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Barile a 100 dollari, la notizia è un’altra – Ae 89

La fiammata dei prezzi del petrolio del novembre del 2007, arrivato al massimo storico di 98 dollari al barile, ha allarmato il pubblico e gli operatori. Ma se da una parte ci si preoccupa, giustamente, della situazione, da un’altra emerge…

Tratto da Altreconomia 89 — Dicembre 2007

La fiammata dei prezzi del petrolio del novembre del 2007, arrivato al massimo storico di 98 dollari al barile, ha allarmato il pubblico e gli operatori.
Ma se da una parte ci si preoccupa, giustamente, della situazione, da un’altra emerge un certo sollievo nel vedere che -in fondo- anche con questi prezzi record non sta succedendo niente di particolare. Anche se i prezzi sono al livello del momento peggiore della crisi degli anni 70, non si vede niente che ricordi le code ai distributori e le domeniche a piedi di quegli anni.

Per il pubblico, il disorientamento è stato considerevole anche per via delle molteplici interpretazioni date al fenomeno degli alti prezzi. Le due interpretazioni contrastanti, come al solito, si sono date battaglia: da una parte ci sono i “picchisti”, ovvero i teorici del picco della produzione del petrolio. Hanno visto l’andamento dei prezzi come una conferma delle loro previsioni: la produzione di greggio inizia a diminuire.

Dall’altra parte ci sono gli “abbondantisti”, che hanno addossato la colpa al fenomeno non meglio definito della “speculazione”. Delle due parti, i “picchisti” tendono a prevalere se i prezzi crescono, mentre gli abbondantisti riprendono fiato quando scendono.

Ma i prezzi, si sa, sono volatili; vanno su e giù senza nessuna regola apparente.

In un mondo, come quello finanziario, dove si fa attenzione a piccole variazioni giornaliere, la tendenza storica si perde facilmente nell’impressione del momento. Chi ci dice che i prezzi non crolleranno all’improvviso?

Per interpretare la situazione attuale, non basta quindi considerare soltanto i prezzi.

Qui si trova il limite principale di molte analisi che si sono lette in proposito. Possiamo farci un’idea di quello che succede è necessario analizzare la produzione.

Da questa analisi, si vede che la situazione in cui ci troviamo è una di crisi strutturale in cui i produttori non hanno ormai quasi più la capacità di tamponare possibili riduzioni di produzione locale e in cui è probabile che ci troveremo di fronte a un declino produttivo nel prossimo futuro. In questa situazione, è ovvio che il mercato reagisca con prezzi molto alti.

Più nello specifico: la produzione è piatta dall’inizio del 2005 e mostra segni di tendenza alla diminuzione. Non sembra possibile aumentare la produzione, mentre alcuni dei giacimenti più importanti hanno iniziato il loro declino terminale.

Fra questi, il giacimento di Cantarell in Messico, e la zona produttiva del Mare del Nord. Ci sono forti preoccupazioni sulla possibilità che il giacimento principale di tutto il sistema produttivo, Ghawar in Arabia Saudita, stia per iniziare il suo declino. Se questo è il caso, sarà impossibile evitare un declino generalizzato della produzione.

Non solo: diminuisce la disponibilità di petrolio anche perché calano le esportazioni da parte dei produttori. L’aumento dei prezzi ne ha stimolato le economie, e con quelle sono in espansione anche i consumi. Alcuni produttori, ad esempio l’Iran, riescono a mantenere costante o in leggero aumento la produzione, ma riducono

le esportazioni per via dell’aumento dei consumi interni.

Questa riduzione della disponibilità di petrolio sui mercati internazionali è quasi certamente la ragione principale degli aumenti dei prezzi.

In sostanza, con meno petrolio disponibile, qualcuno deve stringere la cinghia e consumarne meno. In Italia, la modesta produzione petrolifera nazionale non copre che marginalmente i consumi. Siamo un Paese importatore, per di più relativamente debole dal punto di vista economico. Per questo siamo fra i più colpiti dalla situazione.

Evidentemente gli effetti degli alti prezzi si fanno sentire, anche se non in un modo spettacolare come era successo alla fine degli anni 70. Sotto certi aspetti, il fatto di dover “tirare la cinghia” non è negativo. Ci costringe a migliorare la nostra efficienza e rinunciare, perlomeno in parte, a certi sprechi evidenti.

Se questo ci porterà a prendere finalmente la strada di produrre l’energia che usiamo con le fonti che abbiamo, ovvero le rinnovabili, potremo dire che la crisi è stata una cosa positiva.

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