Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Altre Economie / Speciale 20 anni Altreconomia

Altreconomia: dal 1999 l’informazione indipendente. Il racconto dei fondatori

Altreconomia compie vent’anni. Dal primo numero al 220, com’è nata e cambiata la rivista del commercio equo e solidale, degli stili di vita sostenibili, dei diritti e dell’economia alternativa. E perché ce n’è ancora bisogno. La parola ai fondatori. Per guardare avanti

Tratto da Altreconomia 220 — Novembre 2019
© Beatrice Bianchet

Tonino Perna
La capacità di unire mondi

Quando nel febbraio del 1999 ci siamo incontrati a Milano, Francesco Terreri, Miriam Giovanzana e il sottoscritto, grazie al brokeraggio solidale di Stefano Magnoni, non immaginavamo che questa nostra creatura potesse avere una vita così lunga e brillante. Chiudevamo l’esperienza delle nostre riviste, che si chiamavano Altrafinanza, L’Altromercato e Sud-Sud, testate che avevano un loro pubblico, una loro specificità e ragion d’essere, per confluire in una sola rivista. Ci sono tante ragioni valide per difendere il proprio orticello e non è facile non restare affezionati alla propria creatura. Sud-Sud di cui ero stato ideatore e direttore era l’unica rivista nel mondo delle organizzazioni non governative (Ong) attive nella cooperazione internazionale che si battesse per una cooperazione tra i Paesi del Sud del mondo e quelli del Sud-Europa, compreso il Mezzogiorno.

Altrafinanza -come si evince dal nome della testata- era nata da poco, promossa da CTM-Mag, la realtà che poi ha dato vita a Banca Etica, L’Altromercato era diretta da Stefano Magnoni, ed era l’unica rivista che si occupasse di commercio equo e solidale. Miriam Giovanzana, infine, era l’anima e la mente di Terre di mezzo, il giornale di strada più venduto in Italia grazie a una rete di immigrati e a un clima, culturale e politico, ben diverso da quello che stiamo vivendo in questi ultimi anni. E proprio Miriam dette la sua disponibilità a dirigere quella che all’inizio sembrava più che altro una scommessa velleitaria, e comunque una strada piena di incognite: era la prima volta che questi mondi si univano per creare uno strumento comune. Dopo poco tempo a questa avventura si unì generosamente Francesco (Francuccio) Gesualdi, con la rivista del Centro nuovo modello di sviluppo che aveva più di un migliaio di abbonati e un pubblico affezionato. Insomma, potremmo dire oggi che “l’unità produce unità”, vale a dire che un processo di aggregazione funziona da calamita per attrarre altri soggetti ad aderire a un determinato progetto e visione. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto nelle cosiddette forze politiche della sinistra che sono state capaci nell’ultimo ventennio di produrre solo divisioni e leader litigiosi. Credo che il successo di Altreconomia sia dovuto anche e soprattutto alla capacità della sua redazione, dei suoi lavoratori che ci hanno creduto quando sembrava impossibile restare sul mercato con una rivista cartacea nell’era digitale.

Altreconomia ha seguito questo cambiamento da parte dei lettori eticamente orientati, senza cadere nel ‘localismo’, tenendo aperte le finestre sul mondo”

La crescita di Altreconomia è stata sia quantitativa che qualitativa: a partire dai primi anni sono aumentate le copie vendute e la rivista è diventata il punto di riferimento di chi si occupa di commercio equo e solidale, di finanza etica, e nuove forme di scambio economico.  Dopo il 2003, l’anno della più grande mobilitazione contro la guerra degli Usa-Nato contro l’Iraq, c’è stato un progressivo e repentino crollo del movimento della pace, ed in generale si è ridotta l’attenzione sulle questioni internazionali e i rapporti Nord-Sud, mentre cresceva l’interesse per il “locale”. La solidarietà con i popoli impoveriti del Sud del mondo si affievoliva per diversi motivi, uno dei quali era chiaramente un senso di impotenza rispetto ad azioni che potessero incidere su realtà così lontane. Nascevano e si moltiplicavano i gruppi d’acquisto solidale (Gas), che incameravano alcuni principi del commercio equo rispetto al rapporto produttori/consumatori, e rispondevano a una logica diventata prevalente: il mondo lo cambio a partire dal mio rapporto col territorio in cui vivo.

