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Astorflex, riparliamone

Ersilia Monti fa parte di un gruppo d’acquisto solidale ma è anche un’attivista della campagna "Abiti puliti". Segue con attenzione il settore tessile ma anche il calzaturiero. E ha deciso di inviare una lettera aperta a Gigi Perinello e Fabio…

Ersilia Monti fa parte di un gruppo d’acquisto solidale ma è anche un’attivista della campagna "Abiti puliti". Segue con attenzione il settore tessile ma anche il calzaturiero. E ha deciso di inviare una lettera aperta a Gigi Perinello e Fabio Travenzoli del calzaturificio Astorflex, che nell’ultimo anno e mezzo sono spesso presenti nelle fiere equo-solidali insieme ad altre aziende dietro il brand "x i Gas". Ecco il testo della lettera. 

A:
Gigi Perinello e Fabio Travenzoli del calzaturificio Astorflex
–    Rete GAS
p.c.:
–    Carta
–    Altreconomia

Da: Ersilia Monti, GAS LoLa, Milano (ersilia.monti@livecom.it)

Ogg.: Astorflex, riparliamone               

Sono da sempre attenta ai modi e alle forme che la comunicazione aziendale  assume nella quasi illimitata libertà di espressione di cui gode. Vi si nasconde sempre un’insidia, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più innocue, per il nostro senso critico e la nostra capacità di discernimento. Qualche mese fa mi sono imbattuta in “X i GAS”.
Ammetto di aver seguito distrattamente il dibattito ospitato lo scorso anno dal sito di Carta sulle modalità produttive di Astorflex, ma oggi penso che alcune obiezioni sollevate allora meritavano più ascolto e che la discussione andrebbe ripresa per venire finalmente a capo di una questione fondamentale: può un’azienda dirsi etica perché all’interno della sua filiera adotta criteri di sostenibilità socio-ambientale per un’unica linea o per limitate linee di prodotto?

La teoria consolidata della responsabilità sociale di impresa (rsi/csr), le iniziative multistakeholder,  così come le certificazioni di qualità sociale e ambientale hanno al centro l’impresa e non il prodotto. Respingere questo concetto, quasi fosse un’offesa (si veda il carteggio Trezzi-Perinello/Travenzoli), significa non avere acquisito ancora cognizione della responsabilità sociale di impresa. La conseguenza dell’impreparazione di Astorflex è una deriva, che io reputo preoccupante, nei metodi e nei toni con i quali l’azienda ha preso a commercializzare i suoi prodotti.

Nella rivista La Nuova ecologia, che riceve la biblioteca nella quale lavoro, è apparsa lo scorso anno per sei mesi consecutivi una pubblicità a pagina intera di “X i GAS”.  Un logo ben studiato nell’aspetto, scelto graficamente in funzione di understatement,  che occupava un quinto dello spazio e così si presentava: “X i GAS è un sistema di aziende collegate in rete che si sono date norme etiche precise e collaborano per la costruzione di un ‘comparto articoli d’abbigliamento’ per i Gruppi di Acquisto Solidale”. Al primo posto, fra le sei aziende “messe in rete”, Astorflex: “L’azienda che per prima ha capito la potenzialità della nuova economia dei Gruppi di Acquisto” (le potenzialità commerciali, evidentemente).

La definizione di “X i GAS” è in realtà molto elastica: “Sito di supporto ai Gruppi di Acquisto Solidale” (biglietto da visita di Gigi Perinello e Nicola Montolli), “Gruppo di piccole aziende artigiane […] contro la delocalizzazione del lavoro da parte del sistema distributivo e dei marchi” (tabellone allo stand di “X i GAS” alla fiera Fa’ la Cosa Giusta, dove fra l’altro si rivendicava un’inesistente alleanza fra “X i GAS” e i gruppi d’acquisto), “Portale che si assume il compito di informare tutti gli appartenenti ai Gruppi di Acquisto Solidale dei prodotti (soprattutto di abbigliamento) che sono necessari alla nostra quotidianità [sic], prodotti basilari non soggetti a mode e senza marchio” (sito di “X i GAS”).

