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Banche: utili davvero? – Ae 62
Numero 62, giugno 2005Guadagni in crescita del 36 per cento. Ma, guardando bene, il settore del credito è fermo come il resto dell’economia italiana.Qual è allora il segreto? Basta essere un po’ meno previdenti A guardarli da lontano sembrano brillare come…
Numero 62, giugno 2005
Guadagni in crescita del 36 per cento. Ma, guardando bene,
il settore del credito è fermo come il resto dell’economia italiana.
Qual è allora il segreto? Basta essere un po’ meno previdenti
A guardarli da lontano sembrano brillare come le monete che custodiscono.
Sono i bilanci delle banche italiane, che alla voce “utile” registrano per il 2004 crescite da record: un più 36,6% in media, con punte del 55% (è il caso di Banca Intesa). Ma basta avvicinarsi un po’ per capire che la performance degli istituti di credito italiani non è poi così straordinaria, e che la crescita degli utili non rispecchia una reale crescita economica del settore.
Il primo dato: cala il margine di interesse, cioè la differenza tra gli interessi che le banche incassano sui prestiti che concedono e quelli che invece devono pagare sui depositi dei propri clienti.
È la voce che copre oltre la metà dei ricavi di una banca. Il margine di interesse è diminuito l’anno scorso per le banche più grandi dello 0,7%. Particolarmente pesanti i risultati della Banca nazionale del lavoro (-9,9%), di Capitalia-Banca di Roma (-4%) e del SanPaolo-Imi (-4%). Il margine è praticamente fermo (+0,3%) per il Monte dei Paschi di Siena (Mps) mentre va meglio a Banca Intesa (+1,5%) e soprattutto a Unicredit (+4,3%).
Invariato però è anche il totale dei ricavi degli istituti bancari (che somma, al margine di interesse, i ricavi derivanti dagli altri servizi).
Anche i costi non variano di molto rispetto all’anno precedente.
Come si spiega allora quel + 36,6%?
Il dato è in realtà il risultato di un “gioco di prestigio”, che si legge soprattutto in una voce dei bilanci: la diminuzione degli “accantonamenti” sui crediti.
Si tratta di quelle somme che vanno messe da parte per far fronte alle perdite “prevedibili”: immaginando ottimisticamente un futuro senza crolli tipo Enron o Argentina, le banche italiane hanno tagliato su quelle “riserve” che occorre mettere da parte contro perdite e insolvenze sui prestiti.
Nel recente passato gli istituti bancari avevano già in parte ripulito i loro bilanci dalle maggiori “sofferenze” -tipo Cirio e Parmalat- con sofisticate operazioni finanziarie. Ora, pur di presentare conti in attivo agli investitori italiani ed esteri, riducono i fondi sui rischi, nei quali i grandi gruppi nel 2004 hanno messo da parte il 14,5% in meno rispetto all’anno precedente. I maggiori gruppi nazionali abbassano il grado di copertura delle possibili perdite future: una misura definita “singolare” dagli analisti.
Certo in questo modo si presentano sul mercato con i soliti utili brillanti, comunque meno brillanti dei colossi europei, i cui profitti complessivi sono cresciuti nel 2004 del 45,3% e che ora sono a caccia di prede nella riserva italiana. Sperando di non avere sorprese.
Così si spiega la discrepanza tra i risultati apparentemente eccezionali del sistema creditizio e un quadro economico nazionale tutt’altro che roseo. Il prodotto interno lordo italiano è cresciuto l’anno scorso di appena l’1%, e per i mesi appena trascorsi i dati sono col segno meno e si parla apertamente di recessione.
I conti bancari, prima delle operazioni di cosmesi, riflettono queste condizioni.
La Banca d’Italia conferma nel Bollettino economico di marzo “un calo della redditività operativa delle banche”, anche se meglio hanno tenuto le banche medie e piccole, Popolari e Rurali in testa.
Anche per queste ultime però nel 2004 il calo dei guadagni da interessi non è stato compensato dai ricavi da commissioni e da attività di negoziazione finanziaria, che avevano sistemato i conti delle grandi banche negli ultimi anni.
Commissioni, negoziazioni e servizi costituiscono la seconda voce degli introiti delle banche, e nel lungo periodo il loro valore sta scavalcando quello del margine di interesse. Oggi questi che vengono chiamati “altri ricavi” ammontano già in media al 45% dei ricavi totali degli istituti italiani. Nel 2004 il margine “da servizi” è cresciuto dell’1,4%: in aumento le commissioni (+3%), malissimo i proventi da operazioni finanziarie (-10,1%).
