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“Aree idonee” per pannelli solari e pale eoliche: sicuri di voler festeggiare?

© Jadon Kelly - Unsplash

È stato pubblicato il decreto governativo che disciplina chi e come debba definire le aree idonee a posizionare pannelli e pale eoliche. Il rischio di iniquità, impatti sociali, ecologici e ambientali e di nuovi consumi di suolo è concreto, osserva il prof. Pileri. Sacrificando le uniche due procedure per arginare il degrado ambientale, a vantaggio di pochi

In diversi festeggiano per il decreto aree idonee del 21 giugno scorso, ovvero il decreto che fissa chi e come deve definire le aree idonee a posizionare pannelli solari e pale eoliche (entrato in vigore lo scorso 4 luglio dopo pubblicazione su gazzetta ufficiale n. 153). Inviterei a valutare bene che cosa sta succedendo perché non mi pare sia tutto oro quel che esce dal cilindro. Ovvio che piace al fronte degli energetici e degli investitori in rinnovabili, ma questo non basta per dire che sia immune dalla produzione di iniquità, di impatti sociali, ecologici e ambientali e che non avvii nuovi consumi di suolo. Spieghiamo il perché, con calma e sempre ricordando a tutte e tutti che le prime e uniche aree idonee sono quelle già asfaltate o costruite, sempre che non siano vincolate paesaggisticamente.

Partiamo dalla definizione di aree idonee che rimane un compito delegato alle Regioni (art. 1, c. 2, pt. a): “le aree in cui è previsto un iter accelerato e agevolato per la costruzione ed esercizio degli impianti a fonti rinnovabili e delle infrastrutture connesse secondo le disposizioni vigenti di cui all’art. 22 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199;”. A parte il fatto che a descrivere le aree è un iter e non la sostanza di cui sono fatte le aree (e questo è già una bizzarria che, peraltro, senza dirlo lascia spazio ad altra bizzarria: le 20 Regioni definiranno 20 idoneità diverse), iniziamo con il dire quanto è ancora doloroso quel rimando ad altra legge (titolo: “Procedure autorizzative specifiche per le aree idonee”), con tanto di imbarazzante problema (che denunciamo da tempo).

“1. La costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili nelle aree idonee sono disciplinati secondo le seguenti disposizioni: a) nei procedimenti di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili su aree idonee, ivi inclusi quelli per l’adozione del provvedimento di Valutazione di impatto ambientale (Via), l’autorità competente in materia paesaggistica si esprime con parere obbligatorio non vincolante. Decorso inutilmente il termine per l’espressione del parere non vincolante, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione; b) i termini delle procedure di autorizzazione per impianti in aree idonee sono ridotti di un terzo. 1-bis. La disciplina di cui al comma 1 si applica anche, ove ricadenti su aree idonee, alle infrastrutture elettriche di connessione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e a quelle necessarie per lo sviluppo della rete elettrica di trasmissione nazionale, qualora strettamente funzionale all’incremento dell’energia producibile da fonti rinnovabili. 1-ter. La disciplina di cui al comma 1 si applica altresì, indipendentemente dalla loro ubicazione, alle infrastrutture elettriche interrate di connessione degli impianti di cui medesimo comma 1”.

In sostanza che si dice? Appena le Regioni avranno deliberato le aree idonee (tra sei mesi, se va bene), per gli impianti fotovoltaici, agrivoltaici ed eolici la Valutazione di impatto ambientale, laddove prevista, varrà come il due di picche visto che, per decreto, chi dovrà esprimersi parlerà al nulla: il suo parere non sarà vincolante e pure affrettato. Insomma, l’autorità competente lavorerà a vuoto: e allora perché mai dovrà lavorare? A beneficio di chi e di che cosa? Saranno risparmiate dalla Via anche le opere di movimentazione terra per realizzare i tunnel chilometrici per portare i cavi per l’elettricità alle cabine “infrastrutture elettriche interrate di connessione” e/o quelle per raggiungere le cabine di raccolta nazionale. C’è da fare festa? No. Con due decreti sono riusciti ancora a imbavagliare la Valutazione di impatto ambientale e questo non va bene affatto. Le compagini politiche ambientaliste non hanno nulla di cui festeggiare perché accettare che la corsa alle rinnovabili renda legittimo l’azzeramento della Via è semplicemente grave e apre a successive richieste pericolose davanti alle quali sarà ora più difficile dire che non si è d’accordo. Perché non scontare la Via anche ad altre opere “ambientali” come ponti ferroviari sul mare, ecogasdotti, centrali a biomassa, caserme dei carabinieri forestali o, magari pure depositi di rifiuti? 

Via e Valutazione ambientale strategica (Vas) sono sacre e rimangono le uniche due procedure per arginare il degrado ambientale ed è grave decidere di eliminarle/scontarle/zittirle. Sono già oggetto di continuo attacco e molte fatte giusto per farle (specie le Vas). Se addirittura le inertizziamo per decreto, non rimane più nulla per arginare il declino. Semmai il governo attuale avrebbero dovuto moltiplicare gli investimenti così da qualificare meglio e ampliare la rosa dei tecnici nei ministeri preposti a verificare queste Via e Vas. Questo andava fatto, approfittando della grande palestra offerta dalla transizione energetica e dagli extraprofitti che questo mondo incasserà e da cui si sarebbe potuto generare un fondo pubblico per una task force dedicata a Via e Vas. Invece hanno fatto l’esatto contrario: depotenziato lo strumento e non irrobustito i suoi tecnici. C’è poco da essere contenti. Lo saranno forse gli energetici della transizione veloce a qualunque costo (sempre che non facciano pannelli e pali in fianco alle loro case al mare o ai monti). Lo sarà la generazione degli speculatori eco green. Lo saranno quelli del “meglio così che le energie fossili”. Ma chiedete a quanti dovranno cedere le loro terre per ospitare le rinnovabili, se sono contenti come voi. Chiedete a chi si vedrà una pala eolica a due passi da casa.