Non occorre aver fatto studi di marketing per capire che “X i GAS”, al di là di ogni possibile enunciazione, è un semplice marchio commerciale. Un marchio che trae la sua forza persuasiva dall’unica parola che contiene, il nome di un’organizzazione terza, che non è mai stata interpellata per autorizzarne l’uso o per parlare per suo nome e per suo conto, e il cui nome, sinonimo di eticità, correttezza, buone pratiche, crea valore aggiunto. Astorflex, che si definisce capofila di “X i GAS”, e Gigi Perinello, che nelle interviste si presenta come il suo fondatore, hanno preso con ogni evidenza due piccioni con una fava, avviando un’attività commerciale di piccola distribuzione organizzata della quale – come mi diceva Perinello stesso in fiera – si pongono come “guide e garanti” (a che titolo?),  potendo contare su un attestato di eticità (fra l’altro gratuito) che l’uso improprio del nome dei gruppi d’acquisto solidale gli conferisce. Un’operazione commerciale perfetta.

Ma c’è di più. Nel servizio-intervista realizzato dall’emittente televisiva Telechiara di Padova il 18 giugno 2010, dal titolo “Settore tessile rivolto al consumo critico”, Gigi Perinello così si esprimeva a proposito dei consumatori critici destinatari dell’offerta “X i GAS”: “Vogliamo decolonizzare le menti dal marchio e insegnare a questa gente che si può comprare senza l’ipnosi da marchio […] E quindi strappiamo dalle mani di eventuali altri fornitori che arrivano dall’estero a proporci dei materiali non garantiti, non controllati, i consumatori e li mettiamo nelle mani di aziende serie”.
“Insegnare a questa gente”? “Strapparli dalle mani, metterli nelle mani”?
Ma che linguaggio sta usando Astorflex? Quello della peggiore industria convenzionale. E in virtù di quale autorità, merito, storia, si pone nel ruolo di “educatore dei consumatori critici”, così come Gigi Perinello si è definito durante lo scambio di opinioni che ho avuto con lui in fiera?

Quanto al “marchio”, ne esiste uno solo, quello che in modo scorretto Astorflex/Perinello hanno creato. Fra l’altro chiedendo alle aziende tessili “collegate in rete” di rinunciare ad apporre il proprio nome sulle etichette interne dei capi (ciò che invece la legge prescrive) perché, come mi dicevano, “E’ Gigi a chiedercelo, non gli piacciono i marchi”. Cos’hanno a che vedere i marchi con i nomi delle aziende? Questo è anonimato produttivo, l’altra faccia della medaglia della sovraesposizione del marchio.
E quanto ai materiali “non garantiti, non  controllati” provenienti dall’estero, se ci sono delle mani dalle quali i consumatori andrebbero “strappati”, quelle sono proprio le mani di Astorflex che continua a vendere nella grande distribuzione scarpe realizzate nell’Europa dell’est con materiali scadenti ed inquinanti (ma anche sulle scarpe scamosciate Ecoflex per i GAS andrebbe aperta una discussione…) sotto l’ingannevole etichetta “made in Italy”.

Avere un marchio commerciale che si arroga il diritto di “produrre per i GAS”, fregiandosi del loro nome, e per di più senza avere ancora ripulito la sua filiera, è fonte di grave pregiudizio per un’organizzazione come quella dei gruppi d’acquisto, formalmente non costituita, formata da persone oneste e in buona fede; una realtà fluida e vulnerabile. E’ una testa d’ariete che ci espone all’assalto di forme di avventurismo commerciale della più varia natura.
Se Astorflex ha agito con leggerezza, allora non è un’azienda seria. Se ha agito con malizia, non è un’azienda onesta.

E qui vengo a ciò che Astorflex non ha ancora detto di sé.

