livello comunitario”.
Per capire come sia possibile, iniziamo dall’elenco degli organi dell’Ue, che sono il Parlamento europeo, il Consiglio europeo (riunisce i Capi di Stato e di governo), il Consiglio dell’Ue (riunisce i ministri competenti), la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’Unione, la Banca centrale, la Corte dei conti, la Banca europea degli investimenti, il Comitato delle regioni e il Comitato economico e sociale. Questi possono avere competenze normative “esclusive” (unione doganale, politica monetaria, conservazione delle risorse biologiche, politica commerciale comune) sia competenza “concorrenti” (ambiente, energia, trasporti, agricoltura e pesca, mercato interno). In altri, invece, l’influenza comunitaria è risultata “ineludibile”, non aggirabile, dall’immediata adozione.

Il percorso di cessione di sovranità vede quindi il nostro Paese muoversi lungo due binari paralleli ma molto distanti. Nel primo caso è richiamato costantemente a mettere una pezza ai tanti buchi legislativi derivanti dal mancato o cattivo recepimento di parte dei 1.300 atti legislativi, suddivisi tra regolamenti, direttive, norme di attuazione e decisioni, proposti, modificati o adottati dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione europea soltanto nel 2013. Un compito che da un anno peraltro svolge attraverso una nuova legge, la numero 234 del 24 dicembre 2012 (l’ex primo ministro Mario Monti era dimissionario da tre giorni).

Nel 2013 il Governo italiano ha adottato decreti legislativi necessari per dare attuazione a ben 40 direttive, alcune in sospeso fin dal 2009. Ciascuna con specifici termini di recepimento e con materie comprese tra la riforma del diritto societario e la “prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero”, passando dalla riduzione integrata dell’inquinamento fino alla cooperazione fiscale tra Paesi.

Per non parlare dei compiti non ancora svolti, da cui derivano infrazioni o sentenze “pilota” (Eu pilot). Tra le più recenti e significative per il nostro Paese è la cosiddetta “sentenza Torreggiani”, emessa dalla Corte europea di Giustizia di Strasburgo nel gennaio 2013 a sanzionare le condizioni delle carceri italiane (vedi box dedicato a pagina 11). Un giudizio che resta però sospeso per un anno, in attesa che il Paese adotti le misure necessarie per far fronte, ad esempio, al tasso di sovraffollamento registrato. Qualora non dovesse farlo, o la sua risposta fosse ritenuta insufficiente, la Corte non “differirà” più tutte le cause analoghe, comportando un’autentica cascata di procedimenti a carico dell’Italia per un valore ipotizzabile di risarcimenti per oltre 5 miliardi di euro.
L’elenco di infrazioni e procedimenti Eu pilot, poi, è rafforzato dal fatto che nel 2012 l’Italia è stato il Paese “peggiore” per numero di infrazioni aperte -99 contro le 82 della Polonia, le 63 della Francia e le 61 di Regno Unito e Germania- o per sanzioni a seguito di tardato recepimento di direttive europee: 36 procedimenti contro gli 11 della Germania, sempre nel 2012. Anche nel caso dei procedimenti di infrazione e le sentenze “pilota” da sanare, i temi affrontati dalla prima “Legge europea” dell’agosto 2013 sono stati 33: tra questi, la circolazione delle persone, l’ordinamento e il mercato del turismo, la società tra avvocati, la tassazione di aeromobili, il monitoraggio fiscale, la riscossione delle imposte locali, l’organizzazione dell’orario di lavoro, l’utilizzo di biocidi, l’etichettatura dei prodotti alimentari, la qualità delle acque di balneazione.
Ancora troppo pochi, però, per risolvere nel merito le 110 procedure di infrazione attualmente in corso a nostro carico, che affrontano temi che vanno dalla disparità di trattamento tra uomini e donne, alle tasse d’imbarco presso gli aeroporti di Roma e Venezia, dall’Ilva di Taranto ai lavori di disostruzione dell’alveo del fiume Piave, dal mancato recepimento dell’elenco dei prodotti per la difesa all’impatto ambientale dell’aeroporto di Malpensa, dalla commercializzazione dei sacchetti di plastica alle accise sul tabacco.