© Beatrice Bianchet

Altreconomia ha seguito questo cambiamento da parte dei lettori/consumatori eticamente orientati, senza però cadere nel “localismo”. Ovvero: ha dato uno spazio importante a questi nuovi fenomeni di “economia locale”, senza dimenticare di tenere le finestre aperte sul mondo. Così sono cresciuti gli articoli che hanno una dimensione internazionale, con una forte propensione verso il giornalismo d’inchiesta che è diventata nel tempo la vera cifra di questa rivista. Nel tempo in cui il giornalismo è sempre più digitale e accelerato, e insegue le notizie senza approfondirle, le redazioni di tutti i media (Tv, giornali, riviste) tendono a tagliare i tempi di produzione, il giornalismo d’inchiesta sta diventando una vera eccezione. Se poi pensiamo agli inviati all’estero, il cambiamento è stato ancora più radicale. Fino a venti anni fa, diciamo meglio agli anni Ottanta del secolo scorso, l’inviato all’estero dei più importanti giornali e Tv godeva di notevoli privilegi legati al prestigio della sua funzione. Viveva in alberghi stellari e non badava a spese che venivano regolarmente rimborsate. Attraverso questi inviati, specie nelle zone di guerra o in aree dimenticate del Terzo Mondo, si prendeva coscienza di quello che accadeva fuori dalle nostre mura nazionali. Con l’avvento di internet è cambiato tutto. Le news viaggiano da una parte all’altra del mondo e siamo tutti sommersi da troppe informazioni, e spesso non abbiamo gli strumenti per discernere i fatti dall’informazione-spazzatura. Nel mondo dell’iperinformazione siamo sempre meno informati, nell’accezione di conoscere realmente ciò che accade. Per questo il giornalismo d’inchiesta praticato da Altreconomia è prezioso e andrebbe sostenuto da tutti coloro che hanno a cura la conoscenza della realtà sociale, economica, ambientale del nostro tempo. Un giornalismo di denuncia rigorosa e non velleitaria, basata su dati, che non è fine a sé stesso, non cerca lo scoop, ma tenta di far crescere la nostra consapevolezza e spingerci ad agire. Altreconomia dunque è cresciuta, maturata e oggi letta e apprezzata da tanti.

“Siamo sempre meno informati, nell’accezione di conoscere realmente ciò che accade. Il giornalismo d’inchiesta praticato da Altreconomia è prezioso”

Partita dal movimento del commercio equo e solidale/finanza etica, ha fatto un lungo cammino, senza dimenticare le sue radici. Oggi, che il commercio equo non è più di moda, ma è la sola alternativa concreta che conosciamo rispetto ai mercati oligopolistici, allo strapotere delle multinazionali, all’impoverimento crescente dei piccoli produttori, andrebbe rilanciato e riproposto in altre forme e con altri strumenti. È una questione che vorrei riprendere e approfondire insieme a questa magnifica redazione.

Se vent’anni vi sembran pochi…

provate voi a lavorare per tante ore…

per un piccolo stipendio…

con tanta passione e amore.

Lunga vita alla redazione di Altreconomia.

Tonino Perna è stato professore ordinario di Sociologia economica all’Università di Messina, presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, della Ong Cric, del Comitato etico di Banca Etica. Ha scritto una trentina di saggi tra cui “Fair trade” (Bollati Boringhieri, 1998) ed “Eventi estremi” (Altreconomia, 2011)


Francesco Gesualdi
L’importanza delle pratiche

Altreconomia è nata vent’anni fa dalla fusione di diverse riviste. Noi del Centro nuovo modello di sviluppo gestivamo la piccola EquonomiaGli obiettivi che ci eravamo posti allora erano da una parte il tentativo di analizzare il comportamento delle imprese, come un periodico strumento di consumo critico, dall’altra di affrontare grandi tematiche legate agli squilibri economici e al degrado ambientale. A seguito dell’aggregazione nel 1999 l’attività si è orientata anche sul racconto delle pratiche alternative.

