Cultura e scienza / Intervista
Antonio Moresco. L’utopia incarnata di Chisciotte
Internato in un istituto, il personaggio creato dallo scrittore osserva il mondo e chiede di uscire dalla sua prigione. È il senso della letteratura che insegna come superare il possibile
Che ci fa Antonio Moresco con un pennacchio colorato in testa sulla copertina del suo nuovo libro? Semplice: recita Chisciotte, il suo alter ego, come vorrebbe fare in un vero film di cui appunto “Chisciotte”, il libretto appena pubblicato dall’editore Sem, è la possibile sceneggiatura. Mancano i soldi, non c’è (ancora) un produttore ma almeno il cast è quasi pronto: con Moresco-Chisciotte, ecco l’attrice porno Valentina Nappi a interpretare un’improbabile e licenziosa Dulcinea, lo scrittore Walter Siti nei panni del primario, Tiziano Scarpa vestito da monaca-infermiera e fra molti altri anche una vera attrice, Hanna Schygulla, che però -scrive Moresco- “si è incazzata per i tempi lunghi della lavorazione e quindi cercheremo di riconquistarla”.
Moresco è uno scrittore singolare, fluviale nei suoi libri ricchi di immaginazione eppure calati nella vita presente al punto da custodire un istinto di sovversione. Il suo Chisciotte vive nei nostri tempi, internato in un istituto, e da lì osserva la vita e il mondo con sguardo allucinato in un racconto ricco d’ironia e però drammatico, di sorprendente attualità. La stessa attualità che innerva il fiabesco “Canto degli alberi” (Aboca Edizioni), scritto nei giorni del confinamento domestico dovuto all’emergenza Covid-19. Moresco è un letterato attraversato da uno spirito ribelle. Lo spirito che spinse lo scrittore, una decina d’anni fa, a fondare Repubblica nomade, una comunità di camminatori che ha percorso e percorre l’Italia e l’Europa indicando sogni, a volte incubi, quasi sempre utopie. L’ultima impresa, la prima dopo il lockdown, è dell’inizio di ottobre: ha portato un manipolo di camminatori da Martina Franca a Matera, lungo i tratturi fra Puglia e Basilicata, sotto l’insegna della resilienza. Parliamo con Moresco durante questo cammino, seduti ai tavolini di un bar nella luminosa piazza di Mottola, a pochi chilometri da Taranto, dall’Ilva, nel mezzo di un paesaggio consolatore.
Moresco, dica la verità. Lei si sente Chisciotte ed è questo che l’ha spinta a immaginare libro e film.
AM (Ride) Ma sì, è inutile girarci intorno, la spiegazione è questa. Il “Don Chisciotte” di Cervantes è il libro che ho più amato perché rende la realtà e l’immaginario una cosa sola e quindi contiene una forza che passa dentro il lettore, nonostante sia virata spesso sul comico. Questa è la forza di cui abbiamo bisogno.
“Ci vogliono forze ulteriori che entrano in campo e che possono all’apparenza rasentare la follia: solo così possiamo pensare di cambiare profondamente le cose”
In che senso ne abbiamo bisogno?
AM Ne abbiamo bisogno perché se noi ragioniamo solo nell’arco dei possibili, in un’epoca che è dominata dalla dimensione economica, non ne usciamo fuori. La razionalità economica dice: il mondo è così, queste sono le leggi che lo governano e questo è l’ultimo stadio dell’umanità, il massimo raggiungibile, quindi che vuoi pretendere di cambiare? Non è possibile. Per questo ci vogliono forze ulteriori che entrano in campo e che possono all’apparenza rasentare la follia: solo così possiamo pensare di cambiare le cose, di metamorfizzarle profondamente. Un ordine costituito giudica follia tutto ciò che fuoriesce dai suoi canoni, quindi è di quella follia che noi abbiamo bisogno.
Il suo Chisciotte a un certo punto dice agli altri pazienti: dobbiamo uscire, andare là fuori e cambiare tutto…
AM È l’idea che noi siamo chiusi in una sorta di prigione, una galera che abbiamo contribuito a costruire. Il mio Chisciotte dice: dobbiamo uscire da questa prigione bianca. Bianca perché non ha l’apparenza di una prigione ma tutte le leggi che la governano ci imprigionano. Oggi abbiamo bisogno di un oltrepassamento di ciò che viene dato come unico orizzonte dei possibili. Lego questo discorso alla nostra condizione di specie che è molto difficile, molto precaria. Per gli scienziati la nostra estinzione è già in atto. Non si può andare avanti come adesso, perpetuando le stesse ragioni che ci hanno portato a questo punto. Ci vuole una grande invenzione, una grande metamorfosi, non piccoli aggiustamenti di superficie. Per questo l’energia, l’irriducibilità di don Chisciotte, la sua capacità di riaprire il mondo unendo il possibile e l’impossibile, il sogno con la realtà, l’immaginazione con quanto ci circonda, è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
“Gli alberi murati hanno bisogno di attingere grandi quantità di acqua e si trovano in mezzo alla calce, al cemento, alle pietre. Ci insegnano che si può fare l’impossibile”
Qualcuno dice che Moresco è una sorta di profeta. Lei che ne pensa?
