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Campioni d’Africa

La locomotiva Sudafrica fa i conti con la crisi economica e con una classe politica non all’altezza dei leader del post-apartheid

Johannesburg (Sudafrica) – “Non aspettate il 2010 per venire da noi”, recita a caratteri cubitali il manifesto dei Mondiali di calcio dell’anno prossimo. Ma non hanno atteso il fischio d’inizio i 207mila richiedenti asilo, quasi tutti africani, che nel 2008 hanno presentato domanda qui. Non chiedono un biglietto per lo stadio, ma un documento per la partita della sopravvivenza. Prima di attirare turisti e tifosi, il Sudafrica continua a essere un polo d’attrazione continentale, capace di raccogliere il più alto numero al mondo di richieste individuali d’asilo. Se Johannesburg avesse il mare, sarebbe la Lampedusa degli antipodi. Perché il Sudafrica è ancora la locomotiva economica del continente, e anche se un po’ imbolsita dalla recessione continua a magnetizzare i migranti diretti verso Sud, in alternativa alle rotte del Mediterraneo. “Ricordiamoci che il nostro primo obiettivo è lo sradicamento della povertà”, ripete da anni Nelson Mandela. Un mantra che il Grande Vecchio ha ripetuto poche settimane fa, alla vigilia delle elezioni di aprile. Il Sudafrica deve abbattere l’ultima forma di segregazione: quella economica, per riscattare quel 50% dei suoi abitanti -su un totale di 46 milioni- che vive in povertà. Non solo sudafricani, però. Le stime ufficiose, difficili da verificare ma concordi, indicano almeno 3-4 milioni di immigrati, in gran parte dal confinante Zimbabwe. L’ennesimo invito del Premio Nobel per la pace a combattere la povertà potrebbe -questo sì- essere il fischio d’inizio del Sudafrica “post-Mandela”. L’esortazione è riecheggiata con la voce un po’ biascicata di Mandela nell’Ellis Stadium di Johannesburg, che ospiterà la partita d’apertura del Mondiale 2010. Madiba (come lo chiamano qui) è apparso a sorpresa all’ultimo comizio elettorale del suo partito, l’African National Congress (Anc), a fianco dell’eccentrico candidato Jacob Zuma, diventato poi presidente. Quando i 65mila sugli spalti -magliette e cappellini gialli col colore dell’Anc, nella foto sotto- hanno scandito “Our president”, gridavano “nostro presidente” solo e soltanto a Mandela. La sua presenza ha trasformato quell’evento in un passaggio di consegne definitivo. Nello stadio si è consumato qualcosa in più di un coreografico comizio elettorale: quasi un addio definitivo dell’ex-presidente. Quel Mandela che a Zurigo balzò in piedi come un leone a maggio del 2004, quando la Fifa assegnò il mondiale al Sudafrica, sedeva immobile e stanco accanto a Zuma, sul terreno dell’Ellis Stadium.
Crisi mineraria. E mentre volta pagina sul piano politico, la locomotiva-Sudafrica sbuffa sotto i colpi della crisi planetaria. “Le compagnie minerarie locali stanno lottando per trovare acquirenti sul mercato internazionale. Chi perde, taglia produzione e dipendenti” sostiene Tony Twine, direttore di Econometrix, uno dei principali istituti di ricerca economica del Paese. Il settore minerario -spiega- dà lustro al Sudafrica, uno dei principali produttori d’oro al mondo, ma costituisce solo il 6% del Pil. Ora nel Paese arcobaleno l’economia si è tinta di grigio. Il tasso di disoccupazione ufficiale è del 23%, anche se tocca punte del 40-50% in alcune zone. Al numero dei senza-lavoro si è aggiunta la maggior parte dei dipendenti della “East Rand Proprietary Mines”, una miniera nel ricco bacino aurifero del Witwatersrand, circa venti chilometri a est di Johannesburg. Sui cancelli d’ingresso dell’impianto, è scritto che non si sono verificati incidenti negli ultimi 181.572 turni di lavoro. “One year fatality free”, un anno senza vittime. Quest’anno rischia di diventare però anche senza lavoratori. “Oltre 1.400 minatori sono stati licenziati a gennaio” ci dice il delegato sindacale Nkululeko Kositata. I lavoratori del settore minerario sudafricano costituiscono la maggioranza del Cosatu, il potente cartello sindacale che alle ultime elezioni ha appoggiato Zuma. Le conseguenze di questi licenziamenti si abbattono ben oltre 1.400 minatori, toccando famiglie molto spesso monoreddito e comunque allargate. Athenkosi Qakamba, 29 anni, è uno dei licenziati. “Dal 2005 lavoravo nelle gallerie per l’estrazione dell’oro, a 2 chilometri di profondità”. È dura in quei cunicoli dove si respira a fatica. “Eppure -si lamenta- noi ce l’abbiamo messa tutta per salvare la società. Non credo alla loro crisi, dovresti spulciare nei bilanci”. Stando al sito internet della Drd Gold, che controlla l’impianto, nel 2008 la miniera ha prodotto quasi 80mila once d’oro, 2,2 tonnellate. E generato un profitto pari a quasi 3 milioni di euro.
Povertà senza colore. La crisi provoca ripercussioni negli equilibri della distribuzione dei posti di lavoro nelle diverse comunità. Ne è convinto Jaco Kleynans, portavoce di “Solidarity”, principale organizzazione sindacale e di assistenza degli afrikaaner. La tendenza in un momento di recessione “è di garantire impieghi ai lavoratori neri, che in passato sono stati svantaggiati. Questo però esclude dal mercato gli afrikaaner, i sudafricani bianchi e le altre minoranze” ci spiega nel suo ufficio di Pretoria. Intorno a questa città esistono decine di insediamenti informali. Sono le nuove township, dove vivono i bianchi che hanno perso il lavoro dopo la fine dell’apartheid. Ora vi si aggiungono le vittime della crisi economica. “La scorsa settimana sono arrivate una quarantina di persone chiedendo assistenza -racconta Sharon De Lange, che da anni gestisce una sorta di casa d’accoglienza-. Non so perché, ma negli ultimi tempi il numero di richieste è aumentato molto: 5-6 persone nuove al giorno. Sono ben vestite, probabilmente hanno perso casa e lavoro”. Dapprima riservata a disabili e persone con disagio psichico, da qualche mese la sua “Casa dello zio Ben”, una struttura indipendente, ospita anche i nuovi poveri della minoranza bianca. Tra gli ultimi arrivati c’è Corynne, 39 anni. Impiegata, dice di essere stata licenziata senza una spiegazione. “Ho buone conoscenze informatiche e di gestione finanziaria. Ma pare che non servano più”. Scuote la testa: “Ho vissuto per strada alcune settimane. È incredibile il numero di bianchi che ho incontrato nelle mie stesse condizioni qui a Pretoria”. Ora alloggia in una tenda nel giardino della Casa. Ci mostra la sua sistemazione, che condivide con un’altra signora sulla quarantina in analoghe condizioni. “Certo -sorride- non è proprio una casa. Rispetto al marciapiede, mi sembra quasi un hotel a cinque stelle”.
Un istrione al potere. Per far ripartire la locomotiva, i sudafricani hanno scelto ancora l’Anc. Però col voto di aprile hanno cambiato macchinista. Dopo il compassato Thabo Mbeki, ora c’è l’istrionico Jacob Zuma. Di origine zulu, poligamo e un pò spaccone, è il primo che non proviene dalla classe intellettuale. Mandela, il padre del Sudafrica democratico, trascorse 27 anni in carcere. Il nuovo padrino dell’Anc ha appena evitato due processi per corruzione e stupro. Un’impietosa vignetta di Saphiro, il disegnatore satirico più famoso del Paese, lo ritrae con un tubo della doccia che esce dal cranio pelato. Fu pubblicata un paio d’anni fa, subito dopo una deposizione davanti a un giudice nella quale Zuma ammise di aver abusato di un’amica di famiglia sieropositiva. Precisò anche di aver fatto subito una doccia “per evitare il contagio”. Oggi Zuma -che ha passato 10 anni in carcere per l’impegno anti-apartheid- è chiamato a gestire un Paese con uno dei tassi più alti al mondo di Aids. “È un pericolo per la democrazia” ha detto di lui Hellen Zille, sindaco di Cape Town e leader del partito di opposizione Democratic Alliance. Zuma, secondo il premio Nobel Desmond Tutu “non è adatto” al ruolo di presidente. Paul Graham, direttore dell’Istituto per la democrazia in Sudafrica (Idasa), ci ha detto che su Zuma c’è “molta polarizzazione nel Paese e tanta sfiducia all’estero”. Dopo 97 anni di storia, l’Anc ha subìto una spaccatura. Un gruppo di dissidenti interni ha creato il Congresso del popolo. In 100 giorni hanno conquistato l’8% alle elezioni, rompendo il consenso pressoché unanime intorno al partito al potere dal 1994. “L’Anc è il nostro passato ma anche il nostro futuro” ci dice Elisabeth, studentessa di 24 anni incontrata a Soweto. “Però -aggiunge- concedo solo 5 anni di tempo a Zuma: sono pronta a cambiare se non manterrà le promesse”.

