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Aids, dov’è il vaccino
Sono passati 16 anni dall’annuncio dell’antidoto italiano all’Hiv. Il Paese ha stanziato 49 milioni di euro, ma il progetto non ha raggiunto i risultati previsti —
Nel 2012 l’Agenzia delle Nazioni unite per la lotta all’Aids (Unaids) stimava che in tutto il mondo vi fossero almeno 35,3 milioni di persone con diagnosi di positività all’Hiv. Le “nuove” infezioni globali, relative al solo anno preso in esame (il 2012), avrebbero invece interessato 2,3 milioni di donne, uomini, e tra loro almeno 260mila bambini, alla drammatica media complessiva di 6.300 persone al giorno. Sette nuove infezioni su dieci avvenivano (e continuano farlo) -sempre secondo Unaids- nell’Africa sub-Sahariana. Il virus, però, s’allunga anche sul nostro Paese. Il Centro operativo Aids (Coa), in seno all’Istituto superiore di sanità (Iss), ha infatti conteggiato -nello stesso anno preso in esame da Unaids (2012)- 94.146 persone viventi con l’Hiv in Italia. Di queste, 23mila alla fase ormai avanzata della malattia (cosiddetto “stadio conclamato”). Un dato che, seppur sottostimato, fa il paio con le 3.853 nuove diagnosi di infezioni italiane nel solo anno 2012 (10,5 infezioni al giorno). Ognuna delle persone freddamente elencate ha un nome e una storia particolare, ma ciascuna -inconsapevolmente- condivide da almeno 16 anni (esattamente nel mese di maggio) un interesse, un’esigenza. Che è quella di conoscere come sia andata a finire l’avventura del “vaccino italiano” contro l’Aids. Ed è un diritto in capo però ad ogni cittadino italiano che, in qualità di contribuente, ha sostenuto, finanziato e supportato un progetto di ricerca dell’Istituto superiore di sanità che venne presentato da chi l’ha condotto sino ad oggi come “l’unico modo vero per combattere l’infezione in tutto il mondo” (Il Messaggero, 16 maggio 1998). Un dichiarato “unico modo” che, dopo sedici anni di speranze e di promesse (“sarà pronto tra due anni”, si diceva), ha beneficiato di fondi pubblici (almeno 49 milioni di euro secondo quanto si riesce a ricostruire sommando gli impegni di spesa annunciati) ma raggiunto traguardi controversi. E, da ultimo, imboccato la strada della privatizzazione.
L’antidoto in rassegna
L’anno è il 1998 e il titolo è de Il Messaggero: “Contro l’Aids un vaccino made in Italy”. La ricetta messa a punto dalla dottoressa Barbara Ensoli -vice presidente della Commissione nazionale per la lotta contro l’Aids e direttore del Centro nazionale Aids in seno all’Iss- e dal suo team di ricerca punta tutto su una proteina virale, la Tat. “La Tat potrebbe avere una duplice applicazione -spiegava Ensoli nel maggio 1998 al quotidiano capitolino- sia di tipo preventivo sia di tipo terapeutico”. L’attesa e le speranze, ovviamente, sono rivolte al vaccino preventivo. Il Corriere della Sera, nell’ottobre dello stesso anno, paragona la ricerca scientifica e biomedica ad una corsa campestre: “Vaccino anti-Aids: l’Italia è prima”. E se l’entusiasmo dell’allora titolare del ministero della Salute (Rosy Bindi) era palpabile (“Straordinario successo della nostra ricerca pubblica”) e il sostegno dei vertici dell’Iss -nella persona dell’allora presidente Enrico Garaci- totale, l’approccio di buona parte della comunità scientifica internazionale fu critico. Per il semplice fatto che già dal 1995, come racconta Robert Gallo -noto virologo statunitense che nel 1983 contese al professore francese Luc Montagnier la scoperta del virus Hiv- nella prefazione al libro inchiesta “Aids, lo scandalo del vaccino italiano” di Vittorio Agnoletto e Carlo Gnetti (Feltrinelli, 2012), gli effetti della Tat erano “marginali o quantomeno modesti”. Quella della dottoressa Barbara Ensoli (e del suo gruppo) è una “corsa”, come la definisce La Stampa, per “sconfiggere la malattia del secolo”. E come ogni corsa si articola per tappe (o fasi). Nel caso del “vaccino italiano” sono inizialmente due: fase preclinica (ricerca di laboratorio e sperimentazione sugli animali) e fase clinica (sull’uomo).
