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Cultura e scienza / Approfondimento

Alcune opere letterarie importanti per comprendere meglio Israele e la Palestina

© Amós Oz, foto di Fronteiras do Pensamento / Luiz Munhoz

Una rassegna delle opere che raccontano, in modo diretto o meno, guerre, scontri e conflitti tra israeliani e palestinesi. Perché la letteratura può offrire varie prospettive e angolazioni inedite per leggere la contemporaneità e la Storia. A cura di Nicola Villa, editor di Altreconomia

Dal 7 ottobre ci si è ritrovati a livello globale di nuovo immersi nell’orrore del conflitto israelo-palestinese, uno dei più duraturi e intricati eventi della nostra contemporaneità. L’attacco di Hamas e il conseguente massacro a Gaza, hanno provocato e stanno provocando decine di migliaia di morti, sofferenze, crisi umanitarie. Ci troviamo di fronte, ciclicamente, a un conflitto che ci lascia sgomenti e non sembra avere una possibilità di risoluzione. Una guerra lunga, lunga più di settanta anni, che fa parte ormai del nostro immaginario e rientra anche in molte opere di finzione. La letteratura ha costantemente svolto un ruolo di rilievo nel narrare questo conflitto, offrendo varie prospettive e angolazioni inedite. I romanzi e le opere letterarie che affrontano il tema hanno la capacità di farci comprendere le radici e le conseguenze di questa lotta, di farci conoscere le storie delle persone coinvolte e di spingerci a riflettere sulla possibilità di una soluzione pacifica.

In questa selezione, inevitabilmente limitata, sono stati scelti alcuni tra i romanzi e le opere letterarie dalla più recente alla più vecchia che trattano l’argomento. Questi testi non provengono solamente dal Medio Oriente ma abbracciano diverse parti del mondo. La letteratura israeliana è sempre stata molto tradotta nel nostro Paese, grazie anche al fatto che l’ebraico moderno deriva da quello biblico e antico studiato per secoli nelle nostre Università, ma negli ultimi anni sono cresciute le opere di finzione dal mondo arabo, grazie all’impegno di ottimi traduttori e case editrici indipendenti e coraggiose (si pensi allo sforzo delle edizioni e/o, della casa editrice Tamu e di Jouvence che ospita una collana di narratori arabi diretta dalla studiosa Isabella Camera d’Afflitto). Tra gli autori da ricordare ci sono anche l’israeliano Etgar Keret che ha fatto scuola con i suoi racconti surreali e grotteschi, e il critico Samir El-Youssef, palestinese-britannico, autore anche di diversi racconti sulla Palestina.

Invitiamo chiunque sia interessato a segnalare e aggiungere altre opere scrivendo a redazione@altreconomia.it.

All’indomani del riacuirsi del conflitto è tornato di attualità l’ultimo libro di uno scrittore irlandese molto apprezzato “Apeirogon” di Colum McCann (Feltrinelli 2021). Si tratta di un’epica mescolanza di realtà e finzione, strutturata con richiami alle “Mille e una notte”. L’apeirogon del titolo, una forma geometrica dal numero infinito di lati, è una metafora della complessità totale del conflitto israelo-palestinese. La narrazione non lineare intreccia le tragedie che colpiscono due padri su fronti opposti del conflitto, svelando il ciclo infinito degli orrori e delle paure che la storia ripete implacabilmente. Rami Elhanan, israeliano, ha visto sua figlia Smadar, 13 anni, perdere la vita in un attentato suicida, mentre Bassan Aranin, palestinese, ha subito la stessa terribile perdita con sua figlia Abir, 10 anni, uccisa da un militare di un checkpoint mentre era fuori dalla scuola. Questi padri, straziati dal dolore, scoprono un legame umano al di là delle divisioni politiche, trovando conforto e speranza nella loro sofferenza, impegnandosi a rompere il ciclo di morte, dolore, brutalità e violenza che affligge il conflitto. La narrazione avvincente e speculativa di McCann si presenta come un’opera onnicomprensiva e frammentaria, composta da pezzi apparentemente casuali di una straordinaria narrazione: fatti storici, arte, religione, mitologia, poesia, natura, matematica, memoria, filosofia, letteratura, e persino dettagli su uccelli e molto altro. Questi elementi si uniscono come tessere di un enorme e complesso puzzle, rivelando lentamente un quadro di connessioni sorprendenti. Profondo, commovente, e coinvolgente, l’opera è contrassegnata da un dolore straziante ma allo stesso tempo animata da una speranza incrollabile.

