Cultura e scienza / Approfondimento
L’assedio di Sarajevo nel mirino di una macchina fotografica
Il libro fotografico “Shooting in Sarajevo” di Roberta Biagiarelli e Luigi Ottani mostra la città bosniaca e i suoi abitanti dal punto di vista dei cecchini che la terrorizzarono durante il lungo assedio iniziato nel 1992 e terminato 25 anni fa. Un’occasione preziosa per fare memoria
In inglese le parole “fotografare” e “sparare” si traducono con lo stesso verbo: “shoot”. Attorno a questo doppio significato è costruito il libro fotografico “Shooting in Sarajevo” (Bottega errante edizioni, 2020), un progetto nato “dalla semplice idea di fotografare gli stessi luoghi da cui i cecchini hanno tenuto in scacco la città durante l’assedio”, racconta Roberta Biagiarelli, attrice, autrice e documentarista, che ha vissuto a lungo in Bosnia ed Erzegovina e tra le altre opere ha interpretato lo spettacolo teatrale “A come Srebrenica”. Un lavoro svolto insieme al fotografo Luigi Ottani, per un progetto iniziato nel 2015 e frutto anche di diversi viaggi nella capitale bosniaca.
Sono passati 25 anni dalla fine dell’assedio di Sarajevo (avvenuto il 29 febbraio 1996, dopo 1.425 giorni) e in questo lungo arco di tempo sono stati processati e condannati molti dei responsabili dei crimini commessi durante la guerra: l’ultimo, in ordine di tempo, è stato Ratko Mladic. “Ma nessuno ha mai processato i cecchini che, dall’alto dei palazzi o dalle colline, hanno tenuto per mesi gli abitanti di Sarajevo nel terrore -racconta Biagiarelli-. Dopo la guerra, queste persone sono tornate a fare la vita di prima. Questa cosa mi interessa profondamente, così ho deciso di entrare nella psicologia di queste persone, di provare a indagarle e raccontarle”.
Luigi Ottani ha catturato la città e i suoi abitanti dall’alto: dagli appartamenti del quartiere serbo di Grbavica, dalle terrazze dell’Holiday Inn, dalla caserma Maresciallo Tito, dalle colline che abbracciano Sarajevo. Gli stessi luoghi da cui uomini armati prendevano di mira gli inermi cittadini. “Ho tanti amici a Sarajevo che ci hanno aiutato: molti hanno perso familiari e conoscenti, uccisi dai cecchini. E avere loro come guida ha reso molto ricco questo viaggio -continua Biagiarelli-. Siamo riusciti a entrare negli abbaini da cui i cecchini sparavano, abbiamo trovato case abbandonate e persino luoghi dove le tracce della loro presenza erano ancora evidenti: con i materassi e le cassette delle munizioni a terra”.
Le immagini raffigurano uomini, donne, bambini: semplici passanti fotografati da lontano durante le loro giornate. “La scelta è stata quella di mettere al centro dell’immagine le persone, aggiungendo poi, in post-produzione, l’immagine di un mirino che non è stato messo esattamente sul soggetto, ma leggermente avanti o poco dopo -spiega Ottani-. Questo permette di entrare ancora di più nella mente di chi sta per sparare. Che aspetta i passi del suo bersaglio o che lo ha lasciato andare”.
Unica eccezione, uno scatto realizzato dall’Holiday Inn, il luogo dove il 6 aprile 1992 sono stati sparati i primi colpi sui civili. “In quell’occasione ho dato la mia macchina fotografica a Jovan Divjak (l’ex generale che durante l’assedio guidò la difesa di Sarajevo, recentemente scomparso, ndr) e lui ha scattato una foto a una ragazza con un cappotto rosso che stava passando tra il Parlamento e quello che era stato ribattezzato ‘viale dei cecchini’. È l’unica foto in cui ho scelto di mettere il mirino lontano dal soggetto fotografato. È stata una scelta voluta, perché Divjak scelse di non prendere di mira gli abitanti di Sarajevo”, ricorda ancora Ottani. Inoltre, per restituire ulteriormente l’idea dello scatto fotografico come qualcosa di unico e non replicabile, tutte le immagini sono state elaborate in modo da dare un effetto simile a quello delle vecchie polaroid sia nel formato, sia nel viraggio dei colori.
Oltre alla fotografia e alla prefazione di Jovan Divjak, a impreziosire il libro ci sono i contributi della scrittrice Azra Nuhefendić, del giornalista-scrittore Gigi Riva, cittadino onorario di Sarajevo, dello storico Carlo Saletti e del fotoreporter Mario Boccia. Mentre Roberta Biagiarelli ha scritto una sorta di “diario di viaggio” in cui spiega la genesi del progetto e analizza la figura del cecchino.
“Questo tema era per noi molto delicato. Con quale diritto, ci siamo chiesti, noi italiani andavamo a raccontare questo pezzo della storia di Sarajevo? Invece la risposta è stata sorprendente: i sarejevesi ci sono stati estremamente grati. Abbiamo avuto molta gratitudine, anche inaspettata”, racconta Biagiarelli. “Ancora prima che uscisse il libro gli abitanti della città ci hanno supportato e ci hanno dato consigli -ricorda Ottani-. Tra coloro che abbiamo incontrato nessuno è stato contrariato da questa idea”.
Il libro “Shooting in Sarajevo” e la mostra fotografica a esso collegata rappresentano un’occasione preziosa per riportare lo sguardo su una tragedia che si consumata poco meno di trent’anni fa a poche ore di viaggio dai nostri confini. E di cui, l’11 luglio, si celebra uno dei più tragici anniversari: il massacro di oltre 8mila uomini e ragazzi bosniaci a Srebrenica. “Riconosciuto a livello internazionale come l’ultimo genocidio compiuto nel cuore d’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, Srebrenica non ha ancora visto una piena assunzione di responsabilità da parte dell’Europa per ciò che accadde in quel luogo 25 anni fa”, scriveva Biagiarelli in un documento curato in occasione del 25esimo anniversario, nel luglio 2020.
Ma è anche occasione preziosa per fare memoria. “Chi vive in Bosnia ed Erzegovina oggi, soprattutto i più giovani, non ne vogliono sentir parlare, vogliono guardare avanti -riflette Biagiarelli-. La memoria va abitata e per abitarla le devi dare respiro: la Bosnia è ancora oggi un Paese ferito e complesso, ma è anche ripiegato su di sé. È importante anche fare memoria anche qui, anche in Italia: sono passati 23 anni dalla prima rappresentazione del mio monologo su Srebrenica e ogni volta che lo porto in scena capisco quanto sia significativo farlo per i giovani italiani di oggi. Che non hanno vissuto quegli anni e non trovano quel pezzo di storia nei loro libri di scuola. Ma è un pezzo fondamentale della storia del Novecento”.
Il primo appuntamento per scoprire la mostra fotografica e il libro “Shooting in Sarajevo” è per sabato 10 luglio a Castions di Zoppola (Pordenone) nell’ambito del “Dedica festival”.
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