A questo punto il margine di intermediazione complessivo, cioè la somma dei ricavi dell’attività bancaria, è praticamente ai livelli del 2003 (+0,4%).
Un po’ come dire che il fatturato dei grandi gruppi bancari italiani nel 2004 è rimasto fermo.
Non è un buon biglietto da visita per società tutte quotate in Borsa. La ricetta in questi casi è: tagliare sui costi. Ma, come si è visto, le nostre banche lo hanno fatto in modo un po’ singolare.
Nel complesso la raccolta di denaro è comunque cresciuta del 5,5%, e per il 2004 ammonta (dati del rapporto annuale della Banca d’Italia) a 1.176 miliardi di euro. Di questi, i depositi ammontano a 733 miliardi.
La crescita degli impieghi è stata trainata esclusivamente dai prestiti a medio e lungo termine, e favorita -oltre che dai tassi di interesse bassi- ancora una volta da un mercato immobiliare in espansione e da un progressivo aumento dell’indebitamento a lungo termine delle famiglie.
A queste vanno il 24% dei prestiti erogati dalla banche, per un totale di 263 miliardi di euro: il valore dei mutui per le abitazioni è aumentato del 19,8% (ma si deve tener conto che, nel frattempo, i prezzi delle case sono cresciuti a loro volta di quasi il 10%).
In espansione anche il credito al consumo nelle sue varie forme (carte di credito, carte revolving, finanziamenti e rate), che ha fatto un balzo del 15,5% avvicinando “l’attitudine al debito” delle famiglie italiane alla media europea.
Dal continente ci separa però un dato: un conto corrente italiano costa anche il doppio di un’equivalente in Germania, in Austria o in Olanda. La denuncia arriva dall’Adusbef (Associazione difesa utenti servizi bancari finanziari postali e assicurativi) secondo la quale tra commissioni, custodia e collocamento titoli, operazioni accessorie, bancomat, costi per i trasferimenti e chiusura di conti correnti, in Italia si spendono 2,6 miliardi di euro in più l’anno rispetto agli altri Paesi europei.
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Gli stranieri a caccia nella riserva italiana
La caccia alla clientela nel mercato creditizio italiano -una specie di “riserva” tutelata dalla Banca d’Italia- si è aperta con la primavera.
Per ora, i nuovi cacciatori sono olandesi e spagnoli. Ma è solo l’inizio. Vediamo che cosa è successo fin qui. A marzo il Banco de Bilbao Vizcaya Argentaria annuncia di voler scalare la Banca nazionale del lavoro, di cui è già azionista di riferimento. Negli stessi giorni, l’olandese Abn Amro annuncia un’Opa (offerta pubblica di acquisto) per aggiudicarsi il controllo della Banca Antonveneta (di cui Abn è azionista col 12,5%). Ogni azione verrà pagata 25 euro: un’operazione da 6,3 miliardi di euro. Dopo l’annuncio la palla passa a Bankitalia -garante del sistema e della tutela della concorrenza- e alla Consob, l’organo di controllo sulla Borsa italiana.
Il dubbio: l’ingresso degli stranieri è un potenziale danno per l’economia italiana? O è finalmente l’avvio di un sistema concorrenziale internazionale, che ridimensioni il potere delle banche italiane sui propri clienti?
Ad aprile, Banca popolare di Lodi tenta a sua volta la scalata di Antonveneta, escludendo con un colpo di mano Abn dal neo-eletto consiglio d’amministrazione dell’istituto, grazie anche ai provvedimenti di Bankitalia -contro cui Abn fa ricorso- e a un “concerto” fra gli azionisti denunciato dalla Consob e finito sotto i riflettori della magistratura.
23 gli indagati.
A seguito della delibera Consob anche Banca popolare di Lodi è costretta a una contro-opa.
Ma sono solo le prime puntate di una vicenda che continua.
Bankitalia, garante della moneta e del sistema
La Banca d’Italia nasce nel 1893, quale tesoreria dello Stato e col compito di gestire la regolamentazione monetaria e supervisionare il sistema bancario e finanziario.
Oggi la Banca provvede anche alla vigilanza sulle banche (e sugli intermediari non bancari).
Dal 1990 la Banca è anche l’Autorità garante della concorrenza nel settore del credito. L’istituto ha tra i suoi compiti quello di evitare che operazioni di concentrazione costituiscano o rafforzino posizioni dominanti.
Una posizione, quella di Bankitalia, di grande autonomia che, lo scorso anno, è stata oggetto di uno scontro feroce tra i vertici dell’istituto e il ministero dell’Economia.