Quest’ultima è composta a sua volte da tre fasi (volte a verificare la sicurezza del potenziale vaccino -e cioè che non produca danni alla salute- e la sua efficacia).
Pronti, partenza, via
Tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 prende avvio la fase I di sperimentazione. I centri clinici coinvolti sono tre: il Policlinico Umberto I e l’Istituto di ricerca scienfica Spallanzani di Roma, e l’Ospedale San Raffaele di Milano. All’Ospedale Ifo San Gallicano di Roma spetta invece il compito dell’analisi dei dati, un ruolo centrale perché da quei risultati è possibile verificare l’esito, successo o fallimento, delle diverse fasi. Ad un certo punto della sperimentazione, però, il direttore del laboratorio viene sostituito con Fabrizio Ensoli, fratello di Barbara.
Prima ancora che siano elaborati correttamente i dati, intanto, il primo luglio 2005 viene organizzato al Campidoglio -sede del Comune di Roma- un evento pubblico per celebrare i risultati della fase I (e rinvigorire l’attenzione della stampa). È uno “strappo”, secondo il professor Fernando Aiuti -uno dei “conduttori” della sperimentazione cui non viene data la possibilità di vedere con anticipo i dati della sperimentaazione-. “Siamo sulla strada giusta, ne sono sicura” dichiara nel dicembre 2005 Barbara Ensoli ai quotidiani, a ridosso dell’annuncio dell’allora ministro della Salute Francesco Storace di un finanziamento triennale di 21 milioni di euro destinato al “vaccino anti-Aids”. Ma non è solo il dicastero di viale Giorgio Ribotta a sostenere l’iniziativa. All’applicazione “terapeutica”, infatti, per la quale è prevista una fase di sperimentazione in Sudafrica, si muove anche il ministero degli Esteri, area “cooperazione italiana allo sviluppo”, che annuncia 28 milioni di euro a partire dal 2008 per l’Iss (in parte destinati anche allo spezzone “preventivo”).
“L’Italia fa centro”
Il 13 novembre 2010 è Il Sole 24 Ore a dar conto dei “promettenti risultati” della fase II dello spezzone terapeutico del “vaccino”. Come nel 2005, però, il team diretto da Barbara Ensoli -supportati dai vertici dell’Iss che parlano di un “modello perfetto di ricerca traslazionale pubblica” (Enrico Garaci)- bruciano le tappe, annunciando gli esiti “entusiasmanti” quando i test negli 11 centri clinici coinvolti non sono ancora conclusi. “Troveremo i finanziamenti necessari nell’interesse dei malati”, assicurava l’allora ministro competente Ferruccio Fazio alla luce del “trionfo” celebrato anche sulle pagine de Il Messaggero. L’euforia, però, impedisce a una parte degli osservatori di accorgersi del progressivo temperamento dell’entusiasmo relativo all’altra applicazione del vaccino, quella “preventiva” -che aveva di fatto attratto gran parte dell’attenzione mediatica sul “primato italiano”-, che alla Tat ha dovuto però affiancare la proteina Env di Novartis come “componente vaccinale”, cambiando così disegno clinico e ripartendo, nel settembre 2011, di nuovo dalla fase I -a 13 anni dall’annuncio-.
16 anni più tardi
Per capire a che punto sia arrivata la “corsa” del gruppo di ricerca e delle due componenti del suo “vaccino” è sufficiente esaminare la tabella riassuntiva sullo “stato dell’arte delle sperimentazioni cliniche” pubblicata sul sito internet dell’Istituto superiore di sanità, che del progetto di ricerca è finanziatore. E se il cosiddetto “vaccino terapeutico” è entrato nella seconda fase di sperimentazione in Sudafrica ed è attualmente “in corso” (Ae va in stampa il 17 aprile), quello preventivo -ripartito dalla prima fase nel settembre 2011 e testato su 11 partecipanti- si è bloccato il 24 marzo 2014. A certificarlo è un asterisco -ben più discreto rispetto ai titoli datati 1998- dov’è riportata la “sospensione” dell’arruolamento per la “non conformità” della proteina Env di Novartis alle nuove linee guida europee in materia di requisiti di documentazione di qualità relativa ai prodotti impiegati nelle sperimentazioni cliniche (l’Iss, però, scrive in tabella che lo stato di avanzamento è “completato”, termine che è leggermente differente dallo stadio “terminated” indicato dal servizio ClinicalTrials.gov, dell’U.S. National Institutes of Health).