Ma c’è dell’altro per cui non stare allegri per nulla. Il decreto governativo suggerisce alle Regioni di considerare idonee le “aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica” (art. 7, c. 2, pt. b). Qui ci sono due gravi problemi. Il primo: un’area a cui è assegnata una destinazione urbanistica è, a oggi e al 90%, un suolo completamente libero e spesso in buona salute. Non ha nulla di compromesso solo perché il piano urbanistico ne prevede la trasformazione ad altro uso. Potenzialmente potrebbe addirittura diventare prato o bosco e concorrere ad accrescere la quota di aree da riportare a livello di buona naturalità per il regolamento Ue della “Nature restoration law”. Invece qui, con il solito fare all’italiana, il decreto fa passare la “previsione” di trasformazione per qualcosa che ha già degradato quell’area e quindi, ope legis, decide di salvarla rendendola idonea per impianti fotovoltaici. Scientificamente inaccettabile. Anzi apre a un pericoloso e perverso giochino: si fa una variante di piano trasformando un’area agricola in area logistica e poi si chiede alla Regione di aggiornare la carta delle aree idonee e così si ottiene la possibilità di installare i lucrosi pannelli.

In tutto questo, vi è anche sotto traccia la gravità che a prevalere nelle decisioni di idoneità delle aree sia sempre e solo un criterio amministrativo e non uno ambientale né ecologico. Nel decreto l’idoneità non passa dall’analisi eco-pedologica di suoli: non vedo che cosa ci sia da festeggiare. La seconda cosa tocca il tema dell’equità. Favorendo l’idoneità alle aree previste per logistica o produzione, etc., il decreto sta servendo a un determinato target di investitori privati (peraltro spesso posseduti a loro volta da fondi di investimento e capitali stranieri) una grande possibilità di fare speculazione energetica sui loro terreni che potranno consumare liberamente, pure evitando di mettere i pannelli sui loro tetti. Ci va bene? C’è da festeggiare?

E, per finire, questo decreto non ha fermato ancora il problematico decreto legislativo n. 199 del 2021 (promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili) dove con un colpo di spugna si è deciso che sono aree idonee tutte quelle aree agricole che si trovano entro 500 metri attorno a stabilimenti produttivi (anche capannoni logistici) o impianti industriali o centri commerciali: le hanno chiamate “solar belt” (art. 20). Queste aree continuano a essere idonee fin quando le Regioni non approveranno le loro. Ma a quel punto si troveranno costrette a includerle, pena una pioggia di ricorsi. Non a caso il decreto del governo invita le Regioni proprio a includerle (come infatti dice l’art. 7 c.2 pt. c). E poi, non sottovalutiamo il fatto che, nonostante della necessità di definire le aree idonee si sapesse da un anno, il decreto ha deciso di dare alle Regioni sei mesi per approvare le loro aree idonee (art. 3), pertanto in questo transitorio fioccheranno richieste di solar belt e altre richieste nelle more delle aree idonee.

Stiamo parlando di una quantità enorme di aree agricole che sfuggirà ai criteri di idoneità delle Regioni: quasi quasi in certi casi potrà convenire rilevare un piccolo capannone dismesso per ottenere di diritto una grande area pannellizzabile attorno. Già, perché, se hai un ettaro a magazzino (magari per un solo pacchetto) in mezzo alla campagna arrivi ad “autoidoneizzarti” due ettari attorno e in più potrai usarti i tuoi ettari interni al sedime: bingo. Ovvio che tutto questo è configurabile come una deroga bella e buona ai criteri di idoneità ed è altrettanto ovvio che tutto ciò accelera le speculazioni, con buona pace degli energetici e della loro fretta a passare alle rinnovabili. Prova ne è che in un battibaleno società energetiche italiane e straniere, fondi di investimento e altri soggetti non ben definiti si sono attaccati alle mail di geometri e architetti di campagna promettendo loro lauti guadagni: dai cinquemila ai 60mila euro di compenso solo per fare scouting ovvero per trovare proprietari disponibili a cedere aree papabili per le solar belt e non solo, da presentare a investitori energetici. Visto? Questa è la prova provata di come fare una legge che anziché orientare verso una transizione giusta ed ecologica, ne disegna una facile per le finanziarie che usano le rinnovabili per speculare. 

In ultimo ricordiamo ancora che nessuno sta sollevando il dubbio che, per come è stata congegnata, l’attuale transizione è di fatto una privatizzazione ante litteram. Quando si raggiungerà la soglia di produzione energetica rinnovabile desiderata, saranno le centinaia di operatori privati (oppure le poche unità, se scopriremo un giorno che si saranno fusi tra loro) ad avere il pieno controllo della produzione di energia per il Paese e potranno spegnere l’interruttore se vorranno. A quel punto lo Stato e gli interessi collettivi usciranno di scena o si troveranno in una posizione assai complessa e certamente più ricattabile. Chi oggi ci sta garantendo che un domani ciò non accadrà? Altro motivo per non festeggiare ma per concentrarsi sul da farsi. 

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)


Su questi temi il dibattito su Altreconomia è aperto. Segnaliamo a proposito l’intervento, dall’orientamento diverso, del prof. Stefano Caserini dal nuovo numero della rivista. La redazione.

Il 10 luglio è intervenuto il prof. Nicola Armaroli, dirigente di ricerca al Cnr dal 2007, membro dell’Accademia nazionale delle Scienze e direttore della rivista italiana di divulgazione scientifica “Sapere”

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