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Cultura e scienza / Intervista

Carla Benedetti. Salvarsi, sentendosi terrestri

Carla Benedetti alimenta il “Cantiere umanistico dell’Antropocene” che nasce come luogo di scambio di conoscenze ed elaborazione di prospettive sul ruolo che le discipline umanistiche, e la letteratura in particolare, possono svolgere nel contrastare le trasformazioni devastanti dell’ambiente

Carla Benedetti spiega che per stimolare un cambiamento di fronte all’Antropocene occorre mettersi nei panni di chi verrà dopo di noi. La letteratura è una forza rigenerante

Tratto da Altreconomia 237 — Maggio 2021

Le prime quattro righe del saggio di Carla Benedetti incollano il lettore alla pagina: “Mettersi nei panni degli uomini che vivranno dopo di noi è un processo cognitivo ed emotivo più complicato di quanto si potrebbe pensare. Solo pochi ‘acrobati del tempo’ ci riescono”. Benedetti -che insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Pisa- ha scritto un libro che usando letteratura, filosofia e poesia vuole offrire strumenti per affrontare la sfida più grande nella storia della nostra specie, il rischio della scomparsa dell’umanità. Il titolo è “La letteratura ci salverà dall’estinzione” (Einaudi), senza punto di domanda. L’autrice però s’interroga e prova a rispondere a questioni aperte: “Perché mai gli uomini di oggi dovrebbero sentire distante la minaccia che pesa sui loro figli e nipoti?”, “perché la conoscenza che ormai abbiamo acquisito (sugli effetti dei cambiamenti climatici, ndr) non riesce a creare un positivo senso di emergenza?”.

Nel libro fa riferimento alla letteratura come “forza suscitatrice”, ruolo oggi venuto meno: perché?
CB Gli antichi, ma anche scrittori moderni, avevano della letteratura un’idea diversa da quella diffusa nel secondo Novecento. L’idea di una parola potente, che non solo rifletta come si pensa oggi il mondo ma possa influire sul mondo, essere “forza agente”. Platone ne “La Repubblica” non ammette i poeti: dice che la loro parola è pericolosa, che può corrompere anche le menti più sane. Ne riconosce, anche se in negativo, un ruolo. L’estetica moderna ha attribuito invece alla letteratura una funzione secondaria, come strumento di conoscenza: è qualcosa che riflette i cambiamenti che avvengono nel mondo e provengono da altri saperi, come la scienza, ma che non può provocare dei mutamenti. Per gli antichi, ma anche per un poeta come Giacomo Leopardi (morto nel 1837), le opere costruite attraverso la parola hanno invece una forza rigenerante. È difficile definire perché nel nostro tempo questa funzione sia poco percepibile. Lo scrittore indiano contemporaneo Amitav Ghosh (autore, tra gli altri, di “La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile”, Neri Pozza) dice che questo impoverimento è concomitante alla grande accelerazione, cioè che lo sviluppo di tecnologia, società industriale, capitalismo, imperialismo, abbiano sminuito la letteratura. Che la modernità abbia cioè tolto le armi alla letteratura.

Qual è stato, storicamente, il ruolo dei posteri, l’empatia verso chi verrà dopo di noi e perché oggi questo meccanismo non funziona?
CB L’illusione della posterità è stata essenziale in letteratura e in tutte le opere dell’uomo, che sia costruire una diga o una cattedrale. Siamo la prima generazione che vive di fronte alla prospettiva di una possibile estinzione di specie e questo presupposto vacilla. Non è un problema specifico della letteratura. Da un punto di vista intellettuale possiamo capire che tutte le specie viventi, anche quella umana, potranno avere un termine, ma diverso è sentirlo come un rischio imminente. Lo rimuoviamo, più che non sentirlo. Nel libro ricordavo l’immagine degli acrobati del tempo, coniata dal filosofo tedesco Günther Anders (è morto nel 1992, ndr) per descrivere coloro che sanno sentire il vacillare di questo presupposto implicito della posterità, viverlo con tutte le loro forze sentimentali e fanno qualcosa per scongiurarlo. Se riuscissimo a immaginare davvero la sofferenza delle popolazioni future correremmo subito al riparo con un senso di urgenza ed emergenza maggiore. Questo sentimento empatico è addormentato: sappiamo ma non sentiamo.