Per questo, nel novembre 2013 il Governo, e in particolare il ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero, ha dovuto presentare un nuovo un pacchetto di leggi europee “riferito al secondo semestre”, come si legge nella relazione tecnica a uno dei due ddl. Tra le 16 direttive da recepire, e delle quali l’esecutivo è tenuto ad adottare provvedimenti conseguenti, ce ne sono due particolarmente rilevanti, anche se di senso opposto per la natura dell’indicazione europea. La prima riguarda l’accesso all’attività degli enti creditizi e alla loro conseguente vigilanza, demandata alla Banca centrale europea (Bce) che assume la funzione di “supervisore unico”, posta nelle condizioni -si legge nel disegno di legge presentato alle Camere- “di applicare gli stessi strumenti di vigilanza a tutte le banche dell’euro area sottoposte al suo controllo”. L’altra importante “mossa” suggerita dall’Unione europea coincide con la predisposizione ed emanazione di un testo unico delle norme che regolano il diritto di asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea, per potere mettere ordine e adeguare quelle stesse norme oggi frammentate in quattro decreti legislativi collegati ad altrettante direttive e spalmati su cinque anni: dal 2003 al 2008. Suggerimenti positivi, in questo caso, che conoscono tempi di discussione e approvazione ben diversi da quelli che seguono.

Perché il nostro Paese, a volte, rincorre. Ogni anno infatti sforna decreti delega al Governo per ridurre il lungo elenco di procedure di infrazione aperte. Certe volte, però, anticipa -muovendosi lungo un secondo e spedito binario. Specie in materia di adozione di accordi di natura finanziaria e monetaria, dove il percorso “convenzionale” di recepimento sfuma. Su tutti è emblematico il caso dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio (Fiscal compact), diretta conseguenza del “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria” datato 2 marzo 2012 nonché plastico esempio del “ce lo chiede l’Europa”. All’articolo 11 prevede che i Paesi “contraenti” si accordino nel discutere “ex ante e, ove appropriato, coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che intendono intraprendere” con la supervisione dell’Ue (come la legge di stabilità, ad esempio). Una misura che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definì venti giorni più tardi come “ineludibile”. Il 20 aprile 2012 il Parlamento italiano mette quindi mano alla Costituzione, premettendo ad esempio al primo comma dell’articolo 97 della Costituzione che “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”, o garantendo ancora “osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea” (all’articolo 119). Ma è una scelta che non dipende da una richiesta “ineludibile” dell’Europa, visto che il Trattato indicava la via costituzionale come “preferibile” e non obbligata. Ma il coro “ce lo chiede l’Europa” era troppo insistente per poter leggere con più attenzione il Trattato, che impone peraltro ai Paesi con debito pubblico oltre il valore di riferimento del 60% una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno (il 5% del nostro attuale debito pubblico, 2.085 miliardi di euro nell’ottobre 2013, è pari a 104 miliardi di euro).
Così come maggiore attenzione avrebbe potuto richiedere il “Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità” stipulato il 2 febbraio 2012 e approvato dalle Camere nel luglio 2012. L’Italia ha sottoscritto il 17,9% del capitale, pari a una quota di oltre 125 miliardi di euro su 700 miliardi complessivi. Presentato come “strumento di assistenza finanziaria” dei Paesi membri in difficoltà, il Mes è un’istituzione finanziaria dotata di un consiglio di governatori, un consiglio di amministrazione e un direttore generale -oggi è il tedesco Klaus Regling-, che gode “dell’immunità da ogni forma di giurisdizione” e risulta “esente da obblighi di autorizzazione o di licenza applicabili agli enti creditizi”. In cambio del suo “sostegno”, però, pone “condizioni rigorose”, tra cui un “programma di correzioni macroeconomiche” per ciascun Paese in difficoltà. Come per la Grecia, per la quale siamo arrivati al terzo pacchetto di “aiuti”. In un Paese in cui il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 30%.
Sulla stessa frequenza sono i due regolamenti sottoscritti nel maggio 2013 a Strasburgo dal Parlamento europeo e dal Consiglio (cosiddetto “Two-pack”), volti a rafforzare sensibilmente la “sorveglianza (anche ‘rafforzata’, ndr) economica e di bilancio degli Stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria”. All’articolo 7 di uno dei due pacchetti (“programma di aggiustamento macroeconomico”) si legge che “uno Stato membro soggetto a un programma di aggiustamento macroeconomico che ha capacità amministrative insufficienti o incontra problemi significativi nell’attuare il programma chiede assistenza tecnica alla Commissione, che può formare a tale scopo gruppi di esperti composti da membri provenienti da altri Stati membri e altre istituzioni dell’Unione o da istituzioni internazionali pertinenti”. Quelle stesse istituzioni internazionali “pertinenti” che hanno operato in Grecia o Cipro. Misure, queste, che si aggiungono a un altro pacchetto -ugualmente e immediatamente recepito- che risponde al nome di “six-pack” (2011). Tra le “novità”, la possibilità di infliggere sanzioni nelle prime fasi del processo di sorveglianza (con costituzione, da parte degli Stati membri “a rischio”, di un deposito fruttifero pari allo 0,2% del loro Pil) e una serie di requisiti minimi che i quadri di bilancio nazionali degli Stati membri devono rispettare per conformarsi alle norme Ue.