In ritardo sul Mondiale
Il ta-ta-ta-ta-ta dei martelli pneumatici scandisce il ritmo della giornata persino nel ricco quartiere di Rosebank, a nord di Johannesburg.
Ma il “Gautrain” -il treno superveloce per il collegamento con Pretoria- non sarà pronto per i Mondiali dell’anno prossimo. “Non era stato progettato per questo evento”, ammette un operaio col caschetto giallo in testa (nella foto a destra, un cantiere). Per il Soccer City -che con i suoi 94.700 posti a sedere ospiterà la finalissima della Fifa World Cup- è una corsa contro il tempo.
Ma, soprattutto, contro tante regole: da quelle per la sicurezza a quelle contrattuali nelle assunzioni. Il giro d’affari complessivo del Mondiale 2010 potrebbe sfiorare i 3 miliardi di euro. Difficile capire le ricadute effettive per il Sudafrica e la sua gente. I costi sono lievitati oltre il 30% e al Governo sudafricano mancano 350 milioni di euro.
Poi c’è l’incognita sicurezza, in un Paese che nel 2008 ha registrato quasi 18mila omicidi. Senza dimenticare che molti quartieri di Jo’burg -come qui chiamano Johannesburg- resteranno comunque “off-limits” per gli stranieri durante il campionato di calcio.