Negli anni la nostra collaborazione è andata affievolendosi, Altreconomia è diventata adulta, ma nonostante tutto intorno a noi stia cambiando e sia cambiato -il contesto, il sentire- c’è ancora bisogno di questa rivista. Le difficoltà non mancano, lo sappiamo. Se il piano dell’informazione è solido, quello dell’azione sta scemando. Forse perché stiamo cercando di capire dove orientarla, quell’azione, visti i cambiamenti rapidi che ci troviamo ad affrontare. Se guardo il mondo oggi, in generale, mi sento di dire che sta un po’ diminuendo la sensibilità verso le nostre tematiche e le nostre proposte. Anche se il bisogno non si sta riducendo, semmai si sta accentuando. Penso ai cambiamenti climatici, alle migrazioni: la necessità di una via alternativa in questo momento è più forte che mai. Ma la si ricerca sempre meno, complice il fatto che la mentalità mercantile si sta facendo strada nella testa di molti e la crisi del 2008 ci ha spinti verso soluzioni del momento e non di lunga durata. Quando il sistema non funziona ti porta a tornare tra le sue braccia per cercare lì le soluzioni e questo è il grande errore del nostro tempo.

“Se il piano dell’informazione è solido, quello dell’azione sta scemando. Forse perché stiamo cercando di capire dove orientarla, quell’azione”

Per noi che lavoriamo sulle prospettive alternative e di lungo periodo non c’è ancora una maturità. Tanti, troppi, fanno analisi ma se di alternativa parlano lo fanno a livello micro, come se si fosse persa l’ambizione di pensare in grande. E invece è ciò di cui avremmo più bisogno. A questo “colpo” ha contribuito senza dubbio la repressione durante il G8 di Genova nel luglio 2001, uno snodo che ha smontato tante aspettative, ci ha fatto tornare alla “realtà”. Il potere ha reagito e pesantemente, arrestando una proposta che stava crescendo. Dopo quella forte delusione ci siamo ritirati nel privato politico, quasi a cercare solamente la soddisfazione di dire “qualcosa ho fatto”. Ciò che avevamo sperimentato è diventata una tentazione piuttosto che una soluzione. So bene che il cambiamento passa anche dalla sperimentazione, ma quando questa diventa l’unico risultato allora è controproducente. Occorre il pensiero, la massa critica, una spinta vera verso altri paradigmi.

© Beatrice Bianchet

Oggi questo non c’è. C’è il “movimento di Greta”, ma non sono molto ottimista. Vedo i giovani attendisti. Dicono “non ci rubate il futuro” ma poi delegano la risposta a chi ha creato il problema. Non so se funzionerà. Mi pare dominante una mentalità secondo la quale i problemi ambientali o sociali si risolvono sul piano della tecnologia. E questa è una cosa vecchia, una prospettiva vecchia. Non abbiamo capito che i limiti ambientali ci obbligano a ripensare tutto da capo. Il sistema, al contrario, quando si rende conto che sta fallendo cerca di negare. Poi è costretto ad ammettere. Ci troviamo qui. Il problema ambientale c’è, ormai si ammette, il problema sociale pure, seppur in subordine, ma le soluzioni, si dice, stanno tutte dentro il sistema. Non mi stupisce questo atteggiamento: è il tentativo di mantenersi in vita. Mi stupisce la presa in giro collettiva: siamo concentrati su un pezzetto del fallimento e ci convinciamo che la tecnologia ci salverà. È un errore e lo dimostra il fatto che il sistema ha scippato tanti nostri vocaboli e impoverito la nostra opposizione comunicativa. Dunque la situazione è più complicata di prima e servirebbe di capire come riorganizzarci per cercare di fare in modo che si arrivi a un nuovo impulso, a un nuovo pensiero, che si raggiunga il maggior numero di persone possibile. L’informazione indipendente può dare il suo contributo anche se tocca confrontarsi con la nascita di nuovi veicoli, strumenti, canali, modalità nuove, sempre più veloci e superficiali. Occorre una proposta teorica e poi è necessaria farla vivere nell’esperienza. Esperienze che siano meno separate possibile tra loro. C’è bisogno di associare nuovi stili di vita, nuovi modi di produrre energia, di trattare i rifiuti, di organizzare la società per garantire diritti a tutti. È il grande ambito in cui non ci siamo più. Il “piccolo” o ti porta al “fai da te” o ti porta al mercato -nella sua versione più morale, più buona-, ma non ti permette di sperimentare l’ambito della sovranità collettiva.