L’operazione Vaxxit
Il cammino del vaccino preventivo, dunque, si è inceppato, mentre la componente “terapeutica” ha imboccato una nuova strada, che parte dalla sede centrale dell’Istituto superiore di sanità -viale Regina Elena, Roma- e conduce direttamente alla sede legale di via Dei Valeri (sempre Roma) di una piccola società dal capitale sociale di 10mila euro costituita nel luglio del 2012: la Vaxxit Srl. Ed è la società cui, a seguito della richiesta della dottoressa Ensoli, è stato attribuito il brevetto del TatImmuneTM -la componente vaccinale in uso nella sperimentazione per il vaccino terapeutico-. Il 70% delle quote di questa società fa capo alla dottoressa Barbara Ensoli, cui si affianca, con il restante 30%, la 3 I Consulting Srl, che vede come amministratore unico Giovan Battista Cozzone. La prima non è un’omonima, mentre il secondo è un esperto di brevetti che dal maggio del 2009 ha ricoperto l’incarico quadriennale di consulente per conto (e perciò nell’interesse) dell’Istituto superiore di sanità in materia di “trasferimento tecnologico” (per un importo complessivo di 393mila euro). Sul sito internet della società (vaxxit.com) è sintetizzato il perché della sua nascita: “il nostro obiettivo è raccogliere fondi per l’ulteriore sviluppo clinico e le attività di pre-marketing di TatImmuneTM, un vaccino terapeutico Hiv che ha completato con successo uno studio clinico di fase II su 168 pazienti in Italia ed è attualmente in fase di sperimentazione in fase II in Sudafrica”. Un desiderio che ha preso forma. Il 4 marzo 2014, infatti, il consiglio di amministrazione dell’Istituto superiore di sanità presieduto da Fabrizio Oleari (che ha sostituito Enrico Garaci) si riunisce per discutere dello “stato dell’arte del vaccino”. “La fase che il programma vaccino ha raggiunto -si legge nella delibera n. 7- impone il suo trasferimento dal settore pubblico, dove ha raggiunto i limiti massimi sostenibili in termini di investimenti finanziari, al settore privato […] per le connesse successive fasi di registrazione e industrializzazione”. Ed è per questo che “al fine di reperire le risorse necessarie […] si rende necessario concedere a Vaxxit Srl una opzione di licenza esclusiva (della durata di 18 mesi) per l’utilizzo dei suddetti brevetti”: è cioè i brevetti Tat di proprietà dell’Iss, precedenti al TatImmuneTM. La decisione è assunta “all’unanimità”, e il ministero della Salute, ora guidato da Beatrice Lorenzin, non interviene. La scelta va però analizzata attentamente. Non solo perché del “vaccino preventivo” si son perse le tracce, ma soprattutto perché il settore pubblico -l’Iss, il contribuente- ha posticipato ogni “negoziazione dei relativi accordi economici”.
“Concedere la licenza esclusiva di un brevetto senza trasparenza su quanto finora si è dichiarato di aver raggiunto sembra più simile ad un’abdicazione degli interessi collettivi e a una svendita del patrimonio di ricerca pubblica -spiega Gianni Tognoni, direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud-. Da parte ‘privata’ (strana definizione a sua volta in questo caso) non appare nessun rischio, né impegno a reinvestire nella ricerca pubblica. Si potrebbe anzi supporre che un eventuale annuncio di un vaccino terapeutico in tempi brevi potrebbe attrarre capitali importanti”. Quei capitali che sta provando a raccogliere anche l’Associazione italiana vaccino Aids (Aiva Onlus, aivaonlus.it), che “si propone di contribuire a sostenere le attività necessarie alla messa a punto di un vaccino contro questa grave infezione” e che vede come vice-presidente Gherardo Cafaro, figlio di Barbara Ensoli.
Né lei -interpellata nella sua duplice veste di ricercatrice Iss e socia di Vaxxit Srl- né Giovan Battista Cozzone, però, hanno accettato di rispondere alle domande di Altreconomia. “Già con il nostro libro -afferma Vittorio Agnoletto- cercammo di fare chiarezza su questo progetto, che non solo non ha raggiunto i risultati attesi, ma che porta con sé molti interrogativi sul suo percorso scientifico. Il tutto mentre troppe persone, illuse dal prossimo arrivo del vaccino, potrebbero aver abbandonato i necessari comportamenti preventivi”. —