I disperati dello Zimbabwe
FUGGITI DA UN PAESE ALLO SBANDO, TROVANO RIFUGIO A JOHANNESBURG GRAZIE ALLA CHIESA METODISTA
“Di notte devi stare attento a non calpestare le persone che dormono su questi gradini” avverte Alpha. Alle sei di sera qui dentro è già un formicaio. Tra un paio d’ore sarà impossibile districarsi tra i corpi coricati. L’indirizzo della “Central Methodist Church”, nel cuore di Johannesburg, lo conoscono tutti. Questa chiesa protestante è l’ostello informale e gratuito più grande dell’Africa. “Ospitiamo quasi 3mila persone ogni sera” ci spiega il vescovo Paul Verryn, un utopista molto concreto che sta realizzando un progetto senza eguali in Sudafrica. “Accogliamo chi ha bisogno, persone che portano una straordinaria ricchezza”. Nove su dieci sono immigrati irregolari dallo Zimbabwe, dice il coordinatore Alpha Zhou. Anche lui viene da lì. Ex-insegnante, fuggì nel 2006 dalla repressione del regime di Mugabe. Ora è anche il direttore della scuola organizzata all’interno, con 500 allievi. La massa enorme di “ospiti” occupa ogni centimetro quadrato di questo edificio a cinque piani. Compreso il loggione semi-circolare della cappella, all’interno del quale un odore acre punge le narici. Lì a quest’ora ci sono un centinaio di persone. Le donne e i neonati alloggiano in una specie di sotterraneo: ogni mamma ha diritto a un paio di metri quadrati. Al quinto piano c’è un asilo. Al quarto l’infermeria. Il resto è un gigantesco dormitorio. Per letto s’intende il pavimento. Ma non s’arriva qui solo dallo Zimbabwe. Davanti all’ufficio del vescovo (che incontra personalmente tutti gli immigrati che chiedono aiuto) incontriamo Jimmy Ouangolo, 19 anni. È arrivato dall’Uganda, a piedi. Ci ha impiegato sei mesi, insieme alla mamma e a un fratello, che ora guarda smarrito dalla finestra i grattacieli di Johannesburg. Jimmy racconta di essere stato rapito dai ribelli del Lord resistence army, nel Nord Uganda. Però è riuscito a scappare da un loro campo di addestramento. Poi la rocambolesca fuga per mezzo continente: Kenya, Tanzania, Mozambico. E l’ingresso in Sudafrica aggrappato al semi-asse di un tir.
Eppure c’è anche chi compie il tragitto in direzione opposta. “Sono andata a fare shopping a Johannesburg” racconta Faye, 27 anni. Siede sul sedile accanto al nostro, sull’autobus che dalla metropoli sudafricana porta ad Harare, capitale dello Zimbabwe. “Ho comprato scarpe e vestiti per me e le mie amiche” sostiene la ragazza. Una sorta di contrabbando “formato famiglia”: un paio di valigie di merce comprata in Sudafrica e rivenduta a casa. Abbigliamento, ma anche materiale informatico e ricambi elettrici. Arriviamo al confine, a ridosso del fiume Limpopo.
Il serpentone di autobus incolonnati attende i controlli. Chi può, prova a eludere i doganieri per non pagare le salatissime tasse d’importazione. Il pullman giallo della compagnia Pioneer, partito 11 ore prima da Johannesburg, è l’ultimo in fondo alla colonna. Il Sudafrica, ormai di là, assomiglia a un grande centro commerciale. Lo Zimbabwe, già di qui, prova a risalire dall’abisso di un’inflazione a nove zeri. Abolita la moneta locale, vi circolano ora solo dollari statunitensi e valuta sudafricana. Non sui taxi collettivi della capitale Harare, però, che si pagano ancora in moneta locale. Il resto dopo una corsa, equivalente a mezzo dollaro, è di 3 milioni di miliardi. In banconote rosse da 50 miliardi l’una. 

Tratto da Altreconomia 107 — Luglio/Agosto 2009

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