Ultima in ordine di tempo è invece quanto stabilito il 15 ottobre 2013 dalla commissione Bilancio della Camera in merito alla comunicazione della Commissione europea intitolata “Verso un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita”. L’obiettivo è quello di incorporare entro cinque anni il principio “ex ante” del Fiscal compact nell’ordinamento generale dell’Ue, allargando il novero delle materie fino al “commercio e competitività”, “mercati finanziari” e “economia politica”, e promettendo come contropartita “un’assistenza finanziaria alle misure di accompagnamento volte a sormontare le possibili difficoltà sociali e politiche connesse all’attuazione delle riforme”. Persino la commissione V della Camera, presieduta da Francesco Boccia, ha chiesto di “chiarire come si possa conciliare il processo decisionale nazionale con il coordinamento ex ante, tenuto conto che il prospettato dialogo economico […] potrebbe non apparire sufficiente a garantire la piena legittimazione democratica al processo decisionale”. —

L’AGRICOLTURA, TRA OGM E “BIO” FERMO AL 1991
Le norme in materia di Ogm, nitrati, pesticidi, colture biologiche aiutano a spiegare le indicazioni europee e il conseguente comportamento del nostro Paese in materia di agricoltura. In tema di pesticidi e relativa regolamentazione l’Italia ha scelto una strada diversa rispetto ad altri, come Germania, Inghilterra e Danimarca. Strada che Cristina Micheloni, del board scientifico di Aiab (aiab.it), giudica sbagliata. “A fronte di direttive comunitarie e regolamenti -l’ultimo è il 528/2012- sull’uso sostenibile dei pesticidi gli altri Paesi hanno implementato l’utilizzo di prodotti alternativi, quali erbicidi, fungicidi, insetticidi o agito sulla formazione di chi ci opera quotidianamente. L’Italia, al contrario, ha preferito riconoscerne l’impiego prescrivendo un patentino per l’agricoltore interessato”. Per quanto riguarda gli organismi geneticamente modificati, invece, Micheloni definisce la strategia europea come “semplicistica e incompleta”, e ferma da più di 10 anni fa. A dimostrarlo, il principio contenuto nella direttiva 2001/18, ritagliato sulla cosiddetta equivalenza -“l’Ogm è sano”- e non sulla precauzione. A proposito di agricoltura biologica il riferimento è una sola data: 1991, anno a cui risale la normativa comunitaria ancora vigente, che risulta debole e non stringente verso le importazioni e fonte di prescrizioni burocratiche (certificazione su tutte) insopportabili per le aziende più piccole.

CONTRO L’EVASIONE FISCALE PAESI LASCIATI A SE STESSI
Nell’Unione europea non esiste un quadro normativo chiaro e definito per contrastare l’evasione fiscale che si verifica nei Paesi membri. A sostenerlo è Alessandro Santoro, professore associato di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, che dà conto di “diverse iniziative periodiche intraprese dall’Ocse (cosiddette “best practice”), per spingere i Paesi ad adottare politiche di contrasto all’evasione, demandando però alla sola volontà nazionale. L’unica eccezione riguarda quell’imposta che è effettivamente europea: l’Iva regolata dalla direttiva 77/338. Oggi -prosegue Santoro- un Paese non può cambiare la base imponibile, neppure le aliquote senza avere prima l’autorizzazione dell’Unione europea. Quello che potrebbe fare il nostro Paese, e che l’Europa ci ha chiesto di fare, è di porre un argine alla compensazione orizzontale e cioè al meccanismo tramite il quale i contribuenti in credito verso il fisco possono compensare il disavanzo con altri debiti tributari, anche Irpef o Ires. In presenza però di un’evasione del fatturato, ad esempio, si viene a creare un buco enorme, che è quello che ci rimprovera appunto l’Unione”. Qualche spiraglio è iniziato a vedersi invece in tema di scambio automatico di informazioni relative ai non residenti che investono o depositano i propri patrimoni in altri Paesi, anche grazie a una maggiore apertura della Svizzera seguito alla forte pressione degli Usa.