Ultimamente lo sforzo degli intellettuali è stato quello di interrogarsi sulle cause storiche del conflitto. È il caso dell’architetta palestinese Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, che ha scritto “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori 2020). Il romanzo ricostruisce la vita a Giaffa nel 1947, una città viva di mercati, caffè, strade affollate, aperta sul mare pescoso e chiusa da distese immense di aranceti profumati. Subhi, il protagonista, è un ragazzo che sogna di diventare il miglior meccanico della città. È in effetti un talento e quando riesce a riparare una pompa di irrigazione, il ricco uomo d’affari che lo ha messo alla prova gli regala, in segno di riconoscenza, un abito inglese. Subhi quell’abito sogna di indossarlo, malgrado il caldo, per fare colpo sulla ragazza dei suoi sogni. Ma l’apparente quotidianità viene interrotta dai rivolgimenti della storia: gli inglesi, che da oltre vent’anni amministravano la Palestina, dichiarano concluso il loro mandato e finiscono con il fomentare le già forti tensioni tra gli ebrei sempre più numerosi e i residenti palestinesi. Nel 1948 arriva l’attacco deliberato, la Nakba, la catastrofe: le forze israeliane bombardano Giaffa, la occupano, la riducono a una città fantasma. Traditi gli accordi, sono disperse centinaia di famiglie, le abitazioni e gli aranceti sono espropriati, la vita quotidiana è sfigurata da uno Stato di polizia.

Il penultimo lavoro di una delle voci più apprezzate della moderna narrativa israeliana, Abraham Yehoshua, scomparso nel 2022, è un’allegoria sul rapporto tra Israele e Palestina. Una vicenda intima che si intreccia a doppio filo con quella collettiva e politica dei due popoli, vicinissimi eppure così distanti dal trovare un modo per esistere insieme. “Il tunnel” di Yehoshua (Einaudi 2018) racconta la storia di Zvi Luria, ingegnere autostradale in pensione, che, per contrastare il principio demenza senile o di Alzheimer, si offre come volontario ai suoi ex colleghi per supervisionare la costruzione di una strada nel deserto del Negev. Il problema è che in parallelo c’è un progetto militare segreto, la costruzione di tunnel, proprio sotto la collina dove vive, per lo più di nascosto, una famiglia palestinese.

Nel tempo alcune opere hanno saputo giocare con i generi, come il giallo, toccando anche alcuni temi tabù come la violenza e il terrorismo. È il caso de “L’attentato” di Yasmina Khadra (Sellerio 2016) che racconta la storia del dottor Amin Jaafari, chirurgo in un ospedale di Tel Aviv, arabo e cittadino israeliano. Rispettato e ammirato dalla sua comunità, la sua vita viene sconvolta quando tra le vittime di un attentato mortale in un caffè locale, che vengono portate nel suo ospedale, c’è anche la sua amata moglie. Nei giorni dopo l’attentato, le forze di sicurezza iniziano a interrogarlo perché, apparentemente, il corpo della donna porta i segni di essere lei l’attentatrice. Il romanzo è strutturato come un’inchiesta, visto che il protagonista non si arrende all’evidenza e intraprende una crociata per infiltrarsi nella resistenza palestinese. Yasmine Khadra è un nome d’arte scelto dallo scrittore algerino Mohammed Moulessehoul per evitare la censura nel suo Paese.

Il melodramma, cioè la storia d’amore contrastata, è uno dei tipi letterari più antichi e apparentemente innocui. Non è il caso di “Borderlife” di Dorit Rabinyan (Longanesi 2016) un romanzo che racconta la storia d’amore tra una donna israeliana e un uomo palestinese, addirittura vietato nelle scuole israeliane. Quando Liat incontra Hilmi a New York, in un pomeriggio d’autunno al Greenwich Village, si scopre involontariamente attratta da lui. Carismatico e affascinante, Hilmi è un giovane artista di talento proveniente dalla Palestina. Liat, aspirante studentessa di traduzione, progetta di tornare in Israele l’estate successiva. Bandito, appunto, dalle aule scolastiche dal ministero dell’Istruzione israeliano, il romanzo della giovane scrittrice israeliana Dorit Rabinyan contiene molte cose, tra cui un ritratto generazionale, come una riflessione sull’identità di una donna cresciuta in Medio Oriente, che cosa significa fare in conti con un’entità araba così vicina e così distante.