AM Io la spiego così: da molto tempo la letteratura viene chiamata fiction. Le parole non sono innocenti, esprimono pensieri profondi. E fiction nella traduzione italiana finzione accentua il suo carattere negativo perché la finzione è l’opposto della realtà. La colloco in una zona inoffensiva di intrattenimento. Ma la letteratura ha sempre avuto ben altra funzione che non l’intrattenimento. È stata prefigurazione, profezia. Quando Melville scrive “Moby Dick”, Hugo “I miserabili” o Dante la “Commedia” non è che vogliano fare esercizi di stile. Prendiamo Dostoevski. I suoi sono libri splendidi sul piano letterario ma lui ha l’idea, o l’illusione, di creare un sommovimento nelle coscienze e nei cuori di chi legge. Avere ridotto la letteratura a un ruolo di finzione è una cosa efferata di questa epoca. È di una gravità assoluta che il mondo della cultura abbia accettato di stare in quel cantuccio lì, nella prigione bianca della fiction. La letteratura si è messa a fare il controllo del territorio e dell’esistente, invece di creare eversione dentro l’esistente come hanno sempre fatto i grandi scrittori.
C’è una connessione fra “Chisciotte” e “Canto degli alberi”?
AM C’è connessione. “Chisciotte” attinge al meccanismo romanzesco, “Canto degli alberi” porta avanti in altro modo lo stesso bisogno di una metamorfosi radicale da introdurre nel mondo. Al momento della chiusura mi sono trovato casualmente in una casa a me sconosciuta a Mantova, la mia città natale. Camminavo da solo di notte e pensavo: ho riversato tutto in un libro che l’editore Aboca ha pubblicato a tempo di record. Inizialmente mi era stato richiesto di scegliere un albero e sviluppare il tema ma non riuscivo a trovarne uno che mi rappresentasse e che potessi esibire come un emblema. Poi mi sono venuti in mente quegli alberi che crescono nei muri: irriducibili, tragici, drammatici ma anche di una potenza vitale incredibile. La scelta degli alberi murati, come li chiamo, in un momento in cui eravamo murati in un certo senso anche noi, aveva un profondo significato. Loro che hanno bisogno di attingere grandi quantità di acqua e si trovano in mezzo alla calce, al cemento, alle pietre, ci insegnano che si può fare l’impossibile. E noi abbiamo bisogno dell’impossibile dato che il possibile ci ha portato al punto in cui siamo.
Repubblica nomade in questo suo lavoro che cosa può ancora rappresentare?
AM Repubblica nomade ha il desiderio di esprimere attraverso un gesto biologico, primordiale, psicofisico, materiale-spirituale come il camminare sia una prefigurazione di un altro modo di vivere e di stare insieme. La nostra è una comunità che unisce persone differenti fra loro: giovani e vecchi, credenti e non credenti, sani e malati, intellettuali e gente che fa i mestieri più disparati. Persone che nella vita di tutti i giorni parrebbero non potere stare insieme. E invece succede che durante il cammino non c’è nessun problema di convivenza, quindi non ce la contano giusta. Quest’anno, a causa del Covid-19, abbiamo dovuto organizzarci in modo un po’ diverso, rinunciando alle palestre nelle quali di solito dormiamo tutti insieme in un momento di grande affratellamento. Ma era importante uscire dall’isolamento portato dalla pandemia. Ci siamo dati il tema dei tratturi e della resilienza ma Repubblica nomade è abituata a concepire i suoi cammini attorno a temi forti. Siamo andati da Trieste a Sarajevo per dire che la guerra non è il nostro passato e che soffiando sulle identità in modo esasperato entriamo sul piano inclinato che porta alle guerre. Abbiamo camminato fino all’Aquila dopo il terremoto per dire che non solo l’Aquila è da ricostruire ma l’intera Italia. E così via. Sono cammini che hanno una trascendenza e questo è molto donchisciottesco.
Che cosa consiglierebbe a un giovane che si sentisse a disagio rispetto al mondo che lo circonda?
AM Oggi è difficile dire: rivolgiti a questo o a quello. Siamo in un periodo di incubazione profonda in cui tutti i desideri, i bisogni, gli aneliti non hanno ancora acquistato una forma visibile, forte, dirompente. Direi a quel giovane di cercare i suoi simili perché ci sono. Però sono dispersi e non sanno l’esistenza uno dell’altro. Ci vorrà qualcosa in grado di canalizzare tutte le energie fino a creare un fluido. Dovrà avere una sua forma, una potenza; per poter dire la propria in maniera incisiva, non potrà rimanere una cosa astratta o virtuale. Non riesco ancora a dire quale sarà questa forma. Intanto ciascuno nella sua solitudine dovrà cercare i propri simili e non arrrendersi mai fino a quando non li avrà trovati.
Chisciotte, Antonio Moresco, Sem Libri (128 pagine, 15 euro)
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