BIODIVERSITÀ: PASSI AVANTI TUTELANDO I CONTADINI
In materia di biodiversità e tutela delle varietà locali di sementi l’Unione europea ha cambiato, in parte, registro.
Dopo aver articolato l’intera legislazione degli ultimi 50 anni su criteri stringenti e limitativi -quali la registrazione delle varietà per la vendita e la certificazione-, il 6 maggio 2013 è stato aperto in sede di Parlamento europeo il dibattito sul nuovo regolamento sulle sementi, il cui mercato -a livello di sementi commerciali- vale in Europa 6,8 miliardi di euro.
La Rete semi rurali (semirurali.net) ha segnalato alcuni significativi passi avanti: dalla possibilità di scambio dei semi accordata anche a chi non pratica per professione la riproduzione, vendita o moltiplicazione del seme, alle deroghe riconosciute a specifiche varietà “di nicchia” prima costrette a seguire modelli di filiera standardizzati.
Tra gli aspetti più problematici, quello segnalato dalla commissione Agricoltura e produzione agroalimentare del Senato, che, nella risoluzione definitiva riguardo al regolamento comunitario -datata 9 ottobre 2013-, ha segnalato un eccessivo ricorso al potere di delega in capo alla Commissione europea -sottratto al controllo dei Parlamenti nazionali- in tema di “futuro aggiornamento tecnico-scientifico del settore riproduttivo vegetale”, che nel continente ha un valore delle esportazioni per 4,4 miliardi di euro.

NESSUN FRENO ALLE TRIVELLE SOTTO COSTA
Nella più recente proposta di legge di delegazione europea, messa a punto dal Governo nel novembre 2013, è contenuta la delega all’esecutivo dello schema di decreto legislativo necessario al recepimento della direttiva 2013/30 del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha per oggetto la “sicurezza delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi”. Accanto a due principi positivi -la responsabilità delle compagnie petrolifere rispetto ai danni causati all’ecosistema marino e l’obbligo di informazione e trasparenza nei confronti della cittadinanza- si rileva però che manca un divieto alle attività in aree marine “sensibili” e che mancata la previsione di concreti limiti da rispettare sulle distanze minime dalla costa. Resta aperta invece la procedura di infrazione a carico del nostro Paese per la normativa in materia di gestione dei rifiuti derivanti da attività di estrazione, che deve essere adeguata alla direttiva 2006/21/CE. “Le inadempienze contestate -come ha ricordato più volte il nostro Pietro Dommarco sul suo blog “La vita dopo il Petrolio” su altreconomia.it- riguardano, principalmente, carenze nei ‘settori quali l’informazione al pubblico, il trattamento dei vuoti di miniera, la manutenzione successiva alla chiusura nonché lo scambio di informazioni con altri Stati membri in caso di incidente’”.

L’ITALIA RISCHIA 5 MILIARDI PER LE CARCERI AFFOLLATE
L’8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha “dichiarato” l’Italia responsabile della violazione dell’articolo 3 (“Proibizione della tortura”) della Convenzione per i diritti dell’uomo che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti
inumani o degradanti”. Tra il 2009 e il 2010 contro il nostro Paese sono stati avanzati 7 ricorsi da altrettanti detenuti delle carceri di Busto Arsizio (Va) e Piacenza. Costretti a gruppi di tre entro celle di 9 metri quadrati, hanno denunciato tra l’altro la mancanza di acqua calda e l’insufficienza di luce negli ambienti penitenziari. A partire in primo luogo dal tasso di sovraffollamento registrato nel 2012 (67mila detenuti per 45mila posti regolamentari, pari al 148%) la Corte ha disposto un risarcimento a carico dell’Italia pari complessivamente a 104mila euro circa. La “sentenza Torreggiani” è un procedimento pilota, e congela per un anno -fino a maggio 2014- “tutte le cause non ancora comunicate aventi unicamente ad oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia” in attesa che vengano adottate le misure necessarie (riduzione del ricorso alla custodia cautelare, ad esempio). L’ultimo censimento dei posti effettivi in carcere parla di 37mila. A novembre 2013 i detenuti erano 64.253, cioè il 173%. Nel caso in cui le procedure contro il nostro Paese fossero “sbloccate” potremmo trovarci a riconoscere risarcimenti per oltre 5 miliardi di euro.