Sappiamo ormai tutti che il  vasto mercato dei GAS si è spalancato per Astorflex sul grande equivoco originato da affermazioni non veritiere, mi riferisco all’intervista, non smentita, nella quale il proprietario Fabio Travenzoli, nel servizio di  Report  “Ragioniamo con i piedi”, andato in onda l’1/11/2009, affermava di aver riportato in Italia tutta la produzione delocalizzata.  A distanza di più di un anno dalla scoperta da parte di alcuni gasisti di scarpe identiche, ma di minore qualità, vendute nella gdo a prezzi più bassi, l’equivoco persiste. Ancora oggi il sito di Astorflex tace sulla questione nevralgica della delocalizzazione oppure dichiara il falso. Nella sezione “Azienda” si legge: “Negli ultimi anni si è diversificata la produzione introducendo nuovi modelli e varie lavorazioni per la grande distribuzione nazionale ed internazionale”. Questo è tutto ciò che si dice delle lavorazioni che sappiamo realizzate nell’Europa dell’est, poi si passa tout court a descrivere il progetto rivolto ai GAS. Nella sezione “Prodotti”, aprendo la scheda di Ecoflex Pelle Mood, si legge: “Scarpa bio etica [sic] modello desert boots realizzata in Italia, come del resto tutta la nostra produzione”.

Occorre che Astorflex faccia chiarezza una volta per tutte sulla sua filiera e impari a usare i termini “etica”, “trasparenza”, “tracciabilità”, “responsabilità sociale” per il significato che hanno. Per far questo occorre che, senza indugio, in modo ufficiale sul suo sito e in ogni occasione di comunicazione pubblica
o    dichiari apertamente che ha produzione delocalizzata, per produrre scarpe non ecologiche;
o    specifichi con esattezza i volumi trattati all’estero e le fasi del processo produttivo connesso, attraverso quali canali li commercializza, dove si trovano e quanti sono i suoi stabilimenti produttivi all’estero, se ha subfornitori esteri, quanti sono i dipendenti diretti e indiretti, quali condizioni di lavoro applica (quale salario, quale orario di lavoro, con quali garanzie occupazionali, di salute e sicurezza, quali contatti con il sindacato locale, ecc.),  quali sostanze chimiche tossiche utilizza, come ne gestisce lo smaltimento, che tipo di sorveglianza sanitaria adotta per i dipendenti, ecc.;
o    faccia chiarezza anche sulla filiera italiana indicando con precisione tutti i passaggi e i laboratori coinvolti nel processo produttivo. Che cosa si fa esattamente in azienda a Castel d’Ario? Dove viene tagliata, cucita la tomaia? Dove viene eseguito il resto delle operazioni? Quali e quanti laboratori esterni concorrono alla realizzazione di un paio di scarpe e a quali condizioni?
o    precisi quale progetto ha in serbo per il futuro dei suoi dipendenti esteri e per quelli dei suoi eventuali subfornitori esteri una volta che l’intera produzione aziendale sarà assorbita dal mercato italiano;
o    rimuova il marchio commerciale “X i GAS”, che i gruppi di acquisto non hanno autorizzato ad operare sotto il loro nome né a selezionare produttori per loro conto, e che li espone per il futuro all’arrembaggio di soggetti economici senza scrupoli;
o    la fiducia che parte dei GAS ha riposto nell’offerta Astorflex ha dato all’azienda una capacità negoziale che oggi deve spendere verso la grande distribuzione affinché, per cominciare, sia tolta di mezzo l’etichetta ingannevole “made in Italy” da scarpe prodotte totalmente o in parte all’estero. E’ un dovere imperativo verso i consumatori nel loro insieme;
o    smentisca da ora in poi, e ne pretenda la pubblicazione, qualsiasi informazione di stampa che distorca la realtà, e fornisca in ogni occasione pubblica informazioni veritiere sulla sua produzione rinunciando all’abitudine fuorviante del “se me lo chiedono, rispondo”.

E’ strano a dirsi ma ci sono grandi marchi dell’abbigliamento, di quelli che ci vergogneremmo ad indossare, che sono ben più avanti lungo il percorso della responsabilità sociale rispetto ad Astorflex che pure abbiamo accolto con tanta generosità nel novero dei nostri produttori. Ma non è mai troppo tardi, ma solo se si è in buona fede, per rimediare a ciò che  non si è detto e a ciò che non si è fatto.

Cordiali saluti.

Ersilia Monti
GAS LoLa, Milano

P.S. le opinioni espresse in questa lettera impegnano me sola e non il GAS al quale appartengo

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