Scegliere tra Spa e credito cooperativo
Le banche in Italia al dicembre 2004 sono 778, con 30.946 sportelli. Dopo la riforma della normativa bancaria all’inizio degli anni ‘90, la forma societaria considerata “normale” per una banca è la società per azioni (spa), mentre sono scomparse altre forme istituzionali come gli istituti di diritto pubblico o le banche di interesse nazionale.
Le banche spa sono 237, con 23.723 sportelli. Di esse, 25 sono quotate in Borsa. Restano distinte altre due categorie di aziende di credito: le banche popolari (come Banca Etica), che sono 37 con 3.623 sportelli, e le banche di credito cooperativo (Bcc), già Casse rurali e artigiane, 439 con 3.465 sportelli.
In entrambi i casi si tratta di società cooperative, spesso con un elevato numero di soci, in cui vige ancora il principio “un socio, un voto” e non “un’azione, un voto”. Tuttavia le Popolari, che possono operare su tutto il territorio nazionale e all’estero, sono considerate “banche cooperative per azioni” e 7 di esse sono quotate in Borsa. Le banche di credito cooperativo invece operano solo in territori limitati e mantengono, almeno formalmente, un carattere mutualistico.
Il sistema bancario italiano è completato dai cinque istituti centrali di categoria e di rifinanziamento, come ad esempio Iccrea per le Bcc, e da 60 filiali di banche estere. !!pagebreak!!
I guadagni sporchi delle banche
Sempre più armi
Le esportazioni italiane di armi nel 2004 sono aumentate del 16,2%, ma gli incassi delle banche su cui le imprese esportatrici si sono appoggiate sono addirittura quasi raddoppiati (+82,5% sul 2003).
Sono i dati chiave dell’ultima “Relazione governativa sull’interscambio di armamenti e sulle autorizzazioni concesse ai sensi della legge 185/90”.
La novità di quest’anno però è anche l’ingresso della campagna “Banche armate” nella stessa Relazione. Il governo infatti si dice preoccupato dell’“atteggiamento assunto da buona parte degli istituti bancari nazionali in materia di transazioni bancarie”. Durante la discussione sulla relazione tenutasi nella riunione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera (altro fatto inedito), il relatore Giuseppe Cossiga (Forza Italia) ha infatti trovato il modo di attaccare le campagne di opinione pubblica per il controllo del commercio delle armi, defininendole “del tutto prive di fondamento”.
Il governo, nella Relazione, ha affermato che le banche italiane -a seguito delle proteste dei risparmiatori- stanno lasciando il business delle armi. Questo comporterebbe per l’industria “notevoli difficoltà operative, tanto da costringerla ad operare con banche non residenti in Italia”, con la conseguenza che i controlli governativi diventerebbero “gravosi e a volte impossibili”.
Da qui vaghe, ma non meno inquietanti, ipotesi di riscrittura della 185, già modificata un anno fa in senso più favorevole ai mercanti d’armi.
Il quadro che emerge dalla Relazione però è un po’ diverso. Dei 1.318 milioni di euro di operazioni bancarie connesse all’export di armi, il 60% è stato negoziato da due soli gruppi bancari, entrambi italiani: Capitalia, cioè Banca di Roma e istituti collegati, con 396 milioni di importi autorizzati, e San Paolo-Imi con 366 milioni. Al terzo posto spunta Banca Antonveneta, con 121 milioni di operazioni autorizzate. Solo al quarto posto troviamo una banca estera, Credit Agricole. Gli istituti italiani non sembrano essersi fatti sfuggire l’affare.
Partner con sorpresa
“Una finanza al servizio dello sviluppo umano è incompatibile con qualsiasi attività al servizio dell’industria bellica”.
Con queste parole, ad aprile, i vertici di Banca Etica avevano commentato il comparire di Banca popolare di Milano nella lista delle “banche armate”, riservandosi di valutare i rapporti tra i due istituti.
Bpm è socia di Banca etica (con meno dello 0,5% del capitale) ma anche partner strategico di Etica sgr (la società di gestione del risparmio del gruppo Banca etica), con il 27% del capitale. A maggio un comunicato stampa congiunto: Bpm precisa di non aver finanziato l’industria bellica ma di essere stata solo domiciliataria di incassi e pagamenti (attività che continua nel 2005, e per la quale Bpm finirà nella lista anche il prossimo anno). Ma è proprio per rivelare questo tipo di operazioni che esiste la campagna “banche armate”. Banca Etica si è dichiarata soddisfatta della presa di posizione di Bpm. Nessun commento invece su Banca popolare dell’Emilia Romagna, anch’essa nella lista delle banche armate e anch’essa socia (meno dello 0,5%) di Banca Etica.