“Non abbiamo capito che i limiti ambientali ci obbligano a ripensare tutto da capo. Il sistema, al contrario, quando si rende conto che sta fallendo cerca di negare”

Non siamo più dove dovremmo essere. A chiederci come riorganizzare l’economia pubblica che si occupa dei diritti senza più affidarli al mercato, il quale offre di tutto soltanto a chi ha denaro. Ci vuole questa componente, questa dimensione, e invece di questo non se ne occupa più nessuno. Non la politica, non noi a livello di base che non riusciamo a farla diventare pratica sperimentale, spazio occupato. È di questo che dovremmo tornare a parlare con insistenza, di questo bisogno di equità globale proiettato nel futuro. La parsimonia dovrebbe diventare per forza il nuovo paradigma per cambiare un sistema che invece strapazza per bene le persone, come cartoncini. Gli “scartati”, per citare papa Francesco, aumentano sempre di più. Una rivista alternativa dovrebbe portare l’attenzione su queste tematiche sul piano teorico e sul piano pratico. Ma cominciando a rivalutare questa dimensione collettiva, diretta competitor del mercato. Sono pessimista? Non mi interessa. L’esperienza insegna che certi cambiamenti impongono tempi lunghi e che noi viviamo frammenti della storia, segnati da imprevisti. Negli anni Novanta c’era un movimento molto più radicato di quello che c’è oggi. Il punto era assumersi in prima persona le responsabilità per incidere sui processi generali. Genova è stata il culmine, poi è stato un retrocedere continuo. Oggi siamo nell’intimismo. Non si punta ai risultati ma a coltivare buone relazioni, come se si fosse già gettata la spugna. Dobbiamo continuare a impegnarci, senza porci però la domanda “ce la faremo?”. Quello non riguarda noi, riguarda l’umanità. Anche se ambisco, questo è ovvio.

Francesco Gesualdi (1949), allievo di don Lorenzo Milani a Barbiana, nel 1985 ha fondato a Vecchiano (PI) il Centro nuovo modello di sviluppo (cnms.it), da cui vengono lanciate le prime campagne di sensibilizzazione e informazione per un consumo critico in Italia. Per Altreconomia edizioni ha scritto “L’altra via” (2009)


Pietro Raitano
Una voce che striglia il potere

La maggior parte dei ragazzi che hanno sfilato per chiedere agli adulti di intervenire contro la crisi climatica lo scorso settembre, nel 1999 non erano neanche nati. Molti non lo erano forse nemmeno nel 2001, quando il G8 di Genova finì nella violenza, e più tardi l’11 settembre, quando l’equilibrio del mondo cambiò definitivamente. Certo non lo era Greta Thunberg, che tutti questi giovani ha ispirato. Erano bambini quando, tra il 2007 e il 2008, scoppiò la più grave crisi economico finanziaria. Perché questi ragazzi danno così fastidio, perché gli adulti invece di fare quello che chiedono -ovvero garantire loro un diritto, quello a un futuro dignitoso- li deridono o, semplicemente, li ignorano? Perché io credo che questi ragazzini facciano una cosa inaudita: strigliano i potenti. In una società dove i potenti sono invece ossequiosamente riveriti, come fa la servitù col padrone.