SUL REATO DI TORTURA ROMA NON CI SENTE
L’ultima e più recente intimazione di natura europea a introdurre la fattispecie del reato di tortura nel Codice penale italiano è giunta nel novembre 2013 da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (Cpt, cpt.coe.int), un’agenzia del Consiglio d’Europa.
Dal 1984 il nostro Paese è tenuto infatti a dar seguito alla Convenzione Onu in materia, che ha a suo tempo ratificato.
Si è già adeguato -nel frattempo- il Codice penale militare di guerra italiano, dov’è stato inserito nel 2002 il reato, all’articolo 185bis, mentre il Parlamento non ha ancora discusso il testo licenziato dalla commissione Giustizia del Senato il 22 ottobre 2013.
Disegno di legge che è stato peraltro fortemente criticato dalle associazioni attive in materia da decenni, Antigone (associazioneantigone.it) su tutte, per la sue caratteristiche: il reato sarebbe “a-specifico”, mentre secondo la giurisprudenza internazionale può essere autore del reato di tortura il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio. Manca anche la previsione di un fondo nazionale a sostegno delle vittime e dei congiunti. Al rinnovato invito del Cpt, il Governo italiano ha replicato rimandando al contenuto di alcuni articoli già presenti nel nostro codice penale, già predisposto -secondo l’esecutivo- a tutelare libertà e dignità dell’individuo. 

SI TUTELA LO STOCK DI PESCE CON LO STRASCICO?
Nel dicembre 2013 il Parlamento europeo ha approvato un accordo collegato alla riforma della Politica comune sulla pesca 2014-2020 (Pcp) definito “storico” dai promotori della campagna “Ocean2012”, che dal 2009 proponeva una profonda revisione dello strumento comunitario per arginare la pesca distruttiva. Accanto alle importanti novità introdotte, come l’impegno a ricostruire gli stock ittici e porre fine al sovrasfruttamento della fauna e delle acque nel 2015 (con termine aggiuntivo al 2020), la nuova Pcp prevede un adeguato censimento delle scorte, per consentire agli stock di crescere fino al rendimento massimo fissando margini e quote prestabilite di “cattura”.
Pessime notizie invece dal fronte del contrasto della pesca a strascico, visto che per pochi voti (342 contro 326) lo stesso Parlamento europeo non ha approvato la proposta per l’eliminazione dello strascico e delle reti profonde. La richiesta originaria, che era stata approvata dalla Commissione europea e votata con maggioranza schiacciante dalla commissione Ambiente del Parlamento europeo, è stata rifiutata dalla commissione Pesca dello stesso Parlamento.

AFRICA E FREE TRADE, SULLA SCIA DELLA WTO
L’Unione europea persegue una politica sempre più aggressiva per forzare i Paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) a firmare gli EPA (Economic Partnership Agreements, Accordi di partenariato economico). La trattativa dura da quasi dieci anni, tuttavia l’Ue esige che entro il 1 ottobre 2014 gli Accordi siano siglati (questo è il primo passo che precede la vera e propria firma, che può avvenire anche a diversi mesi di distanza dopo la soluzione di tutti gli aspetti legali).
Le relazioni commerciali tra la UE e i Paesi ACP sono state regolate dalla Convenzione di Lomé (1975-2000) e poi di Cotonou (2000-2020) con la clausola che i prodotti ACP -prevalentemente materie prime- potessero essere esportati nei mercati europei senza essere tassati. Questo però non valeva per i prodotti europei esportati nei Paesi ACP, che devono invece sottostare a un regime fiscale di tipo protezionistico. Ora la UE chiede ai Paesi ACP di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio perché così richiede il WTO (Organizzazione mondiale del commercio) che persegue la politica di totale liberalizzazione del mercato. Con gli EPA, infatti, le nazioni africane saranno costrette a togliere sia i dazi sia le tariffe oltre ad aprire i loro mercati alla concorrenza. La conseguenza potrebbe essere drammatica per i Paesi ACP: l’agricoltura europea potrà svendere i propri prodotti sui mercati dei Paesi impoveriti.