Anche la graphic novel e il reportage giornalistico a fumetti hanno raccontato il conflitto. Un esempio è “Cronache di Gerusalemme” di Guy Delisle (Rizzoli 2011). Nel 2008 Delisle e la sua famiglia hanno trascorso un anno della propria vita a Gerusalemme, dal Canada, per partecipare a una missione di Medici Senza Frontiere. Trovano casa a Beit Hanina, un quartiere nella zona est della città che sin dalla prima passeggiata si mostrerà, in tutta la sua desolazione, decisamente diverso dalla Gerusalemme propagandata dalle guide turistiche, si destreggeranno più o meno goffamente in una quotidianità fatta di checkpoint e frontiere -teatro di perquisizioni e infiniti quanto surreali interrogatori-, delle mille sfumature di laicità e ultra-ortodossia, di tensioni feroci e contrasti millenari, e della disperata speranza, della rabbia e della frustrazione del popolo palestinese, in lotta ogni giorno contro l’occupazione, devastato dall’atrocità di un attacco (la tristemente nota “Operazione Piombo Fuso”) di cui l’autore si trova a essere un basito spettatore. Una quotidianità condizionata dunque da grandi questioni, eppure fatta, come ogni altra, di piccoli momenti, narrati dall’autore nel suo stile ironico di osservatore partecipante.

Le saghe famigliari, molto presenti nella tradizione ebraica (si pensi tra le tante alla “La famiglia Karnowski” di Israel J. Singer) si sono imposte anche nella narrativa araba. C’è un libro recente che è diventato un piccolo classico, si tratta di “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa (Feltrinelli 2006) è un romanzo epico moderno che racconta la storia di quattro generazioni di una famiglia palestinese a partire dal 1948, anno della Nakba, la catastrofe palestinese. Il romanzo di Abulhawa, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2006 in inglese, segue la famiglia Abulheja, Yehya e Basima e i loro due figli, a Ein Hod, un villaggio in Palestina. L’incipit del romanzo racchiude in appena 50 pagine molte cose: un’amicizia interconfessionale, un melodramma (entrambi i fratelli si innamorano di Dalia, che sposa il figlio maggiore, Hasan), una morte, l’invasione sionista del villaggio e il furto di uno dei figli di Hasan e Dalia, il piccolo Ismael, da parte di un soldato israeliano. Il bambino viene affidato alla moglie, una polacca sopravvissuta all’Olocausto. Figlia di rifugiati palestinesi negli Stati Uniti della Guerra dei sei giorni del 1967, l’autrice ha saputo restituire le vari fasi della questione palestinese, senza essere didascalico o semplicistico. Per questo è ancora considerato un piccolo classico.

Nel 1988 lo scrittore Philip Roth, autore di alcuni masterpiece del Novecento statunitense come “Pastorale americana”, va a Gerusalemme ad assistere al processo a Ivan il terribile, colui che azionava la camera a gas del campo di concentramento di Treblinka, uno degli ultimi assassini della Shoah processati in Israele. In quel viaggio gli viene l’idea di scrivere una commedia, una spy story controfattuale: che cosa succederebbe se uno sconosciuto sosia ti rubasse il nome, usurpasse la tua biografia e andasse in giro per il mondo fingendo di essere te? In “Operazione Shylock: una confessione” (Einaudi 1993), Roth si confronta con il suo doppio, un impostore il cui compito autoproclamato è quello di ricondurre gli ebrei in Europa da Israele, fondatore del cosiddetto diasporismo, il movimento anti-sionista. Il “falso” Philip Roth diventa una nemesi per il “vero” Philip Roth, che deve intraprendere un viaggio attraverso l’instabile Medio Oriente. Esilarante e appassionante, il romanzo è allo stesso tempo una spy story, un thriller politico e una confessione sulla propria identità, che pulsa di intelligenza e di intensa energia narrativa, un pretesto paradossale per esprimere le proprie opinioni, ancora molto attuali, su Israele.