“La scienza e la divulgazione sui rischi ambientali non riesce a smuovere un’azione adeguata. È quello che constatiamo: non si può parlare solo all’intelletto, alla conoscenza, alla ragione strumentale”

In che modo la paura può essere identificata come un agente positivo, di empatia e di mobilitazione?
CB La paura può avere tante sfaccettature: può anche portare alla rimozione, alla paralisi. Come diceva Anders, c’è anche una “paura amante”, che ci fa uscire dalle nostre tane, che ci fa preoccupare per il mondo, non solo per noi stessi. Lo stesso Anders diceva “ci dicono che viviamo in un mondo dominato dall’angoscia e dalla paura, ma non è vero, viviamo in un mondo dominato dalla paura della paura”; nel libro ricordo Greta Thunberg, che ai potenti dice “non vogliamo le vostre speranze, ma che abbiate paura come ne ho io”, dobbiamo agire perché la casa è in fiamme. La paura se unita a un senso di emergenza, di intollerabilità per ciò che stiamo provocando, allora può avere un risvolto positivo. Di solito la spostiamo, invece di attraversarla e di guardarla in faccia, la catastrofe verso cui siamo diretti.

Una ragazza durante una manifestazione a Birmingham promossa da Extinction Rebellion © Vladimir Morozov akxmedia – Extinction Rebellion

Perché le conoscenze scientifiche non rappresentano uno strumento efficace?
CB La scienza e la divulgazione sui rischi ambientali non riesce a smuovere una azione adeguata. È quello che constatiamo: non si può parlare solo all’intelletto, alla conoscenza, alla ragione strumentale. Sapere non basta, occorre smuovere qualcosa. Non credo che la tecnologia abbia colpe, ma certe visioni che ritrovo anche in grandi scienziati e definisco “apocalittiche” danno la catastrofe per inevitabile. C’è chi parla di ragioni storiche, economiche, di forze produttive, chi afferma che nel nostro DNA ci sono forze aggressive per cui non potremmo mai cambiare e l’unica cosa che possiamo sperare è spostarci su un altro Pianeta. A me sembra una posizione incredibile: si ipotizza di trasbordare l’umanità, o alcuni privilegiati, ma non si ammette l’ipotesi di una metamorfosi dell’uomo. È una visione apocalittica: non è la fiducia nella tecnologia che porta questa visione, ma una lettura sbagliata dell’uomo.

Nel saggio evidenzia il ruolo dei giovanissimi, quelli che sono tornati in piazza nel 2021 il 19 marzo (Fridays For Future) e il primo aprile (Extinction Rebellion).
CB Credo nei giovanissimi: la fanciullezza rappresenta una delle zone meno sorvegliate, al pari della letteratura e della cultura post coloniale. Essa è, e so di condividere questa impressione con Giacomo Leopardi e Hannah Arendt, un momento in cui l’individuo umano si affaccia alla vita e la sua mente non è ancora stata normalizzata dai paradigmi dominanti. La fanciullezza è uno spazio di maggiore libertà e maggiore sensibilità. Ecco perché non è strano che la più grande forza suscitatrice di fronte all’emergenza di specie ci sia venuta dai giovanissimi, non ancora impregnati dalla cultura del tempo, accecante e radicata nella modernità occidentale che ci fa pensare che il nostro mondo sia l’unico possibile, che si può sapere e non agire. Per un giovane, questo non può essere tollerato. Arendt scrive che l’uomo non nasce per morire ma per ricominciare e che ogni nuova vita che si affaccia è un ricominciare di nuovo.

“La fanciullezza è uno spazio di maggiore libertà e maggiore sensibilità. Ecco perché non è strano che la più grande forza suscitatrice di fronte all’emergenza di specie ci sia venuta dai giovanissimi”

Riflettendo intorno al concetto di Antropocene, arriva a usare un’altra parola per definire la nostra condizione: terrestri. Perché è importante riconoscersi come terrestri?
CB Terrestri è una parola primaria, non tecnica come Antropocene, che presenta delle ambiguità, nonostante l’effetto positivo che ha avuto. La storia umana, ad esempio, non è limitabile dentro uno spazio di secoli e decenni che escluda il tempo profondo della Terra, dell’evoluzione della specie, del cosmo. Antropocene ha dentro l’idea che tutto è in mano all’uomo, nel bene e nel male: è l’età dell’uomo. Terrestri è qualcosa che ci ricorda quello che siamo innanzitutto: non siamo italiani, europei, occidentali, cristiani, musulmani, identità parziali che spingono al conflitto; siamo cittadini di questo habitat incredibile e irripetibile che è quello terrestre, e lo siamo insieme ad altri organismi viventi, piante, animali, batteri e virus. Se riusciamo ad evolvere in questo Pianeta lo dobbiamo anche a loro. La modernità ha portato tutto su un piano di spiegazioni di tipo storico, economico, sociale e psicologico, senza vedere questo intreccio complesso di dinamismi biochimici che costituiscono l’habitat terrestre. Terrestri è un termine che può avere forza suscitatrice, a differenza di Antropocene, perché corregge la visione che abbiamo di noi stessi, dell’uomo e dell’uomo dentro il mondo e l’allarga al non umano. I terrestri non sono solo gli uomini, ma anche i batteri o le piante, forze non umane che sono importantissime per il mantenimento dell’habitat.

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