I QUINDICI ANNI DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA
Col primo gennaio 2014 la Banca centrale europea compie 15 anni di “onorato servizio”, anche se la sua istituzione risale a sei mesi prima dell’inizio dell’operatività: la sua nascita avvenne infatti il primo giugno 1998, sulla base del Trattato sull’Unione europea e dello “statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea”. Da allora, tutte le funzioni di politica monetaria e in particolare la gestione del tasso di cambio delle allora undici banche centrali nazionali furono trasferite alla Bce. La Banca è dotata di una personalità giuridica autonoma, può emanare decisioni e formulare raccomandazioni e pareri (pur se non vincolanti). Deve però essere consultata dalle altre istituzioni dell’Unione per progetti di modifica dei trattati che riguardino il settore monetario, oltre che per ogni atto dell’Unione riguardante materie di sua competenza.
Il compito principale della Banca centrale europea è mantenere sotto controllo l’andamento dei prezzi, monitorando il potere d’acquisto nell’area dell’euro. Per farlo attua una politica di controllo dei tassi di interesse, che spesso non tengono conto degli effetti su occupazione e produzione. A partire dal novembre 2011 la Bce ha iniziato a stanziare fondi al sistema bancario. Tuttavia non ha mai assunto il ruolo di prestatore di ultima istanza (non acquista direttamente titoli di Stato). La Bce è del tutto indipendente dagli organi comunitari e dalla politica (e quindi dal controllo dei cittadini).

L’EUROPA È UNA FORTEZZA CHE RESPINGE E RIMPATRIA

Respingere, espellere, rimpatriare: è ciò che fanno i Paesi europei nell’ambito delle “politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare”. In questa “categoria di intervento” lavora Frontex (frontex.europa.eu), l’agenzia europea per la gestione delle frontiere, istituita nel 2004. È uno degli strumenti chiave su cui si fonda la politica europea di “gestione integrata” delle frontiere esterne, ed è dotata di un budget autonomo che è passato da circa 19,1 milioni di euro nel 2006 agli 84,9 milioni del bilancio preventivo 2012, toccando però nel 2011 i 118,1 milioni di euro. Complessivamente gli stanziamenti assegnati all’agenzia dal 2006 al 2012 hanno raggiunto un totale di ben 515,8 milioni di euro. “Le attività di sorveglianza e controllo delle frontiere esterne svolte da Frontex -si legge in un rapporto di Lunaria- hanno come priorità quella di impedire l’arrivo dei migranti irregolari in Europa lasciando in secondo piano le attività di pronto soccorso in mare: così il numero di persone che muoiono nel Mediterraneo (18.673 quelle monitorate tra il 1988 e il novembre 2012 da FortressEurope) è destinato a crescere”. Per i rimpatri è stato anche istituito un Fondo europeo, dotato tra il 2008 e il 2013 di 676 milioni di euro, risorse che servono per cofinanziare -con una quota tra il 50 e il 75%- i costi di azioni proposte dai Paesi membri. Il programma pluriennale ha previsto per l’Italia 68 milioni di euro, quota aumentata di anno in anno. (mb)

SULLA QUALITÀ DELL’ARIA NORME UGUALI PER DIVERSI
La qualità dell’aria che tira dipende dal rispetto o meno della normativa europea.
A partire dalla classificazione dei veicoli in base alle emissioni -partita nel 1991 e giunta alla quinta categoria nel 2011- fino alle norme che impongono standard qualitativi in linea con le migliori tecnologie disponibili per le emissioni delle industrie. La rigidità imposta da norme generali valide per tutti -dalla Svezia all’Italia- fa sì che si presentino però scenari dalla difficile attuazione. Un esempio su tutti è la collocazione di un’identica “asticella” per la concentrazione di microgrammi di pm 10 (utilizzata come indicatore per la qualità) nelle zone dove il vento è 5-6 metri al secondo e in Paesi come il nostro dove la velocità media è di 0,9 m/s.
La direttiva di riferimento è la 2008/50/CE, che prescrive un limite massimo di superamento della soglia per il pm 10 (50 microgrammi) non superiore ai 35 giorni annui.
In Lombardia oggi si sfora per circa 100 giorni all’anno, o -quando si è fortunati- per 90 (ma nel 2003 i giorni di superamento erano 150). Il nostro Paese risulta puntualmente inadempiente in materia di inquinamento, data la doppia infrazione per “mancato recepimento” e “violazione del diritto dell’Unione” delle direttive 2008/1/CE e 2010/75/UE.