Era nata, nel 1999, Carola Rackete, il capitano della Sea Watch arrestata per il salvataggio di un gruppo di migranti portati a Lampedusa. Anche lei -e con lei migliaia di persone- sa che la vita e la dignità di donne, uomini e bambini vengono ben prima dell’ossequio all’autorità. Altreconomia è una giovane donna di 20 anni, e come queste giovani donne si impegna a costruire futuro. Lo fa con i suoi mezzi -l’informazione indipendente- ma con gli stessi elementi distintivi: serietà, umiltà, competenza, studio e una smodata passione per la giustizia. Lo farà a lungo, quanto basta a testimoniare che la vita di questi ragazzi è stata all’altezza di quanto meritano.

Pietro Raitano è stato redattore di Altreconomia dal 2001, e direttore della rivista tra il 2007 e il 2019. Oggi è responsabile organizzativo della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. L’ultimo libro per Altreconomia edizioni è “L’economia in classe” (2017, con Duccio Facchini e Luca Martinelli)

© Beatrice Bianchet

Miriam Giovanzana
Costruendo il cambiamento

“Cari amici, vi scrivo per invitarvi a un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda. Un evento che ci aiuti a stare insieme e conoscerci, e ci conduca a fare un ‘patto’ per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani”.

Un patto per cambiare l’attuale economia. Ci saranno Amartya Sen, Muhammad Yunus, Vandana Shiva, Jeffrey Sachs… ma immagino che potrà affacciarsi anche Esther Duflo, recentissima vincitrice del Nobel per l’economia, classe 1972, la seconda donna e la persona più giovane a ricevere il Nobel per l’economia, da anni punto di riferimento per chi si occupa di povertà e di sviluppo. Ad Assisi, dal 26 al 28 marzo 2020, “The economy of Francesco”: l’incontro è rivolto ai giovani under 35, economisti, imprenditori, manager e altri “change-makers”, coloro che già hanno attuato attività che danno concretezza a una visione di economia giusta, sostenibile e inclusiva. L’invito è di papa Francesco. Mi piace pensare che tra questi “change-makers” ci sia anche Altreconomia, che compie vent’anni e che quindi fa parte a pieno titolo dei “giovani”, ma che soprattutto, con la sua “informazione per agire”, ha accompagnato, sostenuto e nutrito la visione di tanti “change-makers”. Quindi intanto grazie a chi -redazione, lettori- in questi anni ci ha creduto e ha reso possibile tutto ciò, con dedizione, intelligenza e professionalità crescente.

“Il cambiamento non dipende dallo stock di conoscenze o di capacità (che, se ci consideriamo come umanità, vanno esponenzialmente crescendo) ma dai desideri”

Provando a riguardare alla stagione entusiasmante degli inizi di Altreconomia posso dire che un mondo giusto, inclusivo, in pace è il desiderio che ci ha accomunato, ed è uno dei fattori che ha permesso la nascita di Ae. L’altro è stata la fiducia che s’instaurò tra un pugno di persone e che seppe contagiare le rispettive realtà di provenienza e convincerle, anche in assenza di mezzi, che quella del giornale era una strada che valeva la pena di essere percorsa. Pensarsi insieme, e non solo unirsi per fare qualcosa, è stata poi la sfida quotidiana. Tutti elementi generativi.

© Beatrice Bianchet

C’è una domanda che mi porto via da quegli anni e che continuamente si ripropone, con uno stupore che si rinnova ogni volta: com’è che sapendo tutto quello che sappiamo (sui cambiamenti climatici, su ciò che produce valore e ricchezza o, al contrario, ingiustizia e povertà) non cambiamo? La risposta che mi sembra sempre più vera è che il cambiamento non dipende dallo stock di conoscenze o di capacità (che, se ci consideriamo come umanità, vanno esponenzialmente crescendo: si pensi solo alla potenza dell’intelligenza artificiale) ma dai desideri. I desideri sono innanzitutto quello che ognuno ha nel cuore, poi nutrono i sogni collettivi. La conversione ecologica -ci ha insegnato Alexander Langer tanti anni fa, e per lui la conversione ecologica significava anche la conversione dell’economia- sarà possibile quando sarà socialmente desiderata. “Se si vuole riconoscere e ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l’ambiente, bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto culturale e sociale…”.

Ecco, Altreconomia a me pare sia stata, e sia, parte di questo “percorso costituente” culturale e sociale.