Un capolavoro del graphic novel moderno è “Palestina” di Joe Sacco (Mondadori 1993). Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Joe Sacco ha trascorso due mesi in Israele e nei Territori occupati, viaggiando e prendendo appunti. Ha vissuto nei campi palestinesi, condividendone la vita (o meglio, la sopravvivenza) in mezzo al fango, in baracche di lamiera arrugginita, tra coprifuoco e retate dell’esercito israeliano. Risultato del suo meticoloso lavoro d’inchiesta è questo volume che, combinando la tecnica del reportage di prima mano con quella della narrazione a fumetti, riesce a dare espressione a una realtà tanto complessa e coinvolgente come quella del Medio Oriente. Oltre allo sguardo crudo e devastante sulla vita in Palestina, il ritratto di Sacco stesso è un altro ingrediente fondamentale di questo libro. L’autore non si ritrae come l’eroico disinteressato o l’osservatore brillantemente distaccato, ma come una persona con le proprie motivazioni e debolezze personali, con cui il lettore può relazionarsi.

Andando più indietro nel tempo, vale la pena ricordare “Il sorriso dell’agnello” l’esordio di David Grossman (Mondadori 1988), nel quale si racconta la storia di Uri, un giovane soldato israeliano idealista che presta servizio in un’unità dell’esercito nel piccolo villaggio palestinese di Andal, nei territori occupati, e del suo rapporto con Khilmi, un vecchio cantastorie palestinese quasi cieco. A poco a poco, mentre la realtà violenta dell’occupazione, che contagia sia l’occupante che l’occupato, il protagonista cerca di risolvere gli enigmi e gli inganni che costituiscono la sua vita. Grossman, da allora, ha sempre pubblicato interventi e opere sul tema della pace e della riconciliazione. È uno degli autori più importanti e inascoltati oggi in Israele.

La rassegna si chiude con uno degli autori più importanti della narrativa ebraica moderna. “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz (Feltrinelli 1985) è un romanzo autobiografico che racconta la storia di un ragazzo ebreo che cresce in Israele durante gli anni della guerra arabo-israeliana. Può essere descritto come una testimonianza storica, un monumento letterario alla creazione di una nuova nazione che è nata nel sangue, si è nutrita di atrocità ed è riuscita a sopravvivere oltre ogni aspettativa. Allo stesso tempo, le forze dell’amore e dell’oscurità che, insieme alla nascita di Israele, plasmano il carattere di un giovane ragazzo, l’autore stesso, sono registrate sotto forma di elegia poetica. La narrazione opera su molti livelli, storico, filosofico, politico, sociale, che vengono mescolati. Le esperienze di Oz e il loro impatto su di lui e sulla sua famiglia si rivelano come un’autobiografia triste, ricca di sfoghi ciclici, di tentativi falliti, di nostalgia per desideri non realizzati, di frustrazione e di infiniti silenzi. Una passeggiata storica -senza ordine cronologico, dall’Europa orientale a Gerusalemme- nella quale vengono descritte le controverse relazioni tra gli ebrei e i popoli di Polonia, Cecoslovacchia, Russia e lo sviluppo dell’intero ideale sionista. L’espulsione dei nonni di Oz e di tutti gli ebrei e la loro fuga in Palestina per evitare un tragico destino di morte è raccontata con abbondante lirismo. Le foreste oscure della campagna russa fanno da sfondo alle atrocità naziste, in particolare in Ucraina, il luogo da cui proviene la famiglia di sua madre. Oz, scomparso nel 2018, ha sempre difeso il suo sionismo socialista delle origini, in opposizione al governo di destra degli ultimi anni, rifiutando anche l’idea di unico stato binazionale. Da un punto di vista storico ha individuato il colonialismo e l’antisemitismo come le due grandi derive catastrofiche dello stato nazione europeo fino al 1945. Il 3 giugno 2018, all’Università di Tel Aviv, Amos Oz tiene la sua ultima conferenza. Gravemente malato e consapevole della sua imminente fine, le sue parole risuonano come un testamento politico. Fervente difensore della pace, invoca la soluzione dei due stati in Medio Oriente, leitmotiv del suo lavoro e delle sue lotte. Quella lezione è stata pubblicata da Feltrinelli con il titolo “Resta ancora tanto da dire”.

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