ACQUA, RIFIUTI, TRASPORTI: L’UE, I SERVIZI E IL MERCATO
In Italia non c’è una legge quadro sull’acqua. Per questo, gli unici riferimenti certi sono la direttiva europea in materia di tutela dei corpi idrici superficiali (2000/60). Un punto di forza che è in aperta contraddizione con il “Water blue print”, il piano strategico votato in Commissione europea nel 2012 e valido fino al 2030. “Pur ribadendo i principi della direttiva 2000/60 -spiega Roberto Fumagalli, del Comitato italiano per un contratto mondiale sull’acqua- assegna all’acqua un valore di rilevanza economica, rivolgendosi al mercato quale unico soggetto in grado di tutelarla piuttosto che al pubblico”. Contraddizione che impera in materia di servizi pubblici locali, dove tramite il “pacchetto agenda dei servizi” l’Ue, pur non obbligando di fatto i Paesi membri a mettere sul mercato l’acqua o la gestione dei rifiuti, costringe chi fosse costretto a liberalizzare a seguire criteri di concorrenza sfrenata. In questo caso, quindi, l’Unione europea non offre buoni consigli. Celebre la lettera che il 5 agosto 2011, a poche settimane dal referendum del 12 e 13 giugno, la Banca centrale europea -nelle figure di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet- scrisse all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locale -la linea della Bce- attraverso privatizzazioni su larga scala”.

PIÙ PARTECIPAZIONE SULL’IMPATTO AMBIENTALE
Nei primi giorni di ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approva la nuova Direttiva sulla valutazione d’impatto ambientale (Via), che potrebbe diventare legge entro il 2016 (dopo il passaggio in Consiglio e in Commissione). Il testo dovrà essere recepito all’interno dell’ordinamento nazionale. Tra le novità più significative della nuova direttiva, il cui relatore è l’italiano Andrea Zanoni, c’è l’introduzione dell’obbligo di piena informazione dei cittadini in merito ad ogni eventuale “revisione del rapporto ambientale”: quando, per fare un esempio, viene modificato il tracciato di una strada sottoposta a Via, mentre l’iter della valutazione è in corso, i cittadini devono essere nuovamente consultati.
La revisione prevede anche lo stop al cosiddetto “salami slicing”, ovvero alla valutazione ambientale di parte separate di un singolo progetto. Diverrà fondamentale, anzi, analizzare l’effetto cumulo con altri progetti. La dimensione degli interventi che dovranno essere sottoposti a Via resterà nella discrezione degli Stati membri. Per il principio di sussidarietà, l’Ue non può dettagliare, come non può stabilire le sanzioni. In merito a queste, però, la nuova Direttiva prevede che ogni Stato membro sia chiamato ad approvarle, e dovranno essere proporzionate e dissuasive in caso di violazione alle norme che derivino dalla Direttiva. Dovrà essere garantita l’assoluta indipendenza dell’autorità competente dal committente: l’Ue norma il conflitto d’interesse.

L’UE TUTELA BIG SODA, A DISPETTO DELLA SALUTE
In materia di salute e alimentazione il caso più recente di confronto tra la normativa comunitaria e quella italiana è quello del tentativo (fallito) di incrementare dal 12% al 20% la percentuale di succo naturale di frutta nelle bevande analcoliche a base di frutta ai fini della commercializzazione e denominazione delle stesse. Ci aveva provato, nel settembre 2012, il ministero della Salute, retto all’epoca da Renato Balduzzi, presentando il provvedimento come un importante tassello per la “promozione di più corretti stili di vita anche in ambito alimentare” -in linea con il Libro bianco della Commissione europea intitolato “Una strategia europea sugli aspetti sanitari connessi all’alimentazione, al sovrappeso e all’obesità” del 30 maggio 2007-. Ma il decreto Balduzzi è stato giudicato “lesivo delle norme europee in materia di libera circolazione delle merci” e “incompatibile” con le disposizioni dell’Ue. Dopo l’apertura di un caso Eu Pilot il Governo ha dichiarato inapplicabile e inopponibile a terzi la norma, dandone comunicazione a tutti gli assessorati alla Sanità delle Regioni italiane. Chi ha accolto con giubilo la notizia sono state Assobibe e Mineracqua, associazioni di Confindustria che rappresentano il settore delle bevande analcoliche. Il 18 luglio 2013, però, l’europarlamentare Aldo Patriciello ha presentato una mozione per l’introduzione del limite minimo del 20% nei soft drink (compresi i succhi di frutta).

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