“Perché il cambiamento avvenga servono almeno tre fattori: l’eroismo di qualcuno, il coraggio di mettere mano alle regole e un contesto internazionale favorevole”

Per questo i prossimi vent’anni e la prossima tappa di Assisi mi paiono significativi e tappe da non mancare. Certamente i giovani sono coloro che hanno le chance maggiori per vivere questo cambiamento. Noi vecchi però sappiamo che non bastano la volontà e l’entusiasmo, perché molto rema contro in un sistema che continua ad avere al centro il denaro e il potere (anche se magari non lo afferma più con granitica e spudorata certezza) e fa discendere dalla ricerca del benessere individuale il bene comune. Perché il cambiamento avvenga servono almeno tre fattori concomitanti: l’eroismo di qualcuno (i sogni, le visioni vissute, le testimonianze che dicono che un altro modo di vivere, lavorare, produrre, consumare, essere felici è possibile), il coraggio di mettere mano alle regole (abbiamo bisogno di politiche innovative e di uomini e donne che le sappiano immaginare e rendere desiderabili), e un contesto internazionale favorevole. Su almeno uno di questi piani -e l’esperienza di questi vent’anni a me pare ci dica che probabilmente ogni esistenza si affaccia, in tempi diversi, su tutti e tre- ognuno di noi ha una sua partita da giocare e una sua responsabilità. Giocare piuttosto che stare in panchina è ciò che tutti desideriamo: se talvolta non lo ammettiamo è perché quasi sempre c’è qualcuno che ci dice che non siamo all’altezza. Anche qui però basta cambiare le regole: che l’altezza sia quella dei più piccoli, e c’è posto per tutti.

Miriam Giovanzana (1962), giornalista, è stata tra i fondatori di Altreconomia e ha diretto la rivista dal 1999 al 2007. Nel 1994 ha dato vita con altri tre soci a Terre di mezzo Editore, di cui è ancora oggi direttore editoriale


Emilio Novati
Un antidoto alle fake news

Quando Duccio mi ha chiamato per chiedermi di scrivere qualcosa in occasione dei vent’anni dalla fondazione di Altreconomia, sono andato a riprendere i primi numeri della rivista, che conservo ancora gelosamente, per risvegliare il ricordo di quei tempi e confrontarlo con l’attualità. Un confronto col passato che è certamente rischioso, visto che ciò che mi sembra nuovo e diverso potrebbe dipendere solo dal fatto che anch’io sono invecchiato di vent’anni.

Ma mentre sfogliavo i vecchi articoli, Clelia (mia moglie) mi ha ricordato che nello stesso giorno in cui firmammo l’atto di fondazione della società editrice, subito dopo la riunione con il notaio, partimmo, con due amici, per un viaggio che ci portò ai confini tra Tunisia e Algeria, su un’auto a noleggio. Oggi non so se girerei ancora in quelle zone da solo con la tranquillità di allora, e non solo per l’età, ma perché molte cose sono davvero cambiate. Un tentativo di ricordare e confrontare può quindi essere utile. A parte la numerologia millenaristica, gli anni dal 1999 al 2001 furono realmente speciali. Nel 1999, in Italia, molte diverse realtà stavano sperimentando tentativi di costruire una economia alternativa e c’era un vivace confronto di esperienze, ma soprattutto si percepiva che questo attivismo si inseriva in un ampio contesto mondiale di critica all’economia liberista e allo strapotere delle società multinazionali e dei Paesi ricchi.

Un settore particolarmente vivace era quello del commercio equo e solidale che, in Italia, stava definendo la “Carta dei criteri” che ne caratterizza ancora oggi le finalità e il modo di operare. Equo Mercato partecipava attivamente alla stesura di questi criteri, e a margine di questo confronto arrivò la proposta di CTM di dar vita a una rivista che parlasse dei temi dell’economia solidale. I tempi erano maturi, ma l’impresa non era semplice. Bisognava coinvolgere diversi soggetti che rappresentassero esperienze e sensibilità differenti, e furono necessari diversi incontri e lunghe discussioni, ma infine il primo numero della rivista uscì nel novembre del 1999, praticamente in contemporanea con le manifestazioni contro l’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) a Seattle, che segnarono la comparsa sulla scena mondiale del movimento che verrà chiamato (impropriamente) No Global.

