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Economia / Approfondimento

Brandy Melville e l’insostenibilità della fast fashion

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Il marchio nato in Italia negli anni 80 ed esploso negli Stati Uniti è finito sotto i riflettori per una serie di scandali legati al proprio modello di business. Il documentario “Brandy Hellville” della regista premio Oscar Eva Orner, disponibile in Italia su Sky, mette in fila le storture della filiera e della strategia commerciale. Tra influencer pagati per fare pubblicità e tonnellate di prodotti tessili finiti nei Paesi a basso reddito

Il marchio di moda Brandy Melville è finito sotto i riflettori per una serie di scandali legati al suo modello di business, criticità svelate dal documentario prodotto quest’anno da HBO “Brandy Hellville- l’inferno del fast fashion” della regista australiana premio Oscar, Eva Orner, e disponibile in Italia sulla piattaforma Sky.

Quest’azienda è nata negli anni Ottanta in Italia come piccolo negozio di magliette, fondata da Silvio Marsan e poi gestita dal figlio Stephen, anche se nei primi anni l’impresa non ha riscosso molto successo sul mercato. La svolta è avvenuta nei primi anni Duemila, quando Brandy Melville ha iniziato ad adattare i propri vestiti per il mercato statunitense e poi ha aperto nel 2009 il suo primo negozio in California, punto di partenza di una crescita considerevole, dato che nel 2023 l’azienda ha fatturato 212,5 milioni di dollari, grazie a una trentina di punti vendita in Nord America e almeno 90 negozi nel mondo.

Il documentario “Brandy Hellville” si concentra sulla strategia commerciale portata avanti da questa azienda negli Stati Uniti e sugli impatti ambientali del settore della fast-fashion, raccontati tramite varie testimonianze di ex dipendenti e di alcune giornaliste. Brandy Melville si riferisce spesso alle sue origini italiane e sottolinea che parte dei suoi abiti sono prodotti in Italia, un fatto percepito come sinonimo di qualità all’estero. Tuttavia, quest’azienda affida la sua produzione “italiana” a vari opifici cinesi della zona di Prato attivi nel settore del “pronto moda”, nel quale i lavoratori sono spesso sfruttati per produrre velocemente abiti a basso costo. Il documentario denuncia che queste pratiche sono quasi inevitabili, poiché gran parte dei vestiti di Brandy Melville costano meno di 50 dollari e sarebbero talvolta di scarsa qualità, come riportato da alcune testimonianze. Infatti, l’azienda di origine italiana fa pienamente parte del settore della moda rapida basato su una grande produzione di vestiti a basso costo che seguono freneticamente gli ultimi trend del momento.

Una caratteristica distintiva di Brandy Melville rispetto ad altre aziende è la sua politica del “one size fits all”, ovvero della produzione di capi d’abbigliamento in un’unica taglia, quasi sempre quella small. Questa strategia è stata criticata poiché non dà la possibilità a molte ragazze che vestono una taglia diversa di poter acquistare i vestiti. Tramite questa decisione, Brandy Melville ha dato un’aria di “esclusività” al suo brand, dato che solo una parte della clientela può comprare i suoi capi, spingendo però molte ragazze ad adattare il proprio aspetto fisico alla misura dei vestiti.

Nella pratica, il documentario denuncia che molte clienti hanno cercato di perdere peso per acquistare gli abiti, inseguendo un modello di bellezza imposto dal marchio, oltre al fatto che varie dipendenti hanno sofferto di disturbi alimentari poiché lavoravano in un ambiente che promuoveva costantemente la magrezza fisica. Brandy Melville ha cambiato solo in parte la propria politica, promuovendo lo slogan “one size fits most” (una taglia unica per molte), senza però offrire misure diverse dei propri capi e senza cambiare la sua comunicazione basata su fotografie di adolescenti magre se non magrissime.

La crescita economica di questo brand è avvenuta principalmente dal 2010 in poi, in parallelo alla diffusione massiccia dei social media, sfruttata sapientemente per aumentare le vendite. Infatti, la comunicazione di Brandy Melville promuove costantemente l’acquisto di nuovi abiti basandosi sul cosiddetto “modello influencer”, nel quale l’azienda invia gratuitamente dei vestiti a ragazze con parecchi follower sui social, chiedendo in cambio di pubblicare delle immagini, ognuna con un outfit differente, spesso condivise sull’account ufficiale del brand, che in questo modo si fa pubblicità quasi gratuitamente. Inoltre, il documentario rivela che alle dipendenti veniva chiesto di fotografarsi durante il lavoro con gli abiti del negozio, immagini che poi venivano pubblicate spesso senza il consenso della persona interessata. Per di più, alcune delle fotografie venivano inviate ai dirigenti dell’azienda, che a volte richiamavano o addirittura licenziavano alcune ragazze se non rispettavano un certo standard di bellezza.

Le pratiche commerciali di Brandy Melville sono state criticate anche da Greenpeace Italia, che riprende alcune accuse mosse dal documentario di Eva Orner evidenziando soprattutto i danni ecologici causati da questo modello di business. Infatti, l’azienda americana produce, velocemente e a basso costo, una grande quantità di vestiti che spesso restano invenduti e diventano rifiuti da smaltire, che non rimangono nei Paesi occidentali ma che vengono esportati verso Stati a basso reddito.

Greenpeace nello specifico mostra la situazione del Ghana, che riceve ogni anno circa 152.600 tonnellate di vestiti di seconda mano, ammassati in discariche a cielo aperto come nel caso delle spiagge della capitale Accra. L’accumulo di rifiuti ha gravissimi impatti sull’ambiente e sull’ecosistema marino, poiché causa l’inquinamento del territorio e le malattie sofferte dalla popolazione locale.

Greenpeace denuncia da tempo i gravi effetti ambientali causati dal settore della fast-fashion, contraddistinto da sfruttamento dei lavoratori, consumismo e sovrapproduzione di rifiuti tessili. Per regolamentare le pratiche di questo settore e promuovere una moda etica, l’organizzazione ha lanciato negli ultimi mesi una raccolta firme. Anche la regista Eva Orner, in un recente commento rilasciato al New York Times, sottolinea che l’industria della fast-fashion si basa in tutto il suo ciclo sullo sfruttamento, che avviene nei confronti dei lavoratori, delle modelle, dei consumatori, e infine dei Paesi nei quali finiscono i rifiuti. In Ghana chiamano gli abiti che arrivano dall’estero Oburoni Wawu, traducibile come “abiti dell’uomo bianco morto”, poiché credono che questi vestiti vengano gettati dopo il decesso di una persona. Non sanno che sono invece il prodotto di un’industria che sta distruggendo l’ambiente in nome del profitto a breve termine.

A questo link è disponibile il trailer: https://app.shift.io/review/66df1d27115a3b388a266286

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