Finanza / Opinioni
A chi fa paura (e a chi fa gioco) l’annunciata “economia delle opportunità” di Kamala Harris
Sostegno annunciato all’edilizia popolare privata e contrasto alle speculazioni sui prezzi, ma anche primato militare mondiale per battere la Cina a suon di spesa pubblica e intoccabilità della finanza, specie quella dei grandi fondi come BlackRock, Vanguard e State Street. Sarà in grado di scalfire i super ricchi? L’analisi di Alessandro Volpi delle ricette della candidata democratica
Kamala Harris si è presentata in North Carolina con un programma volto a difendere la classe media, peraltro individuata nei possessori di reddito fino a 400mila dollari annui, impegnato in un’azione di sostegno all’edilizia popolare privata e con l’indicazione di una strategia di contenimento delle speculazioni sui prezzi. Un programma generico, su cui torneremo tra poco, che la candidata democratica ha definito economia delle opportunità. Tuttavia, il riferimento alla volontà di ostacolare le speculazioni sui prezzi ha spaventato i Big three, i grandi fondi BlackRock, Vanguard e State Street, che hanno investito sui democratici per evitare “l’altro capitalismo” domiciliato presso il clan di Trump.
Così è uscito il New York Post con un titolo gridatissimo in cui la Harris era definita “comunista” proprio per il fatto di voler controllare i prezzi e aumentare la spesa federale. È bene sottolineare, in proposito, che il Post è di proprietà della News Corp., nel cui azionariato compaiono Rupert Murdoch e gli stessi Big three (questi ultimi con oltre il 20%). Risulta chiaro che i super fondi siano stati solerti a usare un veicolo trumpiano per far capire ad Harris che cosa non può fare. In pratica non può fare politica contro il monopolio delle speculazioni.
Nel frattempo la rappresentanzione di Harris come “donna di sinistra” sta raccogliendo consensi non così scontati. Per la Repubblica un compiaciuto Paolo Mastrolilli ha intervistato Bernie Sanders, “l’unico senatore socialista” americano. Il compiacimento di Mastrolilli deriva dalla dichiarazione di convinto, quasi adorante, sostegno di Sanders a Harris. Partendo dal presupposto che Trump è un pericoloso fascista, Sanders si profonde in elogi per Biden, il presidente più “progressista” della storia moderna statunitense e invita a votare per Harris perché ne continui l’opera. Certo, aggiunge Bernie, bisognerà battere la resistenza dell’1% della popolazione costituita dai super ricchi che, aggiunge, “non sono stati mai così bene”.
Il senatore “socialista” non sembra ricordare che i super ricchi stanno così bene perché gli ultimi presidenti, Biden certamente compreso, hanno fatto di tutto per agevolarli. Lo stesso Sanders sembra trascurare anche il modo in cui la candidata Kamala Harris, a Chicago, ha sintetizzato la sua politica estera ed economica: gli Stati Uniti devono avere il primato militare mondiale per battere la Cina. In sintesi, commesse alle grandi società di produzione di armi degli Stati Uniti che vedranno salire i propri profitti e registreranno un’impennata dei prezzi dei loro titoli azionari. Il primato militare significa infatti ulteriore crescita dei valori azionari di società di armi, di quelle dell’intelligenza artificiale e di quelle dell’energia. È superfluo dire che le principali azioniste di tali società sono i tre fondi detti sopra, BlackRock e Vanguard in particolare, a cui giova certamente il conflitto costante con la Cina come strumento di difesa della filiera produttiva di Taiwan e come mezzo di pressione globale a difesa della dollarizzazione. In pratica si profila un’economia di guerra in clima di guerra fredda. Harris assomiglia molto di più al primo Eisenhower che a Roosevelt.
A favore di Harris è sceso in campo anche Jerome Powell, presidente della Federal reserve. Dopo mesi di resistenza a qualsiasi riduzione dei tassi, nonostante il regredire dell’inflazione e l’evidente rischio di recessione, il numero uno della banca centrale statunitense si è presentato a Jackson Hole e ha annunciato che è giunto il momento di mettere mano ai tassi. È evidente che una simile dichiarazione serve a scongiurare un peggioramento ulteriore delle condizioni americane a ridosso delle elezioni e a creare una ondata di nuove assunzioni, soprattutto nelle fasce più povere di popolazione, per sottrarre a Trump l’argomento del fallimento economico di Biden in termini di impoverimento della gran parte della popolazione del Paese.
La vicenda Powell, in questo senso, è molto interessante. Collaboratore di Nicholas Brady, sottosegretario al Tesoro con Bush, si è legato a Carlyle group e ha creato una propria banca d’affari privata, per entrare poi nel board della Federal reserve, insieme a Jeremy Stein, su designazione dell’allora presidente Obama. Nominato da Trump nel febbraio del 2018 alla guida della Federal reserve, in sostituzione di Janet Yellen, considerata troppo vicina ai democratici, è stato confermato da Biden, durante la cui presidenza ha sposato la linea del contrasto all’inflazione con una politica monetaria restrittiva che ha certamente favorito i grandi detentori del risparmio gestito -cioè i Big three– togliendo liquidità ai mercati e contribuendo, al contempo, a reggere la dollarizzazione perseguita dallo stesso Biden per finanziare la sua ingente spesa federale, costruita sul debito.
È chiaro infatti che gli Stati Uniti vogliono continuare a drenare risparmio da tutto il mondo per finanziare la propria economia, ma per pagare tassi così alti in modo da attrarre i risparmiatori globali hanno bisogno che il dollaro sia l’unica valuta mondiale, accettata sia in termini finanziari sia in termini geopolitici. In tale ottica, Biden ha preferito la strada dell’ingigantimento della spesa federale per finanziare la ripresa di un’economia produttiva negli Stati Uniti, resa possibile dal dollaro forte, rispetto a una dinamica di natura concorrenziale agevolata da tassi d’interesse più bassi. Peraltro Trump aveva annunciato di voler rimuovere Powell per le sue politiche monetarie restrittive e per le resistenze verso le criptovalute.
Lo scontro elettorale in corso si conferma un conflitto all’ultimo sangue interno al capitalismo finanziario statunitense. Con due dati comuni agli schieramenti. Il primo. La centralità della finanza: Musk, Thiel, i fondi hedge da una parte e i Big three dall’altra. Il secondo. L’affermazione della indispensabilità del primato militare americano, sostenuto da una gigantesca spesa pubblica. È difficile capire, alla luce di ciò, gli entusiasmi dei “turisti politici” italiani alla convention di Chicago.
Un esempio semplice per comprendere che cosa significa la dichiarazione di Kamala Harris in merito alla necessità assoluta che gli Stati Uniti abbiano per sempre il primato militare mondiale: durante gli ultimi due anni della presidenza Biden la quantità di proiettili da 155 millimetri è passata da 14.400 unità al mese a 36mila con l’obiettivo di raggiungere le 100mila unità entro il 2025. Un investimento colossale, pagato con un debito federale dollarizzato, di cui beneficeranno soprattutto quattro aziende: Lockheed Martin, Raytheon, Northrop Grumann e Boeing. Guarda caso si tratta di società partecipate al 25% dai Big three che, sempre per puro caso, sono diventati azionisti delle società che si occupano delle materie prime necessarie a produrre proiettili, a cominciare dal rame. Questo significa primato militare degli Stati Uniti.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
© riproduzione riservata