“Il compito di Altreconomia diventa sempre più difficile ma anche indispensabile: essere un piccolo baluardo a difesa di una informazione libera e di qualità”

Così Altreconomia divenne, quesi inevitabilmente, la rivista che raccontava quel movimento, con l’ambizione non solo di criticare l’economia dominante ma soprattutto di raccontare e mettere a confronto le esperienze concrete di costruzione di un’economia alternativa. Credo che questo doppio legame: con i grandi temi dell’economia da una parte e, dall’altra, con le concrete sperimentazioni di possibili alternative, sia stata l’intuizione vincente fin dall’inizio, che ancora oggi funziona e tiene viva la nostra rivista. Il quadro globale in cui il movimento era inserito è drammaticamente cambiato da allora. Nel 2001, quando la rivista era ancora in fasce, passammo dallo slogan ‘’Un altro Mondo è possibile’’, che caratterizzava l’entusiasmo del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, al dramma delle giornate del G8 di Genova, raccontate con la sofferenza di chi era direttamente coinvolto, e poi al crollo delle torri gemelle che ci lasciò attoniti, a cercare di capire cosa sarebbe successo dopo quella che sembrava una crisi di sistema che avrebbe cambiato tutto.

Rileggendo le pagine della rivista si vede che invece alcune delle previsioni che allora facevamo si sono avverate e i temi che allora ponevamo sono diventati di attualità. Alcune sono talmente esatte che meritano una citazione. Proprio sul primo numero, nell’editoriale di apertura dedicato alla crescita della povertà nel mondo, Tonino Perna parla della possibile crescita del numero di affamati nel mondo fino a raggiungere “una cifra da capogiro che farebbe impallidire le nostre (occidentali) preoccupazioni sui flussi migratori”. E nel numero successivo, parlando del problema della sostenibilità del sistema pensionistico, si spinge a prevedere che, nel 2020, ci saranno in Italia tra 5 e 6 milioni di immigrati. Una cifra che corrisponde quasi esattamente alla realtà attuale.

© Beatrice Bianchet

Sempre sul primo numero Serge Latouche parla degli incendi che devastano la foresta indonesiana e quella amazzonica e che “sono il risultato, diretto o indiretto, del comportamento criminale delle aziende multinazionali implicate nell’affare delle grandi coltivazioni’’. Sembra la copertina di Ae dell’ottobre scorso. Non sono solo coincidenze. Il fatto è che molti dei problemi che avevamo allora di fronte sono ancora lì, irrisolti. Solo che ora sono molto di più quelli che ne parlano e li indicano come i problemi del millennio. Potremmo vantarci della nostra lungimiranza e proclamare che “avevamo ragione”. Ma non è così semplice, e l’altro lato della medaglia è che, dopo tanti anni di discussioni e sperimentazione di alternative, ancora non sappiamo come avviarli a soluzione. Il più grande di questi compiti irrisolti credo che sia il coinvolgimento del continente africano nel processo di costruzione di un altro mondo possibile. Forse questa priorità è dettata dalla mia provenienza dal mondo del commercio equo, ma ricordo che già nella cronaca dai Forum di Porto Alegre avevamo denunciato su Altreconomia la mancanza dei movimenti africani. Da allora non siamo riusciti a rimediare efficacemente a questa carenza, che dopo vent’anni è sempre più drammatica. Mentre i Paesi ricchi sono attraversati da una ampia mobilitazione giovanile che pone al centro il problema della compatibilità tra sviluppo capitalistico e sostenibilità ambientale, una gran parte dei giovani africani hanno il problema, ben più immediato, di sopravvivere in situazioni disperate o di cercare di costruirsi il futuro affrontando i pericoli dell’emigrazione. Come si possono parlare e comprendere tra loro questi giovani? E forse il timore che avrei a tornare da solo in certe regioni dei Paesi africani ha qualcosa a che fare con questo problema.

