Economia / Opinioni
Banche, politica e monopolio dell’economia. Che cosa (non) è cambiato
Il collasso di alcuni istituti di credito e l’attività della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche ricordano gli scandali di fine Ottocento, quando il “caso” della Banca Romana portò alla fragorosa caduta del primo governo Giolitti. Tra i punti di contatto, le “ingombranti relazioni fra politica e banche”. Il commento di Alessandro Volpi
Le attuali vicende della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche richiamano alla mente la stagione degli scandali di fine Ottocento, quando proprio una Commissione, quella insediata nell’ottobre del 1889 per fare luce sulla situazione della Banca Romana, diede avvio ad una fase assai turbolenta destinata a sfociare, qualche anno più tardi, nella fragorosa caduta del primo governo Giolitti.
Allora i fallimenti bancari, i processi, i coinvolgimenti politici generarono una sequenza di effetti che avrebbe contribuito, non poco, a quella che è stata definita la “crisi di fine secolo”, uno dei momenti più bui dell’età liberale. Rispetto a tale periodo sono tante le differenze, ma molte sono anche le forse inaspettate similitudini. Quando esplose lo scandalo della Banca Romana ed emerse la conduzione “allegra” di altri istituti, a cominciare dal Banco di Napoli, non esisteva ancora la Banca d’Italia, creata proprio nel 1893 in larga misura per “salvare il salvabile” di un sistema decisamente compromesso che mantenne comunque la presenza di più istituti di emissione fino al 1926. Non esistevano poi autorità specifiche di vigilanza, né tantomeno esisteva un controllo in sede europea, come avviene oggi nel caso della Banca centrale (BCE). Sul piano politico, il Parlamento continuava ad essere eletto da una platea di aventi diritto assai limitata e le istituzioni italiane mancavano dei caratteri democratici. Dunque il contesto risultava decisamente differente rispetto ai giorni nostri; tuttavia, come accennato, alcuni elementi di quella fase sono tuttora presenti e, forse, ancora più marcati.
Il primo, e il più evidente, è costituito dalla assoluta centralità del sistema bancario che continua a rappresentare la principale fonte di finanziamento imprenditoriale e commerciale del Paese. Nel corso dell’Ottocento il compito di sostenere le nascenti imprese sane e, più spesso, alcune ondate speculative di natura immobiliare è stato svolto dalle banche di emissione -ben cinque nella penisola- che erogavano liquidità facile, stampando carta moneta senza prestare troppa attenzione alle necessarie coperture auree e argentee. Durante gli ultimi trent’anni, il finanziamento delle imprese è passato, in maniera non dissimile da quanto avveniva nell’Ottocento, attraverso le banche, questa volta di credito ordinario e non più di emissione, che hanno supplito alle debolezze del mercato finanziario e del sempre più difficile autofinanziamento da parte delle imprese stesse.
In un panorama simile era ed è quasi inevitabile che prendessero e prendano corpo comportamenti discutibili, destinati a legare banche e imprese in una pericolosa simbiosi spesso generata da motivazioni non sempre riconducibili alle dinamiche dei rating. Se le banche sono i pivot pressoché unici delle sorti dell’economia, è naturale, come dimostrano la storia e la cronaca del nostro Paese, che si moltiplichino i conflitti d’interesse e si affermi l’erogazione di crediti più o meno discutibili in misura tale da mettere a repentaglio la stabilità e la credibilità dell’intero sistema. Fin dalle sue origini, del resto, la Borsa di Milano ha trattato titoli del debito pubblico e delle banche, tenendosi accuratamente lontana dalle imprese produttive, e ancora oggi, a distanza di oltre cento anni, la situazione non appare cambiata; le banche quindi hanno il monopolio della finanza e dell’economia italiana e, come ogni monopolio, tendono a manifestare insite tendenze patologiche. Il secondo elemento è rintracciabile nella forte permanenza di ingombranti relazioni fra politica e banche; relazioni che si declinano in più forme, dalla pressione, già ricordata, per la concessione dei crediti, alla pretesa, ad opera della politica, di voler affermare la propria superiorità rispetto ad ogni altro ambito, secondo quanto testimonia l’esperienza delle Commissioni parlamentari d’inchiesta che sono state la sede, non di rado, dove regolare conti politici con il chiaro intento di togliere spazio alla magistratura. Forse, però, la vera funzione della politica dovrebbe esercitarsi soprattutto sul versante della produzione normativa che certamente presenta e ha presentato numerose lacune proprio in materia bancaria.
La storia italiana ha conosciuto una legislazione in tema di banche assai rarefatta e dettata da spinose urgenze. Il Regno d’Italia, di fatto, è stato caratterizzato da quattro leggi bancarie, nel 1874, nel 1893, nel 1926 e nel 1936; due quindi in età liberale e due durante il fascismo. In tutti questi casi si è trattato di far fronte a crisi monetarie ed economiche pesanti, con la sola eccezione delle misure del 1926, connesse comunque con la sciagurata strategia mussoliniana di Quota Novanta. Negli anni della Repubblica, il primo intervento organico è avvenuto solo nel 1993 e da allora sono mancati provvedimenti di carattere complessivo in grado di definire in maniera precisa e coerente il modello bancario verso cui orientare il Paese. Nel frattempo la sovranità monetaria e alcune funzioni centrali sono passate alla BCE, mentre le recenti norme sul “bail in” hanno cambiato alla radice il modo di concepire l’attività creditizia e i rischi connessi. In un panorama siffatto, privo di regole certe e con banche quasi onnipotenti, il pericolo reale che la politica cerchi la propria rivincita assurgendosi a tribunale del popolo, riunito in Commissione permanente, risulta molto forte. Non dimentichiamo la divisione dei poteri.
Università di Pisa
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