Il mio contributo al ventennale potrebbe finire qui, ma c’è ancora un ultimo aspetto che mi sembra importante sottolineare. Altreconomia è innanzi tutto un’impresa editoriale, che ha saputo sopravvivere in piena autonomia e senza sovvenzioni per vent’anni. Fin dall’inizio questo era l’obiettivo principale dei soci fondatori, ma nessuno aveva risorse economiche da investire. Sapevamo che la rivista avrebbe dovuto sostenersi economicamente con le sue sole forze e che non sarebbe stato facile. L’unica possibilità era di dare ai lettori un’informazione di qualità e di far capire che questo tipo di informazione non può essere gratuita. Oggi questo tema è più che mai attuale. Vent’anni fa non fummo capaci di prevedere che la diffusione con i nuovi media di notizie inutili o false sarebbe arrivata quasi a saturare la capacità di ascolto della gente e che tali notizie sarebbero state gratuite e spesso generate dagli stessi utilizzatori, felici di partecipare a una sorta di orgia virtuale dove in cambio di “notizie” inutili avrebbero barattato la conoscenza dei loro comportamenti personali, utilizzati poi per orientare le loro scelte. In questa realtà il compito di Altreconomia diventa sempre più difficile ma anche indispensabile: essere un piccolo baluardo a difesa di un’informazione libera e di qualità. E sono felice di aver potuto contribuire a farla nascere.

Emilio Novati è nato nel 1949 e si è laureato in fisica nel 1973. Ha insegnato matematica e fisica e ha collaborato alle riviste di divulgazione astronomica L’Astronomia e Le stelle. Da oltre trent’anni si occupa di commercio equo e solidale con la cooperativa Equo Mercato che è stata tra i soci fondatori di Altreconomia


Stefano Magnoni
Una storia nel segno del commercio equo e solidale

L’antefatto della nascita di Altreconomia è questo. Sin dai primi anni 90 esisteva un foglio di collegamento tra le realtà del commercio equo che si chiamava L’Altromercato. Serviva per promuovere le campagne e i prodotti attraverso la nascente rete delle botteghe.
Nel 1987 era nata CTM-Mag, la cooperativa finanziaria che su scala nazionale raccoglieva i soldi -allora si poteva fare- e prestava le risorse ad Altromercato per effettuare il pre-finanziamento a beneficio dei produttori. Questa mutua aveva di fatto fondato una rivista registrata a Trento, che si chiamava Altrafinanza. Quindi il “movimento” CTM-Mag, aveva due “fogli”. Nel processo di riorganizzazione che poi farà nascere Altromercato, che prima come detto si chiamava CTM, ci si è resi conto che sarebbe stato inutile mantenere in vita due riviste e più sensato invece fondarne una sola.

© Beatrice Bianchet

È qui che entro in gioco io. Ero stato chiamato da Altromercato a fare una sostituzione di una persona che si occupava di comunicazione. Avevo appena abbandonato l’Università a Milano, ero ricercatore dopo la laurea in Fisica. Sono stato a Bolzano un anno e una delle prime cose che ho seguito è stata la comunicazione e il coordinamento tra quei “fogli”. A un certo punto dissi: scusate, facciamo nascere una cosa nuova, la chiamiamo Altreconomia e cerchiamo di farla a Milano. Ero di lì ed ero stufo dopo otto mesi a Bolzano. Convincere gli uni e gli altri non è stato facile, ma alla fine, nonostante conflitti e incomprensioni che ci sono state su altri campi, l’unica cosa che è sopravvissuta bene è la rivista. Tonino Perna mise a disposizione la rete di Sud-Sud. Io curavo i conti. Mancava il giornalista. Una socia di Chico Mendes che collaborava con Terre di mezzo mi mise in contatto con Miriam Giovanzana. Da lì è nata la compagine, a bordo della mia Skoda.

Stefano Magnoni è stato nel 1990 tra i fondatori di Chico Mendes, la cooperativa di commercio equo e solidale di Milano. Dal 1998 al 2007 è stato vice-presidente di Altromercato, il principale importatore italiano di prodotti equo-solidali.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.